Nazionalismi
«Le patriotisme, c’est aimer son pays. Le nationalisme, c’est détester celui des autres» (Charles de Gaulle)
Il mancato declino dello Stato nazionale
di
17 febbraio
Il Parlamento del Kosovo approva per acclamazione la dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia. Nelle settimane successive i parlamenti dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, repubbliche secessioniste della Georgia, inviano un appello per il riconoscimento della loro indipendenza a ONU, Russia, UE e OCSE. Sono solo alcuni esempi di come, smentendo le previsioni degli analisti, il fenomeno del nazionalismo nella situazione politica internazionale sembri rafforzarsi piuttosto che essere superato da un modello ‘globalizzante’.
Una previsione errata
Con la caduta del muro di Berlino nel 1989, la fine del comunismo nell’Europa orientale e il disfacimento dell’Unione Sovietica, sembrò che una nuova era di pacifica convivenza internazionale potesse seguire a quasi mezzo secolo di antagonismo fra le due maggiori superpotenze, ideologicamente contrapposte in uno stato di guerra fredda, vissuto attraverso alterne fasi di tensione e di distensione, ma sempre sotto l’incubo di un conflitto atomico. Alla speranza di una rifondazione di un ordine internazionale su basi pacifiche si accompagnava la convinzione, già da tempo diffusa, che la fine dell’epoca della guerra fredda avrebbe dato maggior impulso anche al superamento definitivo del fenomeno del nazionalismo, che per 200 anni aveva dominato la storia europea e mondiale, provocato due guerre mondiali e plasmato l’assetto politico del pianeta sulla base del principio e della realtà dello Stato nazionale come la massima forma di organizzazione collettiva, rigidamente contraddistinta dall’affermazione della propria sovranità entro confini territoriali considerati immutabili e intangibili. La fiducia nel superamento del nazionalismo e nella fine di rivalità, tensioni, conflitti e guerre che lo avevano accompagnato fin dal suo nascere appariva rafforzata dall’esempio dei popoli europei che, dopo essere stati artefici, protagonisti e vittime principali del nazionalismo e delle sue più efferate manifestazioni belliche, avevano cominciato a procedere, dopo la Seconda guerra mondiale, verso una limitazione della sovranità dello Stato nazionale per costruire una nuova comunità europea, unificata entro istituzioni democratiche sopranazionali.
Anche fra gli studiosi del nazionalismo, negli ultimi due decenni del secolo scorso, e ancor prima della fine del comunismo e dell’Unione Sovietica, prevaleva la convinzione che il fenomeno della nazione e dello Stato nazionale, sorto in una determinata fase della storia europea e mondiale, fosse ormai divenuto anacronistico e obsoleto. Una significativa testimonianza di questa convinzione è rappresentata dalle riflessioni sul nazionalismo alla fine del 20° secolo dello storico marxista inglese Eric J. Hobsbawm, esposte nel testo Nazioni e nazionalismi dal 1780, pubblicato nel 1989 (trad. it., Torino, Einaudi, 1991). Secondo lo storico, nazione e nazionalismo non costituiscono più «un elemento trainante e di prima importanza dello sviluppo storico» (pp. 193-94), «il richiamo all’etnia o alla lingua non offre alcuna guida per il futuro» (p. 198), «nazioni e nazionalismo appaiono molto più influenti e onnipresenti di quanto in realtà non siano», perché il «declino del significato storico del nazionalismo è oggi in qualche modo dissimulato non solo dalla evidente proliferazione delle agitazioni etnico-linguistiche, bensì anche dall’illusione di tipo semantico originata dal fatto che oggi tutti gli Stati sono ufficialmente ‘nazionali’, benché non abbiano chiaramente nulla in comune con ciò che il termine ‘Stato-nazione’ dovrebbe normalmente significare» (p. 200). Da queste riflessioni, lo storico traeva la previsione che i «conflitti politici di fondo che probabilmente decideranno i destini del mondo odierno hanno ben poco a che fare con lo Stato-nazione, perché per un buon mezzo secolo non ci si è trovati in presenza di un sistema internazionale di Stati sul tipo di quello europeo del secolo XIX, bensì di un mondo sostanzialmente bipolare organizzato intorno a due superpotenze» (p. 207).
Stato e nazione
Le previsioni sul tramonto del nazionalismo, della nazione e dello Stato nazionale giungevano alla fine di un secolo interamente dominato dal nazionalismo, che lasciava al nuovo secolo l’eredità di un mondo organizzato in Stati nazionali. Quasi tutti gli aggregati umani in cui si divide la popolazione mondiale sono tuttora definiti o tendono a definirsi come nazioni. Quasi tutti gli Stati esistenti si considerano interpreti e rappresentanti della nazione; quasi tutti derivano dalla nazione non solo la legittimità del loro potere, ma la ragione stessa della loro esistenza e della loro funzione. Anche se ‘nazione’ e ‘Stato’ sono entità storicamente e concettualmente differenti, è significativo che le due principali organizzazioni internazionali di Stati sovrani, istituite nel corso del Novecento per garantire la pace e la sicurezza, siano state denominate Società delle Nazioni la prima (1920-46), Organizzazione delle Nazioni Unite la seconda (costituita nel 1945), quasi a voler conferire, in questa forma, un riconoscimento ufficiale al primato della nazione sia come principale forma di aggregazione dei popoli sia come principio universale di legittimazione dello Stato. Per comprendere i motivi che erano all’origine delle previsioni sul tramonto del nazionalismo dopo il 1989, occorre rievocare, nei termini essenziali, il dibattito sul fenomeno della nazione negli ultimi decenni del secolo scorso.
Furono poste allora questioni che sono ancora oggi materia di discussione per quanto riguarda le origini, la natura e il futuro del fenomeno della nazione, del nazionalismo e dello Stato nazionale. In particolare, furono allora rimesse in discussione l’esistenza della nazione come realtà di fatto e, quindi, la validità della concezione su cui si fondano la legittimità e la stessa configurazione politica e territoriale dello Stato nazionale, come la principale forma di organizzazione politica della sovranità di una collettività indipendente.
All’attuale situazione del pianeta suddiviso in Stati nazionali, l’umanità è giunta attraverso un processo storico, che si è svolto nel corso degli ultimi due secoli del secondo millennio, sebbene, come accade per qualsiasi processo storico, premesse e condizioni che ne hanno favorito la nascita e lo sviluppo possano essere ricercate anche più indietro nel tempo. Tuttavia solo nell’età contemporanea lo Stato nazionale come organizzazione politica, giuridica e militare, che deriva dalla nazione la sua legittimità, è emerso e si è imposto quale massimo protagonista degli eventi politici e militari che hanno deciso la vita interna e internazionale dell’umanità, svolgendo, inoltre, un ruolo decisivo nelle grandi trasformazioni economiche, sociali e culturali, che hanno forgiato il mondo attuale.
Lo Stato nazionale e il nazionalismo sono principalmente creazioni della civiltà europea. Essi si fondano su una concezione della nazione che si è venuta formando nel corso del 19° secolo. Prima dell’età contemporanea, il termine nazione era variamente adoperato per definire un qualsiasi aggregato umano distinto da una o più caratteristiche comuni, etniche, linguistiche, territoriali o religiose, anche se il più delle volte si trattava di aggregati di composizione e con contorni fluidi e cangianti, perché mancava a essi il fattore coesivo di una consapevole e attiva volontà unitaria, quale si afferma, generalmente, nella coscienza politica. In effetti, prima dell’età contemporanea, molto raramente la nazione era concepita come una popolazione unita dalla coscienza di una comune identità storica e culturale, che trovava poi attuazione in una comune coscienza e volontà politica. Lo sviluppo del fenomeno nazionale non è stato un processo storico unitario, lineare e omogeneo, ma si presenta con una notevole varietà di manifestazioni e diversità nei ritmi e nei modi di attuazione, a seconda dei tempi, dei luoghi, delle situazioni e delle circostanze in cui si è svolto. Nei vari modi in cui questa idea di nazione è stata interpretata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, si è dato maggior risalto, nell’indicazione dei suoi elementi generatori e costitutivi, ora ai fattori naturali, come la razza, la stirpe, l’etnia; ora ai fattori culturali, come la lingua, la religione, i costumi, la tradizione, le istituzioni; ora – ed è il caso più frequente – a una varia combinazione di questi fattori, con l’accentuazione dell’uno o dell’altro. La nazione, secondo una prevalente concezione moderna, come principio di legittimazione dello Stato, è un aggregato umano che condivide un’identità collettiva, risultante da un complesso di fattori unificanti, sia oggettivi sia soggettivi, quali l’etnia, la lingua, il territorio, la tradizione, la cultura, la religione, i costumi, le istituzioni. Come tale, la nazione ha una propria individualità e diviene consapevole di sé perpetuandosi nel tempo attraverso la memoria e la volontà di quanti ne fanno parte, nella successione delle generazioni. Corollario di questa concezione è divenuto, fin dalla metà dell’Ottocento, il principio di nazionalità, cioè il diritto della nazione a organizzarsi politicamente in modo autonomo, in uno Stato indipendente e sovrano. In tal modo, nell’età contemporanea, ‘Stato’ e ‘nazione’ sono stati progressivamente accostati fin quasi a diventare necessariamente complementari nell’istituzione dello Stato nazionale. In realtà la coincidenza fra la nazione e lo Stato, nel contesto dello Stato nazionale, è più un postulato ideologico, un progetto politico, un’aspirazione ideale che un’effettiva realtà. Non solo, infatti, gli Stati nazionali attualmente esistenti sono in numero notevolmente inferiore rispetto alle aggregazioni umane che ritengono di possedere una propria individualità nazionale, ma molto spesso lo Stato con più antica storia di unità politica – come la Spagna, la Gran Bretagna, la Francia – è, in realtà, multinazionale, contiene cioè, entro i suoi confini, delle minoranze etniche, linguistiche e religiose, che in molti casi rivendicano una nazionalità diversa dalla nazione dominante, e quindi aspirano a costituirsi in uno Stato proprio, o reclamano una sostanziale autonomia, per preservare e perpetuare la loro peculiare identità. Inoltre, va considerato che, nella storia contemporanea, lo Stato ha esercitato ovunque un ruolo decisivo nel formare – o nel tentare di formare – una coscienza nazionale in popolazioni che non solo ne erano sprovviste, ma spesso condividevano ben pochi elementi comuni, tali da indicarle già come aggregazioni costituenti una nazione nel senso moderno, come per esempio la Svizzera e gli Stati Uniti.
Nazione e nazionalismo
La moderna concezione della nazione è connessa comunque con l’idea dello Stato indipendente e sovrano e con il fenomeno del nazionalismo. Per nazionalismo è da intendersi, nel senso più generale in uso nella storiografia e nell’analisi teorica (e quindi senza attribuirgli una connotazione morale o politica), qualsiasi movimento che: a) afferma l’esistenza della nazione come realtà di fatto e ne auspica la conservazione; b) sostiene e promuove il primato della nazione nella vita collettiva, e tende a realizzarlo principalmente nell’istituzione di uno Stato indipendente e sovrano; c) colloca al vertice dei valori civici del cittadino il dovere di lealtà e fedeltà verso lo Stato nazionale, circondando la nazione di un’aura di sacralità. Per il nazionalismo, la funzione dello Stato nazionale non è solo di assicurare, regolare e proteggere lo svolgimento della vita collettiva della popolazione che esso governa: lo Stato nazionale ha altresì il compito fondamentale di coltivare, preservare e perpetuare l’identità nazionale nella coscienza dei cittadini, affratellandoli nell’amor di patria.
La nazione, il nazionalismo, lo Stato nazionale hanno raggiunto una dimensione planetaria nella seconda metà del Novecento. È in questo periodo, infatti, che si registra il più alto indice di natalità di nuovi Stati, come dimostra l’aumento dei membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: erano 51 nel 1945, all’atto della sua costituzione; divennero 82 nel 1960, 135 nel 1973, 159 nel 1988, fino ad arrivare, nel 1997, a 187 e oggi a 192.
La Seconda guerra mondiale segnò una svolta decisiva nella storia del nazionalismo. Nell’Europa devastata e distrutta si levarono autorevoli voci di politici e intellettuali, i quali reclamavano la fine di ogni nazionalismo e il superamento dello Stato nazionale, considerati principali responsabili delle guerre e degli stermini inflitti all’umanità in meno di mezzo secolo. Nella coscienza delle democrazie europee, il ricordo della Seconda guerra mondiale favorì una profonda trasformazione culturale e morale nei confronti del nazionalismo, facendo scomparire dal centro della politica la mentalità razzista o tendenzialmente razzista, la cultura marziale che esaltava i valori militari come essenza del patriottismo, il mito della politica di potenza associata alla forza delle armi e all’estensione dei domini territoriali, tutto ciò, insomma, che era stato associato al nazionalismo europeo, dalla metà dell’Ottocento alla Seconda guerra mondiale. Le ambizioni e le esibizioni di grandezza e di potenza degli Stati nazionali, che avevano dominato e tormentato la vita del continente per secoli, furono relegate definitivamente fra le memorie di un tragico passato, anche se qualcuno degli Stati più grandi fra i vincitori del Secondo conflitto mondiale, come la Francia e la Gran Bretagna, mantenne ancora atteggiamenti da grande potenza sulla scena mondiale. Ripudiare il nazionalismo che divideva i popoli europei fu considerata la sola via per preservare all’Europa, nella nuova epoca degli Stati continentali, la sua identità culturale, e per dare agli Europei la capacità di controllare e decidere il proprio destino. L’emergere di una più vigorosa aspirazione a superare antichi odi e rivalità fra le nazioni europee, riscoprendo comuni matrici culturali e tradizioni spirituali, sembrò incoraggiare i tentativi miranti alla riduzione e alla limitazione della sovranità degli Stati nazionali entro nuove strutture politiche ed economiche di dimensioni europee, attraverso forme più o meno accentuate di federalismo. Con questo spirito furono gettate le basi per la costruzione di una comunità europea che, nell’intento dei suoi promotori, avrebbe dovuto portare al superamento dello Stato nazionale nello stesso continente nel quale il fenomeno nazionale era nato e si era sviluppato. La costruzione di questa nuova entità europea è stata tutt’altro che rapida e priva di ostacoli. Fra questi, la complessità degli interessi collettivi consolidati nella realtà degli Stati nazionali e la resistenza, da parte di questi ultimi, a rinunciare ai capisaldi della loro sovranità. Le peculiarità delle culture, dei valori, delle tradizioni storiche dei singoli popoli europei si è rivelata più tenace dei ben più tenui richiami a una comune unità ideale. Infine, vi è stata l’opposizione a un più spedito processo di integrazione da parte di Stati con un sentimento più antico di individualità nazionale, come la Gran Bretagna e la Francia, che non credevano alla possibilità di realizzare un’effettiva unione europea in grado di fondere e superare le nazione tradizionali, e neppure ne auspicavano la realizzazione. Nonostante ciò, è vero che, dall’epoca della Seconda guerra mondiale, c’è stato un declino del nazionalismo: nazioni e Stati nazionali non sembrano più occupare, nella coscienza dei popoli europei, il vertice nella scala dei valori individuali e collettivi.
Ridimensionato in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale, il nazionalismo trovò nuovi e più vasti territori di espansione in Asia, in Africa e in Oceania, dove si trapiantò con il successo dei movimenti rivoluzionari anticolonialisti, che posero fine ai possedimenti imperiali europei, accrescendo notevolmente il numero degli Stati nazionali. Dall’esperienza dei movimenti di liberazione anticolonialista sono sorte varie forme di nazionalismo, ognuna recante tracce della tradizione nazionale europea combinata con predominanti motivi della cultura indigena, nella ricerca di una formula nuova, volta a esaltare l’originalità della nazione in costruzione. Questo nazionalismo anticolonialista, antimperialista, populista, socialista o socialisteggiante, in gran parte creazione di élites indigene occidentalizzate, ha sviluppato una sua originalità innanzi tutto nell’avversione, più o meno radicale, per l’Occidente e la civiltà occidentale, e, quindi, nell’esaltazione delle proprie tradizioni, spesso però accompagnata da un’ideologia modernizzatrice, variamente associata a forme di socialismo e di collettivismo, entro regimi a partito unico che avevano notevoli analogie con i nazionalismi totalitari, compresa una spiccata componente razzista e xenofoba. Con questi mezzi, i nazionalismi anticolonialisti, dopo la liberazione, si proponevano di creare una nuova nazione dall’eterogeneo aggregato di popolazioni ereditato dal colonialismo. Da questo punto di vista, le vicende dei nazionalismi anticolonialisti sembrano ripercorrere, in situazioni completamente differenti, ma avendo comunque presente l’esperienza occidentale, il cammino dei nazionalismi europei, dal nazionalismo risorgimentale a quello totalitario. Le credenze religiose – soprattutto la religione islamica – hanno altresì avuto un ruolo decisivo nella formazione di questi nazionalismi e nella rivolta contro l’Occidente, ma si sono rivelate anche un ostacolo insormontabile ai progetti di modernizzazione e di laicizzazione che i nazionalismi anticolonialisti intendevano realizzare. Nello stesso senso, il prevalere del tradizionalismo etnico e dei violenti antagonismi tribali, la scarsità o lo sperpero delle risorse, il predominio di nuove caste militari hanno reso quanto mai incerta e precaria la costruzione della ‘nuova nazione’.
L’analisi del fenomeno nazionale
La forza e la celerità espansiva del fenomeno nazionale costituiscono uno dei più complessi e affascinanti problemi del mondo contemporaneo. Sempre più numerosi sono diventati, dopo la Prima guerra mondiale e soprattutto nella seconda metà del 20° secolo, i tentativi fatti per analizzare e interpretare l’origine e la potenza di questo fenomeno. Centrale, in questi tentativi, è innanzi tutto la questione della nazione, che riguarda non solo la sua definizione concettuale, ma il problema stesso della sua natura: se la nazione è da considerarsi una realtà perenne, un’entità primordiale e insopprimibile, perché ha le basi nella natura stessa dell’essere umano, e quindi è e sarà costantemente presente nel suo divenire, oppure se si tratta di una realtà temporanea, cioè di una forma di aggregazione collettiva, che è apparsa in un’epoca recente della storia, ha avuto origine da esigenze e necessità economiche e politiche dello Stato moderno, dalla centralizzazione, dalla burocratizzazione, dall’industrializzazione, e che pertanto, in tempi più o meno prossimi, andrà incontro a un superamento, se non proprio all’estinzione, in seguito al cambiamento delle circostanze storiche da cui la nazione stessa, lo Stato nazionale e il nazionalismo hanno avuto origine.
Molto schematicamente, le interpretazioni contemporanee del fenomeno nazionale possono essere distinte in due orientamenti principali. Nel primo caso, che potremmo chiamare teoria della nazione reale, la nazione è considerata una realtà di fatto, un’entità veramente esistente, che precede la nascita dello Stato nazionale e ne costituisce la matrice. Secondo questa teoria, lo Stato nazionale sarebbe effettivamente l’espressione di una individualità collettiva, che si è formata nel tempo, e che diviene consapevole della propria identità attraverso il nazionalismo. In questo senso si è parlato, per l’origine del fenomeno nazionale nell’epoca contemporanea, di ‘risorgimento’ e di ‘risveglio’ della nazione: la nazione, realtà di fatto, attraverso le sue élites culturali e politiche acquista coscienza di sé, e di tale coscienza permea lo Stato, se già esiste, trasformandolo appunto in Stato nazionale, come è accaduto in Francia o in Gran Bretagna, oppure dà impulso alla creazione di uno Stato nazionale attraverso la lotta di indipendenza e di unificazione, come è accaduto in Italia e in Germania. Nel secondo caso, che possiamo chiamare teoria della nazione immaginaria, la nazione è considerata non una realtà di fatto, ma una mera costruzione culturale, un mito, un progetto politico, insomma un artificio ideologico, di cui si sono avvalsi i ceti dominanti dello Stato centrale attraverso la loro ‘nazionalizzazione’. Partendo da queste due differenti prospettive, gli interpreti del fenomeno nazionale hanno valutato ovviamente in modo contrastante il ruolo del nazionalismo e dello Stato nazionale nella storia contemporanea e nel prossimo futuro. Per i sostenitori della teoria della nazione immaginaria, il fenomeno nazionale è il residuo di un’epoca ormai al tramonto: gli Stati nazionali sono destinati a scomparire nel nuovo mondo già in avanzato stadio di formazione, nel quale dominano i processi sovranazionali e internazionali della globalizzazione, dell’interdipendenza economica, della generalizzazione uniforme di culture, di valori e di costumi. L’ideologia e l’organizzazione dello Stato nazionale non appaiono più funzionali alle nuove forme di organizzazione sociale e politica che scaturiranno da questi processi sovranazionali in rapido sviluppo e saranno perciò inevitabilmente accantonate, insieme con i confini territoriali e la sovranità assoluta dello Stato nazionale, a favore di organizzazioni politiche più ampie, come l’Unione Europea. Allo stesso modo, la globalizzazione culturale e le migrazioni dei popoli, tendendo a dissolvere le artificiali costruzioni delle identità nazionali, condannano il nazionalismo stesso a una prossima estinzione, anche se preceduta dalle fiammate di una sua residua vitalità. A tale previsione parevano recare ulteriore conferma i sintomi evidenti di una crisi dello Stato nazionale nel mondo occidentale e in particolare in Europa. L’avversione generalizzata per lo Stato burocratico centralizzato; l’impulso a una sempre maggiore particolarizzazione della democrazia entro dimensioni locali; l’attivazione politica di rivendicazioni etniche secondo una logica esclusivistica; la spinta individualistica a rivendicare spazi sempre più ampi ai propri diritti, a scapito dei tradizionali doveri civici connessi con lo Stato nazionale: tutto ciò, unito ai processi internazionali accennati, può effettivamente accelerare la crisi dello Stato nazionale e dell’idea che lo sostiene, nella forma derivata dalla tradizione ottocentesca. Tuttavia, nelle più recenti vicende del mondo contemporaneo, anche i sostenitori dell’altra interpretazione traggono elementi di verifica e di conferma. I sostenitori della teoria della nazione reale, pur non negando la realtà di un nuovo mondo in formazione, sono tuttavia convinti che le nazioni, in quanto realtà di fatto e non mere costruzioni ideologiche, non siano destinate a scomparire, come mostrano il risveglio delle nazionalità e dei nazionalismi dopo il crollo dell’impero sovietico e il perdurare delle tensioni e dei conflitti etnici, anche se l’attuale organizzazione dello Stato nazionale dovesse essere superata entro configurazioni politiche nuove. È stato in questo contesto che le previsioni sul tramonto della nazione, dello Stato nazionale e del nazionalismo sono apparse tanto plausibili a molti osservatori e studiosi da indurre il già citato storico inglese a considerare nel 1989 soltanto come «ipotesi astratta» una ulteriore divisione dell’Europa in Stati nazionali, ritenendo del tutto impossibile che potesse accadere «che gli Stati attualmente nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica se ne andrebbero ciascuno per la propria strada, magari con la separazione degli Slovacchi dai Cechi, o con i Balcani nuovamente suddivisi tra Sloveni, Croati, Serbi ciascuno con un proprio Stato, accanto a quello albanese un po’ ampliato, per finire sulle coste del Baltico con la ricomparsa di Lettonia, Estonia e Lituania indipendenti». Lo storico aveva ragione nel negare che «una simile balcanizzazione, magari estesa su scala mondiale, avrebbe la possibilità di garantire una sistemazione politica stabile e funzionante», ma, senza volerlo, e contro le sue previsioni, quel che è accaduto dopo il 1989 è stato proprio un fenomeno esteso di ‘balcanizzazione’ dell’Europa ex comunista, con tendenza a diffondersi in altre regioni del mondo, compresa l’Europa occidentale. Dopo il 1989, un imprevisto incentivo alla nascita di nuovi Stati nazionali, indipendenti e sovrani è venuto dal crollo dell’impero sovietico e dalla fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale, cui hanno fatto seguito la dissoluzione dell’URSS (dicembre 1991), la disgregazione della Iugoslavia (1991-92), la divisione della Cecoslovacchia (gennaio 1993).
Il nazionalismo oggi
All’inizio del terzo millennio, l’umanità continua a vivere divisa in nazioni e in Stati nazionali, il cui effettivo superamento non sembra affatto prossimo. Il nazionalismo, più di qualsiasi altra forza politica, ha rivelato una straordinaria plasticità di adattamento e un potente fascino di mobilitazione. Da movimento e ideologia originariamente tipici dell’aristocrazia e della borghesia liberali e progressiste, si è sviluppato spesso, per la sua stessa logica, come forza interclassista, anche se con prevalenza dei ceti medi, quale appare nella storia europea, e come forza populista, quale appare specialmente nell’America Latina e nel Terzo Mondo. Infine, il nazionalismo conferma la sua plasticità nell’adattarsi a essere forza di mobilitazione sia per il tradizionalismo sia per il modernismo: agisce come fattore di accelerazione del progresso e del cambiamento oppure come fattore di riattivazione e di rinvigorimento della difesa intransigente della società tradizionale. Dall’intreccio di nazione, Stato nazionale e nazionalismo è sorto il fenomeno nazionale contemporaneo, assumendo l’efficacia e la potenza della principale forza politica, capace di influenzare, condizionare e trasformare tutte le altre forze con le quali entra in collaborazione o in competizione, riuscendo a trapiantarsi e a svilupparsi in ogni continente, adattandosi alle più varie culture e civiltà, combinandosi con le più diverse ideologie e religioni, dando così origine, nella concreta vicenda della storia contemporanea, a una complessa varietà di nazionalismi.
Il nazionalismo è un fenomeno proteiforme e ambiguo. Esso sfugge tuttora a una teoria univoca, imbarazza il giudizio etico e politico e continuamente sfida le valutazioni sulla sua natura e le previsioni sulla sua sorte. Secondo le ideologie con le quali entra in simbiosi e le situazioni storiche in cui opera, può essere forza di liberazione o di oppressione, di emancipazione o di conformismo, di solidarietà o di odio: ma può essere anche l’una e l’altra cosa insieme, come è accaduto sia nella storia dei nazionalismi europei, sia nella storia dei nazionalismi di altri continenti. In tal modo, anche la patria viene a identificarsi con lo Stato nazionale, che assorbe in sé il patriottismo, inteso come amore per il luogo natio, la terra dei padri, e conservazione delle tradizioni di identità collettiva che il territorio ‘naturale’ della patria evoca e rappresenta nella memoria. Movimenti di liberazione e di emancipazione, nei paesi sottoposti al dominio coloniale, nella maggior parte dei casi, si sono trasformati, una volta conquistato il potere, in regimi di oppressione e di conformismo. Per non parlare del caso più frequente nelle vicende che hanno portato al crollo dell’impero sovietico e alla disintegrazione della Iugoslavia: la vittoria del nazionalismo antisovietico, da fattore di liberazione e di emancipazione, si è spesso tramutata in strumento di oppressione, di odio e di sterminio, riattizzando i miti e i comportamenti del nazionalismo razzista e belluino, causa di guerre fra gruppi etnici, come è accaduto, dopo il 1989, in talune regioni della ex Iugoslavia o della ex Unione Sovietica.
Quasi venti anni dopo la caduta del muro di Berlino, nel bilancio sullo ‘stato del mondo’ all’inizio del 2008, la politologa francese Karoline Postel-Vinay constata che «il nazionalismo non è affatto morto, tutt’altro. Il ripiegamento su se stessi è una delle cause dello stallo europeo. L’orgoglio nazionalista è apertamente manifestato dalle potenze emergenti come la Cina, l’India, il Brasile e la Russia» (L’état du monde. Annuaire économique, géopolitique mondial 2008, sous la direction de B. Badie et S. Tolotti, Paris 2007, p. 39). Il nazionalismo, comunque si voglia definire la nazione, non ha perso il suo fascino come forza di mobilitazione politica, la sua capacità di adattamento, di metamorfosi e di simbiosi. La riattivazione di movimenti xenofobi, e spesso razzisti, nelle più sviluppate società occidentali, specialmente per reazione a fenomeni migratori di massa dai paesi poveri dell’Africa e dell’Asia; la ricerca di identità culturali entro confini regionali e su basi etniche; il risveglio o la nascita di movimenti di micronazionalismo separatista negli Stati nazionali europei possono predisporre le condizioni per un’ulteriore metamorfosi del nazionalismo, in forme e dimensioni nuove. Non si può esser certi che la nazione, come realtà o come mito, abbia esaurito la sua fecondità produttrice di nuovi Stati. In molte regioni del mondo sono vivi, e spesso animosi e violenti, i sentimenti, le passioni e i conflitti attivati da varie forme di nazionalismo. In tutti i continenti, all’interno di Stati di antica o di recente costituzione, si agitano minoranze etniche, religiose o linguistiche che, affermando di possedere una propria nazionalità, si considerano sottoposte e sfruttate dalla nazione dominante e, di conseguenza, si agitano per rivendicare l’autonomia o la sovranità politica oppure aspirano a congiungersi allo Stato al quale, per affinità nazionale, ritengono di appartenere. In conclusione, alla fine del primo decennio del 21° secolo, non si riscontra il superamento dello Stato nazionale, della nazione e del nazionalismo per effetto della globalizzazione e delle trasformazioni della vita economica e sociale contemporanea, dove sempre più si impongono relazioni collettive sopranazionali e si diffonde l’adozione di valori, conoscenze, atteggiamenti, comportamenti, mentalità e costumi internazionali uniformi. Non sembra affatto che il fenomeno nazionale e gli elementi che lo compongono – la nazione, lo Stato nazionale e il nazionalismo – siano destinati a scomparire in un prossimo futuro.
Evoluzione del concetto di nazione
Il termine natio dall’antichità al Medioevo
Nell’antica Roma, natio (da nascor «nascere») indicava, in generale, un gruppo di persone legate da nascita o discendenza comune. Cicerone parla frequentemente di nationes, riferendosi alla classe aristocratica (natio optimatium) o anche alle scuole filosofiche (natio epicureorum). Nel secondo libro del Res Rusticae, Terenzio Varrone, invece, usa il termine a proposito di razze di bestiame. In linea di massima, tuttavia, natio designava popolazioni, tribù o stirpi legate da vincoli di origine, di sangue o di lingua, senza che ciò implicasse un significato di appartenenza a comunità in senso politico. Anzi, in molti casi, il vocabolo ricorreva in opposizione a populus e civitas, proprio per indicare gruppi di individui privi di istituzioni comuni e collocati a un livello di civiltà inferiore a quello del populus romano. In questo senso, natio era assimilabile, nel suo significato, alla parola nativus ed è secondo questa accezione che non solo Cicerone, ma anche Sallustio usano il termine, il primo alludendo a nationes servituti natae, il secondo, nell’espressione nationes ferae, alludendo ai non Romani. San Girolamo chiamava nationes o ferocissimae nationes le popolazioni barbariche della tarda antichità.
In epoca medievale, natio continuò a mantenere il generico significato etnico che i Romani gli avevano attribuito. Isidoro di Siviglia nel 7° secolo e Bernardo di Chiaravalle nel 12° chiamarono nationes rispettivamente i Barbari e i Musulmani. Nel Basso Medioevo, con la nascita delle università, furono dette nationes le corporazioni studentesche. Intorno alla metà del 13° secolo, le ‘nazioni universitarie’ comprendevano gruppi di studenti provenienti da vari paesi: alla Sorbona di Parigi c’erano sia la nazione francese, che raccoglieva studenti della Francia meridionale, della Spagna e dell’Italia, sia la nazione inglese, nella quale confluivano gli studenti provenienti dalle isole britanniche, ma anche Olandesi, Tedeschi, Scandinavi e Slavi. Presso l’università di Bologna è attestato che intorno al 1265 esistessero anche altre nationes, come quella provenzale, quella borgognona o quella della Touraine e quella del Poitou. In tutti questi casi i criteri con cui veniva definita la natio non coincidevano minimamente con quelli che corrispondono alla moderna nazione. A quell’epoca i letterati e i pensatori, per es. Dante, ma ancora nel 14° secolo, per esempio Niccolò Machiavelli, designavano ciò che noi intendiamo per nazione con il termine ‘provincia’. Durante il Concilio di Costanza (1414-18) come nationes furono indicati i gruppi di vescovi che avevano a disposizione un voto.
La formazione del concetto di nazione
Nell’842, dopo la morte di Ludovico il Pio, figlio ed erede di Carlo Magno, i suoi figli, Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, entrarono in conflitto per la divisione del Sacro Romano Impero. Dopo avere sconfitto Lotario, gli altri due fratelli decisero di sottoscrivere a Strasburgo un patto solenne che li vincolava ad aiutarsi reciprocamente in caso di guerra. Il giuramento fu pronunciato in lingua romana, cioè in francese, da Ludovico il Germanico, e in lingua teudisca, cioè in tedesco, da Carlo il Calvo. In questo modo i due sovrani mostravano di avere chiara consapevolezza delle differenze etniche e linguistiche delle popolazioni che abitavano nei loro rispettivi domini: il fatto che Carlo il Calvo, sovrano del Regno occidentale, abitato da un popolo di lingua francese, si fosse rivolto alle truppe di Ludovico il Germanico in tedesco era il segno del riconoscimento di questa diversità; lo stesso valeva per Ludovico il Germanico.
In Francia, in Inghilterra e in Spagna la formazione dello Stato territoriale e il consolidamento della nazione ebbero luogo parallelamente alla dissoluzione dei particolarismi locali e dei poteri universali del papato e dell’impero. Storicamente furono necessari i grandi conflitti nazionali che determinarono il passaggio dall’età medievale a quella moderna. La Spagna fu impegnata per diversi secoli ad arginare prima e poi a ricacciare i musulmani dal suo territorio. L’Inghilterra e la Francia, invece, furono coinvolte nella complessa e sanguinosa guerra dei Cent’anni. Nei paesi in cui d’altra parte mancava una dinastia orientata alla costruzione di uno Stato unitario, il sorgere di una coscienza nazionale derivò piuttosto da processi identitari di tipo culturale e linguistico, secondo una linea di evoluzione che culminò con la formazione di Stati nazionali territorialmente omogenei solo nel 19° secolo, come è accaduto in Italia e in Germania. Fino al 17° secolo, comunque, anche in Francia e in Inghilterra l’idea di nazione continuò a rimanere priva di un significato politico specifico, mentre in Italia il termine fu utilizzato per definire indifferentemente sia comunità politiche di carattere cittadino o regionale, sia l’Italia stessa come espressione di una identità linguistica e culturale, sia l’Europa in quanto area di una comune cultura e civiltà. Questa situazione si cominciò a modificare in Francia con il consolidamento dell’assolutismo monarchico, per cui la nazione iniziò a essere identificata con la persona del sovrano. L’Illuminismo offrì un contributo relativamente modesto al processo di evoluzione dell’idea di nazione, che identificò con un generico amore per la patria coincidente con un sentimento di attaccamento ai beni posseduti dai cosiddetti ‘cittadini proprietari’. Furono soprattutto i fisiocratici nella seconda metà del 18° secolo (perno della fisiocrazia era la teoria del ‘prodotto netto’, che sosteneva la superiorità dell’agricoltura come unica vera fonte di ricchezza rispetto a industria, commercio, trasporti) a evidenziare la centralità del tema della proprietà terriera come fondamento della identità nazionale e della sovranità. Di qui derivava l’esaltazione del ruolo della classe dei proprietari fondiari, unici produttori e unici contribuenti. In quegli stessi anni il filosofo francese Gabriel Bonnot de Mably rielaborò il concetto di nazione, traducendolo in una compiuta teoria della sovranità nazionale, e identificò la nazione con ‘la nazione dei cittadini’. È questa la prima volta che la teoria della sovranità nazionale coincide con il concetto di cittadinanza, per cui viene messa in evidenza la titolarità di diritti inalienabili da parte degli individui appartenenti a una comunità territoriale.
Da Rousseau a Mazzini e Weber
Con Jean-Jacques Rousseau emergono due diverse immagini della nazione. Nel Contratto sociale (1762) essa rappresenta la totalità di un corpo collettivo che, in quanto corpo politico e attraverso la volontà generale, è titolare della sovranità. Secondo questa prima immagine, la nazione si identifica con il popolo e diviene elemento essenziale per ridefinire in senso democratico le tradizionali concezioni della natio. Negli Scritti sul governo della Polonia (1771), ma già in un lavoro precedente (Il progetto per la costituzione della Corsica, 1765), il filosofo aveva esposto un’idea diversa, anti-illuministica e preromantica, secondo la quale la nazione è un’entità storico-culturale di natura individuale, che ha il dovere di mantenersi fedele a sé stessa e deve promuovere consapevolmente l’amore di patria, opponendosi agli ideali del cosmopolitismo illuministico, secondo i quali devono essere superati ogni specificità e carattere nazionali. Rousseau è considerato per questa sua seconda idea di nazione come uno dei principali fondatori del moderno nazionalismo.
In Germania, Johann Gottfried von Herder sottolineò il valore positivo dell’«insuperabile individualità della nazione» che rappresenta un dato naturale originario e costitutivo della storia umana. Herder esaltò la nazione tedesca in quanto territorio in cui veniva parlata una lingua che era una «creazione tutta specifica», affine certamente ad altre e tuttavia dotata di un proprio esclusivo modello. Egli pose nella specificità del carattere della lingua ma anche negli antichi costumi «selvaggi, forti e buoni», che nell’epoca medievale avevano rinvigorito le radici romane della comunità germanica, il fondamento della coscienza nazionale. Il Romanticismo esaltò il carattere ingenuo e incorrotto dei popoli che nel corso del Medioevo avevano consolidato il proprio carattere identitario, per cui la coscienza nazionale si costituì, nel 19° secolo, a partire da una rinascita del sentimento di appartenenza alla propria comunità, come avvenne in Italia e in Germania, ma anche in Polonia, Grecia, Belgio. Filosofi e studiosi, tra la fine del 18° e l’inizio del 19° secolo, avevano già elaborato diverse teorie sulla genesi della nazione. Edmund Burke sviluppò un concetto di nazione di tipo storico che basava il rapporto morale fra l’individuo e lo Stato sulla storia e sulle tradizioni di una comunità nazionale. Thomas Jefferson e poi anche Johann Gottlieb Fichte formularono il concetto di nazione partendo dal rapporto esistente fra gli individui e lo Stato che dipendeva dalla missione e dal destino universale affidati alle nazioni giovani, come era il caso, per es., degli Stati Uniti, oppure della Germania che nei primi anni dell’Ottocento era per una parte consistente del suo territorio occupata dai Francesi. Fu proprio con i discorsi alla nazione tedesca che Fichte infiammò i giovani in Germania, suscitandone l’entusiasmo intorno all’idea di una nazione tedesca, culla della Kultur, erede dei valori della civiltà occidentale, mentre da Rousseau e dal Romanticismo derivano i concetti di nazione che hanno esaltato il tema della ‘nazionalizzazione’ dell’amore politico per la patria. È da questa matrice che Giuseppe Mazzini maturò l’idea di nazione quale identità di Dio e popolo. Mazzini, ispirandosi alle teorizzazioni sulla nazione sia del Settecento sia dei primi anni dell’Ottocento, era persuaso che senza un processo di emancipazione del popolo proveniente dal basso – processo che poteva compiersi solo attraverso una capillare opera di educazione e di autoeducazione – non potesse compiersi nessuna svolta nazionale. La difficoltà ad agire in questa direzione, secondo Mazzini, era da ricercarsi nell’oppressione politica che i popoli subivano a opera di Stati che si configuravano come mosaici artificiosi di etnie umiliate e subalterne, come nel caso dell’impero asburgico. Mazzini aveva ben chiara la lezione del fallimento delle repubbliche giacobine in Italia alla fine del Settecento: esse erano crollate poiché il popolo non aveva concorso minimamente alla loro edificazione, ma era stato semplicemente spettatore passivo di volontà politiche dirette dalla Francia. Solo una presa di coscienza nazionale del popolo italiano avrebbe potuto trasformarlo nel soggetto attivo della rivoluzione repubblicana e nazionale. Affine è il concetto di patria. In un appello del 1859 indirizzato ai giovani d’Italia, sostenne che «la Patria è, prima di ogni altra cosa, la coscienza della Patria e che senza una tale coscienza gli Italiani sarebbero turba senza nome, non nazione; gente, non popolo».
Nell’ampio dibattito sul concetto di nazione Federico Chabod (L’idea di nazione, Roma-Bari, Laterza, 1961) ha introdotto la distinzione fra la tradizione naturalistico-oggettivistica prevalentemente tedesca (da Herder fino a Hitler) e la tradizione volontaristico-soggettivistica prevalentemente italiana e francese. Secondo tale prospettiva, lo storico francese Ernest Renan si pone sulla stessa scia di pensiero di Mazzini, elaborando una sua particolare idea di nazione (Qu’est-ce qu’une nation?, in Revue bleue, 1882), ispirata soprattutto dalle drammatiche vicende del conflitto franco-prussiano (1870). Egli riteneva che la nazione fosse «il desiderio di vivere insieme basato sul comune possesso di una ricca eredità di ricordi e sulla volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa». «La nazione è un plebiscito di tutti i giorni» era una delle sue convinte asserzioni; essa non si fonda sul principio della razza, della lingua o della religione. Quel difficile conflitto si concluse con la sconfitta di Napoleone III e con la perdita da parte dei Francesi sia del territorio dell’Alsazia sia di quello della Lorena, dove dalla fine del ducato di Borgogna (con la morte di Carlo il Temerario nel 1477) avevano vissuto, elaborando giorno dopo giorno una comune eredità che aveva dato luogo al consolidamento di uno Stato nazionale francese. Al volontarismo di Renan si contrappone il pensiero di numerosi intellettuali tedeschi, quali Heinrich von Tritschke e Theodor Mommsen, che tentarono di legittimare il dominio tedesco sull’Alsazia e la Lorena secondo un’idea di nazione che privilegia i caratteri naturalistici e oggettivi, quali la razza o le tradizioni storiche, che definiscono l’identità di un popolo. In Germania, nel 1895, Max Weber sosteneva che l’idea di nazione va interpretata come un fatto di coscienza, cioè come un qualcosa di soggettivamente sentito, come un sentimento di solidarietà che appartiene a una sfera di valore che si può fondare su un patrimonio culturale di massa quale la lingua, la religione e la memoria di un comune destino politico. Inoltre Weber era persuaso che il sentimento nazionale avesse una presa diversa sui diversi strati sociali che costituiscono una comunità nazionale e che tale sentimento fosse, anche, il prodotto di un ceto sociale preciso, capace di elaborare in termini nazionali «il mito di una provvidenziale missione di civiltà». Con Weber si diffuse nella Germania di quegli anni l’idea secondo cui la nazione consiste in un sentimento di appartenenza di cui si fanno portatori i ceti intellettuali e i gruppi più attivi sul piano politico.
La deriva nazionalistica
Nel corso degli ultimi due secoli il concetto di nazione si è trasformato in un efficace veicolo di appartenenza, operando all’interno dei diversi paesi come uno dei fattori determinanti della storia. Così, per es., nella Francia della rivoluzione e di Napoleone Bonaparte si passò dalla ‘nazione di cittadini’ alla ‘nazione in armi’; in Italia durante il Risorgimento la nazione divenne un obiettivo delle lotte per l’indipendenza e la libertà, che i popoli oppressi intraprendevano nell’Europa della Restaurazione; questa stessa idea si radicò in Grecia e in Polonia; in Germania la realizzazione di uno Stato nazionale fu il motore di un processo di integrazione egemonizzato dal regno di Prussia, che culminò, nel 1871, con la proclamazione di Guglielmo I come Kaiser di tutti i Tedeschi. Indubbiamente fu l’idea di nazione a fornire il naturale alimento e a costituire il primo fondamento all’ideologia imperialistica.
Dopo il completamento del processo di unificazione nazionale in Italia e in Germania, l’idea di nazione subì alcune rilevanti modifiche, anche se mantenne sostanzialmente le sue tre specifiche accezioni: politica, culturale ed etnica. In quanto ideologia stessa dello Stato nazionale, divenne anche l’ideologia di massa che si opponeva alle dottrine e ai movimenti politici ispirati al socialismo e al comunismo. Su questa strada, in una fase successiva, avvenne la trasformazione del concetto di nazione in veicolo di ‘egoismo’ nazionale e in alcuni casi di ‘missione prevaricatrice’, nozioni che erano completamente estranee alla tradizione che si rifaceva a Herder, Fichte e Mazzini, ciascuno dei quali, sia pure nella propria specificità, aveva nutrito un’idea quasi religiosa di nazione, ispirata ai principi universali dell’umanità o al progetto di un’Europa dei popoli. In particolare, Mazzini, quasi presagendo i rischi insiti in quella ideologia, già nel marzo del 1836 in un articolo su La jeune Suisse e successivamente in un testo del 1848, aveva contrapposto lo spirito di ‘nazionalismo’ allo spirito di ‘nazionalità’ e ancora, nel 1861, scriveva sulla necessità che la Germania non coltivasse ‘un gretto nazionalismo’, cioè una brutale politica di espansione ai danni dei diritti di tutti i popoli alla libertà. Tuttavia, questa nuova concezione della nazione come ‘egoismo nazionale’ è quella che si è manifestata con prepotente intensità per tutto il corso della prima metà del 20° secolo. La realizzazione dell’unità nazionale tedesca incrementò infatti l’orgoglio identitario germanico e divenne il fattore fondamentale dell’aspirazione al primato europeo dei Tedeschi, in contrasto con l’Inghilterra e con la Francia.
Verso la fine del 19° secolo, nel contesto più generale dell’età dell’imperialismo, furono soprattutto i movimenti della destra radicale ad appropriarsi del termine ‘nazionalismo’, privandolo della valenza negativa conferitagli da Mazzini. Così gli esponenti della destra, come Maurice Barrès, Carlo Maurras, Enrico Corradini, e poi tutto il fascismo italiano e il nazismo tedesco – il quale peraltro rimase soprattutto legato alle retoriche della razza e del popolo inteso in senso etnico – attribuirono al termine nazionalismo un significato positivo. Corradini nel 1911 scriveva: «Certamente anche noi vogliamo essere buoni Italiani, e se il patriottismo significa amor di Patria, anche noi siamo patrioti. [...] Ma con tutto ciò il nazionalismo è qualcosa di diverso dal patriottismo. È anzi, sotto un certo aspetto, l’opposto [...]. Il patriottismo è altruista, il nazionalismo è egoista. [...] È l’egoismo dei cittadini rispetto alla nazione.».
Schemi intepretativi
Se nella tradizione politica italiana e francese la parola nazionalismo ha assunto un significato diverso rispetto al termine nazione, nella tradizione anglosassone nationalism ha sempre indicato in modo generico e descrittivo l’insieme delle dottrine e dei movimenti politici orientati in senso nazionale. Nel tentativo di pervenire a una teorizzazione generale del fenomeno, la storiografia, la sociologia, la politologia e, più in generale, le scienze sociali hanno elaborato diversi schemi tipologici, peraltro molto controversi. Il primo grande contributo per uno studio scientifico del nazionalismo è dato dall’opera dello storico e diplomatico americano Carlton J.H. Hayes, autore di The historical evolution of modern nationalism (1931). Hayes, elaborando una serie di distinzioni di natura concettuale, riferì il termine nazionalismo da una parte al più sincero patriottismo e dall’altra allo spirito di intolleranza, al militarismo e all’imperialismo, arrivando all’individuazione di sei diverse tipologie: 1) il nazionalismo umanitario di Rousseau, che si ispira all’Illuminismo e si fonda sull’idea del diritto delle nazionalità a progredire secondo il proprio talento e senza ostacoli; 2) il nazionalismo giacobino di Robespierre, più religioso che razionale, più politico che culturale, animato da zelo missionario, intollerante e fautore del militarismo; 3) il nazionalismo tradizionalista, propugnato, per es., da Burke in Gran Bretagna o da Louis de Bonald in Francia, che ha natura antirivoluzionaria ed è il lievito della resistenza antinapoleonica dell’Europa continentale; 4) il nazionalismo liberale di Mazzini e Cavour, non solo non reazionario, ma che anzi privilegia la sovranità nazionale in un contesto di garantita libertà individuale, politica, economica e religiosa; 5) il nazionalismo integrale di Maurras e di Benito Mussolini, che mira alla costruzione di un modello statuale autoritario, monarchico, organicista e antiliberale, i cui obiettivi principali sono l’accrescimento della potenza nazionale e la subordinazione di ogni fine a quello di valorizzare la nazione; 6) il nazionalismo economico, sostenuto dai fautori di politiche protezionistiche e imperialistiche. Un altro interessante approccio è quello dello studioso tedesco Hans Kohn (The idea of nationalism: a study of its origins and background, 1944), secondo il quale il nazionalismo costituisce uno «stato d’animo che permea la grande maggioranza di un popolo e pretende di permeare tutti i suoi membri». In questa ottica, il nazionalismo è diventato una vera e propria forza storica nell’epoca di Rousseau, della Rivoluzione americana e di quella francese, e anche nell’età della democrazia e della rivoluzione industriale. Tuttavia, secondo Kohn, la storia del nazionalismo discende dall’epoca dell’antico Israele fino all’Illuminismo, quando il nazionalismo moderno lega il suo destino allo sviluppo delle società liberali e pluralistiche dell’Europa occidentale, ma anche al sorgere delle società autoritarie e conservatrici dell’Europa centro-orientale.
Numerosi studiosi hanno sostenuto che l’esperienza della Rivoluzione francese saldò il concetto di nazione con quello di sovranità popolare, contrapponendoli alle concezioni dinastiche e territoriali degli Stati. Questi concetti si radicarono in Europa e rimasero nell’epoca della Restaurazione un punto di riferimento decisivo nella lotta per l’emancipazione nazionale in diversi paesi europei. Nell’epoca napoleonica il nazionalismo cominciò a essere inteso come ideologia espansionistica dello Stato-nazione. Successivamente, dopo la fondazione del Reich tedesco, la presenza nel cuore dell’Europa continentale di uno Stato forte sia per dimensioni sia per identità etnico-linguistica rese impossibile la stabilità dell’equilibrio tra le grandi potenze. Il nazionalismo raggiunse così il suo apogeo, ponendo le premesse per l’esplosione dei grandi conflitti del 20° secolo.