Navyanyaya (o Navya Nyaya)
(o Nāvya Nyāya) Termine sanscr. («nuovo Nyāya») usato per indicare la letteratura risultante della sintesi di Nyāya (➔) e Vaiśeṣika (➔). Gli esordi del N. sono in genere ricondotti a Gaṅgeśa (13°-14° sec.), che fu il primo a utilizzare un particolare lessico tecnico per trattare i concetti Nyāya-Vaiśeṣika.
Il Tattvacintāmaṇi («Gemma dei desideri della vera essenza [dei mezzi di retta conoscenza]»), trattato composto da Gaṅgeśa, è spesso considerato la pietra miliare del N., anche se alcuni tratti distintivi della scuola possono essere rintracciati già in autori precedenti come Udayana, Jayanta Bhaṭṭa e Bhāsarvajña (➔ Nyāya). Tra i numerosi commentatori dell’opera di Gaṅgeśa, è importante menzionare Jayadeva (o Pakṣadhara Miśra) e i suoi diretti discepoli Vāsudeva Sārvabhauma, Rucidatta Miśra e Raghunātha Śiromaṇi. Autori più tardi ma altresì importanti sono Jagadīśa, Mathurānātha e Gadādhara (17° sec.), che contribuirono a chiarire molti passaggi criptici di Raghunātha. Centrale nel N. è la scrupolosa attenzione dedicata alle definizioni dei più importanti concetti nella teoria dell’inferenza (anumāna), tra cui la vyāpti. Due aspetti del Tattvacintāmaṇi saltano immediatamente all’occhio come innovativi e precipui della tradizione N.: la struttura del trattato, diviso in quattro parti corrispondenti ai quattro strumenti gnoseologici (pramāṇa) accettati dal Nyāya, e soprattutto la tecnica esplicativa. Gaṅgeśa sviluppa i suoi argomenti introducendo dapprima una o più definizioni offerte da un oppositore (reale o ipotetico), per procedere poi a metterle alla prova, correggerle, rimetterle alla prova, e così via fino ad accettarle o scartarle a seconda dei casi. Propone poi una propria definizione e la sottopone allo stesso vaglio critico. Il metodo espositivo di Gaṅgeśa e dei suoi successori dà quindi grande peso all’accuratezza delle definizioni dei principi trattati, e molti termini usati nell’analisi delle definizioni vanno a formare il complesso bagaglio terminologico della scuola, che sarà poi largamente adottato anche dalle altre tradizioni filosofiche indiane.
Tipico della tecnica definitoria adottata dal N. per circoscrivere un referente con la massima precisione è l’uso di termini astratti che si riferiscono a inequivocabili caratteristiche (dharma) possedute dalla cosa (dharmin) di cui si parla. L’uso di questi termini astratti è forse l’aspetto più marcato di una terminologia che mira a evitare ogni possibile ambiguità alla ricerca della definizione perfetta. Per es., per dare una definizione inattaccabile di ‘bovino’, ci si preoccuperà di individuare il dharma comune a tutti i bovini, la ‘bovinità’, che non è solo inteso come l’universale, bensì ha la valenza di ‘proprietà’, ‘qualità’, ‘classe’ o ‘universale’ a seconda delle applicazioni (➔ universali, teorie indiane degli). Ogni dharma ha un relazione peculiare con il suo dharmin e Gaṅgeśa sviluppa a questo proposito un’elaborata teoria delle relazioni. Il Vaiśeṣika si limitava a considerare relazioni come inerenza, unione e disgiunzione all’interno di una classificazione ontologica articolata in sette categorie (padārtha): sostanza, qualità (che comprende anche unione e disgiunzione), azione, generalità, particolarità, inerenza e assenza. Ma ogni individuo incluso in una di queste categorie si trova potenzialmente nella posizione di possedere una relazione con un altro individuo della stessa o di altre categorie. La realizzazione dell’innumerevole varietà di queste specifiche relazioni conduce, nel N., a considerare le relazioni in termini biunivoci tra due elementi. Da Gaṅgeśa in poi tutte le relazioni cominciano a essere analizzate come relazioni tra due termini chiamati, a seconda dei casi e del tipo di relazione, soggetto e oggetto della relazione (anuyogin-pratiyogin), qualificandum e qualifica (viśeṣya-viśeṣaṇa), effetto e causa (kārya-kāraṇa), probandum e probans (sādhya-sādhaka), ecc. Inoltre, una relazione tra due termini s e p è una proprietà posseduta dal primo dei due termini, esprimibile come s(Rp), e può anche essere definita specularmente. Per es., il dato di fatto che «Daśaratha ha la relazione di padre di Rāma» corrisponde a «Rāma ha la relazione di figlio di Daśaratha». Attraverso la manipolazione dei vari tipi di relazione Gaṅgeśa riuscì a raggiungere soddisfacenti risultati nella descrizione della struttura interna degli asserti logici. Nell’esempio classico dell’inferenza (➔ anumāna) di fuoco sulla montagna a partire dalla percezione del fumo, per riferirsi al fumo in generale e non di un particolare fumo, si parlerà di fumo (dhūma) caratterizzato da ‘fumo-ità’ (dhūmatva). Per riferirsi al fumo come probans dell’inferenza, si parlerà di fumo caratterizzato da ‘probans-ità’. I termini relativi pratiyogin e anuyogin sono usati anche per indicare, per es., il fuoco come contrapposto all’assenza del fuoco in una relazione di assenza (abhāva). Questa definizione della relazione di assenza ha particolare importanza nelle teorie dell’errore (➔ pramāṇa) e degli universali. Un altro tipo di relazione molto usato è quello di limitazione (avaccheda), in senso sia attivo (avacchedakatva) sia passivo (avacchedyatva).
In N. l’analisi dell’inferenza (anumāna) ruota intorno alla relazione di «compresenza» o «pervasione» (vyāpti) tra probans e probandum. Un’inferenza valida si distingue dal fatto che in essa la presenza del probans in un locus dimostra la presenza del probandum e che quindi il probandum è necessariamente presente in presenza del probans. Per es., «la montagna ha il fuoco, perché ha il fumo» è un’inferenza valida perché tutti i casi di loci con fumo sono casi di loci con fuoco. La discussione sulla relazione di vyāpti verte da un lato sulla sua definizione e dall’altro su come essa possa essere appresa. Prima di Gaṅgeśa vi furono molti tentativi di definire tale relazione di compresenza e nel Tattvacintāmaṇi egli ne discute ben 29 che definiscono la compresenza come assenza di deviazioni, come assenza di ostruzioni e come un caso particolare di locus in comune tra probans e probandum. Per quanto concerne l’apprendimento della vyāpti, Gaṅgeśa trova insoddisfacente la sua giustificazione tramite l’osservazione ripetuta di un fenomeno, a causa dell’ambiguità dell’espressione «osservazione ripetuta» (osservazione di cosa? quante osservazioni?) e a causa del fatto che per un’inferenza convincente in certi casi è sufficiente una singola osservazione e in altri anche innumerevoli osservazioni sono inadeguate. La soluzione proposta da Gaṅgeśa sia per la definizione sia per l’apprendimento della vyāpti non mira a ridurre la certezza dell’inferenza a mera probabilità; Gaṅgeśa raccomanda infatti l’utilizzo di un’argomentazione ausiliaria, affine a una reductio ad absurdum, nei casi in cui insorga il dubbio sulla certezza della vyāpti.
Gli specifici connettivi che indicano le diverse relazioni logiche rendono le argomentazioni del N. molto sofisticate, artificiali e spesso astruse, al punto da risultare praticamente intraducibili in altre lingue senza coniare un apposito linguaggio tecnico, che per essere compreso deve a sua volta essere convertito dal lettore in un linguaggio comune o, per gli specialisti, in un linguaggio logico-matematico. Tale linguaggio tecnico, infatti, è difficilmente intellegibile senza la conoscenza e il consulto dell’originale sanscrito da parte del lettore.