Nazionalsocialismo
di Hans Mommsen
Nazionalsocialismo
sommario: 1. Nazionalsocialismo e studio comparato del fascismo. 2. Fase di movimento: a) origine e struttura sociale della NSDAP; b) l'attività politica della NSDAP. 3. La presa del potere: a) verso la legge sui pieni poteri; b) il ‛livellamento' (Gleichschaltung) dello Stato e della società; c) seconda rivoluzione: la Wehrmacht e le SA. 4. Il sistema di dominio nazionalsocialista: a) la struttura del potere; b) disgregazione dell'unità amministrativa; c) comunicazioni e processo decisionale. 5. Società e nazionalsocialismo: a) politica sociale ed economica; b) politica culturale e religiosa; c) politica ebraica. 6. Politica estera nazista: a) continuità o rottura; b) il crollo del Terzo Reich. □ Bibliografia.
1. Nazionalsocialismo e studio comparato del fascismo
Ai contemporanei il nazionalsocialismo è apparso come un risultato specifico della storia tedesca. Ciò corrispondeva all'immagine che amava dare di se stesso il regime nazionaisocialista il quale, sotto l'insegna del Terzo Reich, si spacciava per erede d'un millennio di storia nazionale germanica. Ideologicamente, il nazismo si ricollegava all'imperialismo e al nazionalismo integrale dell'epoca guglielmina. Fra i suoi precursori annoverava sia antisemiti borghesi quali P. de Lagarde, H. von Treitschke, Fr. Nietzsche, R. Wagner e A. Stoecker, sia sostenitori d'una politica tedesca di portata mondiale, come P. Rohrbach, O. Lenz e Th. von Bernhardi. Con l'Alldeutscher Verband (Lega pangermanista) esistevano vincoli personali. Dopo la costituzione del regime, la propaganda nazista cercò di usurpare la tradizione prussiana e di far passare Adolf Hitler come colui che recava a compimento l'opera di Federico il Grande e di Otto von Bismarck. Facendo propria l'idea del grande Reich tedesco (H. von Srbik), la propaganda nazista si studiò di ricollegarsi con gli imperatori sassoni, gli Ottoni. Sebbene il nazionalsocialismo facesse dell'eredità dello Stato autoritario tedesco il presupposto del suo potere interno ed esterno e del suo sviluppo, era evidente la sua contrapposizione frontale alla tradizione nazional-conservatrice. Ben presto, quindi, si vide in esso un pervertimento della tradizione nazionale tedesca. A. Bullock lo definisce ‟una reductio ad absurdum della più possente tradizione politica formatasi in Germania dai tempi della fondazione dell'impero" (v. Bullock, 1962, p. 807).
Anche i nemici della Germania nella seconda guerra mondiale interpretavano il nazionalsocialismo prevalentemente come un risultato della storia tedesca. Numerosi autori sostennero seriamente che la politica di violenza perseguita dal Terzo Reich dovesse ricondursi in misura determinante a una presunta propensione, insita nel carattere nazionale tedesco, verso la bellicosità, l'aggressività e l'intolleranza. Costoro mettevano Hitler sullo stesso piano di Martin Lutero, Federico Guglielmo I, Federico il Grande, Bismarck e Guglielmo II. Il nazionalsocialismo fu sostanzialmente interpretato come il risultato del militarismo prussiano-tedesco, dell'ibrido nazionalismo borghese e della soggezione protestantica all'autorità. È da una siffatta concezione che, negli anni 1944-1945, gli Alleati occidentali dedussero la necessità di una vasta opera di rieducazione e riorientamento della popolazione tedesca. Nonostante l'ascendente che aveva sul presidente Fr. D. Roosevelt, H. Morgenthau non riuscì a imporre, contro le più realistiche vedute degli ambienti militari, il suo radicale programma di agrarizzazione della Germania, anche se nella denazificazione, sostanzialmente fallita, ebbero comunque un certo peso sia l'idea di una vasta congiura tedesca contro la pace, sia l'idea d'una colpa collettiva dei Tedeschi e di una specifica responsabilità dello Junkertum prussiano.
D'altro canto, nei primi anni del dopoguerra gli autori tedeschi sottolineano il carattere nichilista e ‛machiavellico' del dominio di Hitler, che aveva troncato i legami con tutte le tradizioni tedesche e si era impadronito del potere col terrore. Fr. Meinecke definisce la Germania hitleriana addirittura come un paese occupato dal nazismo; H. Rothfels e G. Ritter vedono la tradizione nazionale tedesca incarnata non nelle ‛orde brune', bensì nel movimento di resistenza del 20 luglio 1944, che Winston Churchill aveva squalificato come una sedizione reazionaria di generali e in un primo momento fu considerato tabù dalle potenze occupanti. Ad apologeti conservatori il nazionalsocialismo apparve in primo luogo come hitlerismo (H. Buchheim) e come risultato della ‟democrazia della scheda elettorale" (W. Martini).
Nel periodo della guerra fredda, con la teoria ‛totalitaristica', i cui primi sostenitori furono H. Arendt e K. J. Friedrich, si offrì una formula idonea a spiegare come la gran massa del popolo tedesco avesse, in larga misura, sopportato passivamente la dittatura nazista, nonché a giustificare il fatto che il movimento di resistenza si era limitato ad azioni cospirative. La teoria della dittatura totalitaria poneva l'accento sul dominio completo della vita sociale e statale da parte del gruppo dirigente nazista, e cercava di porre il nazionalsocialismo sullo stesso piano del comunismo, commisurato soprattutto sul modello del tardo stalinismo. Sia gli studiosi che l'opinione pubblica furono vittime di una siffatta interpretazione (in cui tra l'altro si sopravvalutava anche la razionalità dei sistemi comunisti), che veniva ad avallare la finzione, consapevolmente alimentata dalla propaganda nazista, d'una monolitica compattezza del Führerstaat hitleriano. Fu sopravvalutato altresì il ruolo del ‛partito di Stato' fascista, inteso in larga misura in analogia col modello del partito comunista. La teoria totalitaristica si basava su un insufficiente cognizione dei complicati processi decisionali e delle rivalità di comando dei sistemi di dominio sia fascisti sia comunisti, e si è quindi rivelata inadeguata alla loro analisi (M. Greiffenhagen). Come modello per spiegare il fenomeno nazista, tuttavia, la teoria totalitaristica ebbe il merito d'attribuire un carattere strumentale all'ideologia fascista, reagendo a certe interpretazioni in cui si affermava un'origine meramente ideologica del nazionalsocialismo.
Ancora sotto l'influenza della teoria totalitaristica, ma con l'ausilio delle analisi di E. Fraenkel e Fr. Neumann, K. D. Bracher (insieme a G. Schulz e W. Sauer) ha dimostrato che fra il periodo dei gabinetti presidenziali e la dittatura nazista sussistevano forti elementi di continuità di politica interna: cadeva quindi l'interpretazione, fino allora predominante, del 30 gennaio 1933 come una netta cesura storica, e si indicava il ruolo svolto da certe élites conservatrici nella costituzione del regime nazista. Ponendo in rilievo la tecnica del livellamento (Gleichschaltung) totalitario si additava la duplice natura del regime, che, mentre da un lato si puntellava sulle strutture tradizionali dell'esercito, della burocrazia e dell'economia, dall'altro lato imponeva anche il monopolio del potere politico contro qualsiasi opposizione effettiva o potenziale. A partire dalla fine degli anni cinquanta l'accesso agli atti ufficiali ha reso possibile individuare le intrinseche contraddizioni del sistema di dominio nazionalsocialista, che solo ricorrendo a formule di compromesso poté celare i conflitti d'interessi in campo sociale ed economico, come pure le rivalità di potere emergenti negli apparati dello Stato e del partito; mentre d'altra parte, fatta eccezione per la politica razziale, non riuscì ad attuare i suoi programmi di politica interna. Questa analisi differenziata della struttura del potere nel Terzo Reich costituì uno dei due presupposti di un'analisi comparata dei fascismi; l'altro fu il ravvivato interesse per le cause dell'esplosione della NSDAP in movimento di massa.
In seguito al raffronto fenomenologico compiuto da E. Nolte tra fascismo, nazionalsocialismo e Action française, impostato prevalentemente su concordanze ideologiche, le recenti indagini sul fascismo mirano a identificare gli elementi sociostrutturali comuni a tutti i movimenti e regimi fascisti, distinguendoli quindi dai regimi autoritari fortemente conservatori. Lo studio comparativo del fascismo si pone sin dall'inizio in netta antitesi alla teoria comunista del fascismo, la quale interpreta anche il nazismo come dominio terroristico del capitale finanziario, senza peraltro pronunciarsi sulla struttura dei movimenti fascisti. Fondamentale per l'analisi comparata è la distinzione, introdotta da W. Schieder, tra fase di movimento (Bewegungsphase) e fase di sistema (Systemphase). Caratteristica dei movimenti fascisti è l'accentuata inconsistenza ideologica del programma, che ha anzi un'importanza esclusivamente strumentale, intesò com'è a mobilitare i risentimenti sociali e politici esistenti nella società. Altro contrassegno dei partiti fascisti consiste nel rinunciare in larga misura alla libera formazione d'una volontà politica all'interno del partito e nell'assolutizzare a tutti i livelli dell'organizzazione il Führerprinzip. Accenni iniziali al formarsi di una dialettica interna sono eliminati ben presto (anche se in maniera diversa), e il partito viene trasformato in un'organizzazione puramente propagandistica; a tale scopo servono anche il culto di simboli irrazionali, l'uso delle uniformi e i rituali osservati nei congressi del partito e in pubbliche dimostrazioni. La funzione delle milizie fasciste e del terrore che esse esercitano contro gli oppositori politici è diretta all'intimidazione dell'avversano piuttosto che alla conquista rivoluzionaria del potere con la violenza.
I partiti fascisti sono inoltre caratterizzati dalla capacità di simulare la natura di ‛movimento' propria di quelli socialisti, mentre in realtà l'insieme dei loro membri e seguaci è contrassegnato da un'estrema fluttuazione ed è quindi marcatamente instabile. L'esplosione in movimento di massa e la monopolizzazione del potere politico, pertanto, possono riuscire solo in condizioni di profonda crisi del sistema politico e solo grazie all'alleanza con settori delle élites politiche e sociali dominanti. Ne consegue che nella ‛fase di sistema' il partito fascista ha un carattere prevalentemente sussidiario e non è in grado, salvo eccezioni, d'imporsi come organizzazione politica di massa nei confronti delle nuove élites al potere. Dalla crescente inefficienza d'un partito fascista, per così dire irrigidito nelle forme assunte durante la ‛fase di movimento', e dalle energie politiche da esso non più imbrigliate, emergono però i contrasti specifici tra organizzazioni settoriali o apparati creati ad hoc, politicamente potenti grazie al trasferimento o all'usurpazione di funzioni pubbliche. Sebbene gli sforzi compiuti dall'ala radicale del movimento fascista, per sostituirsi all'organizzazione statale, siano sventati con interventi terroristici per ragioni di autoaffermazione del regime, la dinamica, pur così arginata, si esplica nella progressiva disgregazione della compagine interna di tutte le istituzioni pubbliche, per risolversi quindi in una sorta di crescente ‛darwinismo burocratico', in accanite lotte per il potere a tutti i livelli. In tutto questo processo, se resta pressoché intatto il ruolo del dittatore quale istanza di legittimazione d'interessi rivaleggianti tra di loro, si paga però il prezzo, com'è ovvio, d'un crescente impelagarsi del regime in antagonismi intestini, i cui attriti snaturano e distruggono un'efficienza esteriore sulle prime impressionante. A meno che élites di potere conservatrici e militari (come è avvenuto precocemente nel regime di Franco, o nell'Italia fascista all'insorgere d'una profonda crisi esterna e interna) non interrompano tale processo con l'instaurazione d'una dittatura militare, il crollo esterno e interno del sistema fascista è, come in Germania, ineluttabile.
In questo generale quadro di riferimento va inserito anche il nazionalsocialismo. La NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei) sfruttò di proposito sia il risentimento nazionale surriscaldato dalla leggenda della pugnalata alla schiena e dal trattato di pace di Versailles, sentito come inaccettabile, sia il risentimento sociale alimentato dall'inflazione, dalla stagnazione economica e dai processi di mutamento sociale. Ciò facendo, essa si poneva fin dall'inizio in nettissimo contrasto col movimento operaio socialista, di cui bollava l'ispirazione ‛ebraica'. Quale unica componente stabile dell'ideologia nazista, l'antisemitismo servì, non da ultimo, a superare il contrasto fra la propaganda apertamente antimarxista e le idee anticapitalistiche latenti in una parte dei seguaci, e quindi a creare, con l'immagine tenebrosa del complotto mondiale giudaico-plutocratico ovvero bolscevico, un comune denominatore in un programma che, nelle sue poche finalità concrete, si presentava oltremodo irto di contraddizioni. La protesta contro la modernizzazione, che i nazionalsocialisti fomentarono coi mezzi più moderni, assicurò loro l'adesione di vasti gruppi di simpatizzanti caratterizzati da insicurezza sociale di origine prevalentemente medio-borghese e contadina, senza che peraltro esistesse fra questi una reale identità di interessi. Nemmeno così, tuttavia, il movimento nazionalsocialista di massa riuscì ad arrivare al potere per forza propria: fu necessaria l'alleanza con i ceti sociali sostenitori degli ultimi gabinetti presidenziali, che speravano di imbrigliare Hitler, servendosene come d'un partner provvisorio per la creazione di un sistema autoritario monarchico.
Dal punto di vista dell'indagine comparata del fascismo, non hanno una responsabilità diretta nell'ascesa di esso (anche se, insieme al diffuso nazionalismo irrazionalistico, l'hanno favorita in misura decisiva) le colpe specifiche della democrazia parlamentare di Weimar, individuabili nell'arretratezza della coscienza politica rispetto allo sviluppo sociale, nella diffusa mentalità socialmente conservatrice - orientata verso strutture preindustriali e predemocratiche - e nella debolezza della tradizione liberale. Di portata determinante, invece, sono certi fattori sociali, in particolare la grande insicurezza economica e la decadenza sociale delle classi medie numericamente crescenti, il dissolversi della società dei notabili liberali e gli effetti distruttivi sulle tradizioni dovuti ai processi di razionalizzazione sociale ed economica. Una volta al potere, il nazismo si servì, per stabilizzare il regime, delle forti tradizioni statalistiche e della burocrazia statale, la quale, dal canto suo, riuscì a contenere temporaneamente la tendenza, insita nella struttura del movimento nazista, alla radicalizzazione generalizzata degli obiettivi politici, rendendo possibili per un limitato periodo la stabilità e l'efficienza esteriori del regime. Qualcosa di analogo si può affermare per la parte avuta dall'esercito, il quale fino al 1938 poté salvaguardare quell'autonomia che poi avrebbe progressivamente perduta nel corso della seconda guerra mondiale. A dimostrare che il sistema nazista non può essere spiegato adeguatamente come il risultato di crisi e sviluppi specificamente tedeschi, sta il fatto che, se il sistema andò progressivamente disgregandosi, arrivando all'assurdo sul piano politico-militare, ciò fu dovuto alle stesse energie in esso insite, le quali, sprigionatesi in misura sempre crescente, si esplicarono in un'espansione senza limiti all'esterno e all'interno, e nell'erosione delle strutture statali e sociali tradizionali. Lo studio comparativo del fascismo, invece, consente un'adeguata valutazione sia degli elementi di continuità storica sia dei tratti specificamente innovativi delle dittature e dei movimenti di massa fascisti. Garantisce inoltre un'esauriente descrizione delle caratteristiche essenziali del sistema di potere nazista, come anche il suo inquadramento nell'insieme dei tentativi fascisti che contrassegnano l'epoca fra le due guerre mondiali.
2. Fase di movimento
a) Origine e struttura sociale della NSDAP
Per qualche tempo la Deutsche Arbeiterpartei (DAP, Partito Tedesco dei Lavoratori), fondata con l'appoggio di organizzazioni popolari (Thule-Gesellschaft) e della Reichswehr bavarese, rimase una setta insignificante; ma nella scia del movimento nazionalista insorto contro la repubblica dei Soviet di Monaco, poi rovesciata, e nel clima controrivoluzionario instaurato nel capoluogo bavarese dalle attività illegali dei corpi franchi (Freikorps) e delle milizie popolari (Heimwehr), doveva acquisire un'importanza dapprima locale e poi, dal 1922, regionale. Fu Hitler, che con le sue formidabili qualità di propagandista era assurto, con l'eliminazione del vertice guidato fin allora da A. Drexler, alla carica di capo del partito con poteri dittatoriali, a conferire alla NSDAP l'impronta autenticamente fascista. Ecco quindi formarsi il culto del Führer, ecco le attività di partito concentrarsi esclusivamente sulla propaganda, col risultato di una crescente sterilità programmatica, ecco infine che vengono impedite le elezioni nel partito, poi interamente abolite nel 1927. Sostenuto da una piccola cerchia di fedelissimi seguaci, fra i quali R. Hess, D. Eckart, H. Esser e A. Rosenberg, e assicuratasi la supremazia nell'organizzazione monacense a lui devota, Hitler riusci ad assoggettare completamente il partito alla sua influenza. Nell'anno di crisi 1923 la NSDAP raggiungeva, con i suoi 55.000 iscritti, un primo grosso risultato e una rilevanza sovraregionale.
Poiché prima del 1926 nemmeno Hitler riteneva opportuna la partecipazione della NSDAP alle elezioni, la strategia del partito fu rivolta a conquistare una posizione politica chiave nel quadro dei movimenti sovversivi di destra, apertamente appoggiati da influenti personalità politiche bavaresi, soprattutto dal Generalstatthalter G. von Kahr e dal comando della Reichswehr bavarese. Con la trasformazione delle SA - fondate per svolgere compiti di servizio d'ordine - in una formazione paramilitare, e con lo stabilirsi di collegamenti fra esse e analoghe milizie patriottiche, Hitler, quale capo nominale del Deutscher Kampfbund (Associazione dei combattenti tedeschi), si trovò coinvolto nei piani per un Putsch di destra, fomentato soprattutto da E. Röhm e H. Göring, oltre che da esponenti dei Freikorps (fra i quali il capitano Ehrhardt, E. Ludendorff e Fr. Ritter von Epp). Mentre costoro intendevano ridurre il suo ruolo a una copertura politica dell'azione militare progettata contro Berlino, Hitler pretendeva la posizione chiave nel costituendo direttorio nazionale. Il tentativo di raggiungere lo scopo con la violenza (Putsch del Bürgerbraükeller) portò al fallimento della marcia sulla Feldherrnhalle - un'impresa militarmente e politicamente dilettantesca - che con la marcia su Roma di Mussolini aveva in comune solo il nome. L'arresto di Hitler e la sua condanna alla detenzione nel carcere di Landsberg, provocarono, nonostante l'anticipata scarcerazione, una grave crisi del partito, ora ufficialmente illegale. Organizzazioni sostitutive - come la Grossdeutsche Volksgemeinschaft (Unione Nazionale della Grande Germania) di Rosenberg, la DAP francona di J. Streicher e la NSDAP nordtedesca di P. Volck, in origine autonoma - permisero d'arrestare in parte l'emorragia di iscritti, ma non di neutralizzare la concorrenza della Deutschvölkische Freiheitspartei (Partito Popolare Tedesco della Libertà) di A. von Graefe, dalla cui fusione con altre frazioni derivò la Nationalsozialistische Freiheitspartei (Partito Nazionalsocialista della Libertà). Nonostante il divieto di parlare in pubblico, Hitler riuscì a isolare politicamente il suo rivale Ludendorff (facendolo designare candidato alle elezioni presidenziali del 1925) e, con la rifondazione ex novo della NSDAP, poté cementare la sua leadership, pur concedendo una relativa autonomia ai Gaue (distretti) settentrionali, che ormai avevano acquisito una notevole importanza. Ma, sebbene avesse sconfessato, con l'aiuto di J. Goebbels, l'alleanza costituita nel 1926 dai Gauleiter (capidistretto) nordoccidentali contro il monopolio del potere detenuto dal gruppo di Monaco, Hitler fu costretto a tollerare la relativa autonomia della sinistra nazionalsocialista (R. Kuhnl), appoggiata da Gr. e O. Strasser e dai loro organi di stampa; nel 1930, però, con l'espulsione di Strasser dal partito e con l'inclusione di suo fratello nel vertice del partito stesso in qualità di responsabile dell'organizzazione la sinistra fu condannata a un ruolo insignificante, anche a causa della sua scarsa consistenza ideologica. Solo i successi elettorali conseguiti a partire dal 1928 spinsero l'organizzazione del partito, che ormai copriva l'intero territorio nazionale, a concentrare la propaganda elettorale non più prevalentemente nei grandi centri urbani, ma nelle città medie e piccole, come pure nelle zone rurali (D. Orlow). Una grande influenza sulle masse il partito la ottenne soprattutto infiltrandosi nel Reichslandbund (Unione agricola del Reich) e nel Deutschnationale Handlungsgehilfen-Verband (Federazione dei commessi di negozio tedesco-nazionali) (L. Jones e H. Gies).
La base della NSDAP, originariamente settaria e limitata a gruppi sociali marginali (ex combattenti non reinseriti, commercianti economicamente insicuri, contadini medi, universitari nazionalisti), doveva subire, soprattutto nella fase decisiva di crescita fra il 1925 e il 1928 (da 27.000 a 108.000 iscritti), una trasformazione caratteristica. Diffondendosi nella Germania settentrionale e occidentale, il partito beneficiò d'un notevole svecchiamento; dopo il 1930 oltre la metà degli iscritti è di età inferiore ai 23 anni. Non gli ex combattenti, ma la generazione postbellica viene di preferenza arruolata dalla NSDAP. Con una rappresentanza operaia nettamente inferiore alla media nazionale (1930: 28% degli iscritti di fronte al 46% della popolazione complessiva), il grosso del partito consiste di appartenenti al ceto medio vecchio e nuovo e, nella fase di presa del potere, d'una considerevole percentuale contadina, che subisce un relativo calo dopo il 1933. In contrasto con la concezione di S. M. Lipset, che descrive il successo della NSDAP come una ‟reazione disperata delle classi medie (originariamente liberali)", e come ‟estremismo di centro", in lavori più recenti (H.-A. Winkler) si sottolinea il tradizionale conservatorismo sociale che caratterizzava le fasce del ceto medio sostenitrici della NSDAP, e in particolare il ceto medio artigiano. L'adesione di massa alla NSDAP si basava non solo sulla mobilitazione di gruppi specificamente piccolo-borghesi e piccolo-contadini, ma altresì su strati della popolazione (fuori dei grandi agglomerati Urbani) non pienamente raggiunti, e anzi minacciati nel loro status dal processo d'industrializzazione. Altro fattore di successo era infine la forte attrattiva che il partito esercitava su laureati e impiegati disoccupati, come pure su giovani privi di collocazione professionale. A onta dell'anomala stratificazione dei suoi iscritti e del suo elettorato, la NSDAP poté presentarsi come un partito popolare. L'interpretazione di E. Bloch, secondo cui l'influenza del nazismo sulle masse si basava sull'attivazione politica di settori residui non pienamente raggiunti dalla moderna società industriale epperò condannati a uno stato di arretratezza sociale, come anche la formula della ‟mobilitazione del malessere" proposta da D. Schoenbaum, trovano una conferma nei dati sulla composizione degli iscritti e dell'elettorato del partito e nelle ricerche di storia locale finora pubblicate (W. S. Allen, H. P. Görgen).
Fra le elezioni del settembre 1930 e quelle del luglio 1932, e pur subendo una recessione nella tornata elettorale del novembre 1932 a favore della Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare tedesco-nazionale), la NSDAP andò riducendo in gran parte l'area dei partiti borghesi. Non si trattava però d'un processo irreversibile. Ricerche su scala regionale (R. Heberle, O. Stoltenberg) dimostrano che settori politicamente instabili dell'elettorato continuavano a sparpagliarsi lungo tutto il ventaglio dei partiti; il successo della NSDAP nel luglio 1932 si basava su strati dell'elettorato non ancora toccati, mentre si erano allontanati altri più vecchi. Da tutto questo risulta che il movimento era alimentato in notevole misura da gruppi marginali e da voltagabbana (e non da non elettori); se ne ha una conferma dall'analisi del corpo degli iscritti alla NSDAP, che si distingue dai partiti borghesi e dai socialdemocratici (ma non dai comunisti) per un'altissima mobilità. Fino al settembre 1930 la NSDAP poté legare stabilmente a sé solo il 44% dei suoi iscritti, e perdette circa un terzo di quelli entrati successivamente nelle sue file. Considerato il rapido aumento numerico che si ha nello stesso volger di tempo (30.1.1933: 719.000 iscritti), questa fluttuazione, caratteristica dei movimenti fascisti in genere, è sintomo d'una relativa instabilità, che poté essere dissimulata solo grazie a un'incessante mobilitazione di nuovi aderenti, all'organizzazione di campagne elettorali e propagandistiche, a parate oceaniche e a un ininterrotto attivismo. Eppure, nonostante il richiamo esercitato dal partito ormai al potere e l'atmosfera terroristica in cui si svolsero, le elezioni del marzo 1933 non diedero alla NSDAP più del 43,9% dei suffragi.
b) L'attività politica della NSDAP
L'attività politica della NSDAP e delle SA, che stavano diventando un'organizzazione di massa (circa 300.000 membri nel gennaio 1933) consistette da una parte nel potenziamento organizzativo, dall'altra in sempre più intensificate campagne propagandistiche, grazie alle quali il partito simulava con successo il carattere di ‛movimento'. Le finalità militari delle SA, emerse prima del 1923 e poi durante il congedo puramente formale di Hitler dalla carica di leader del partito con l'istituzione del Frontbann, furono dopo il 1925 intenzionalmente ostacolate da Hitler. Considerata l'esperienza del 9 novembre, egli decise di adattarsi alla legalità, studiandosi in particolar modo d'evitare un conflitto con la Reichswehr. Sforzi compiuti in senso opposto dalle SA sotto la guida di Pfeffer von Salomon indussero Hitler a richiamare Röhm dal Sudamerica, ove era emigrato. Röhm però sfruttò subito l'offerta fatta dalla Reichswehr, sotto il comando di Kurt von Schleicher, di assumersi il carico dell'istruzione militare delle SA per riproporre gli stessi vecchi obiettivi, e dal canto suo, dopo la presa del potere, il comando della Reichswehr prese le distanze da ogni idea di milizia popolare, preferendole la normale coscrizione obbligatoria; poco dopo, infatti, appoggiava attivamente l'eliminazione di Rbhm e le misure terroristiche del 30 giugno 1934.
Pur avendo considerato talvolta la possibilità di un Putsch (si veda la documentazione Boxheim), Hitler mirò a una presa pseudolegale del potere. Cercò l'appoggio della grande industria, bloccò le agitazioni anticapitalistiche dell'ala di Strasser, lasciò cadere le richieste di espropri contenute nel programma del partito, accostandosi nel contempo alle associazioni di destra. Nonostante gli sforzi di W. Keppler e Fr. Thyssen, l'industria pesante, che allora appoggiava decisamente l'indirizzo perseguito da von Papen, persisté nel suo riserbo. La convergenza tattica con la DNVP e con lo Stahlelm (Elmi d'acciaio) nel referendum contro il piano Young (1929) e nel fronte di Harzburg (ottobre 1931) non fu disgiunta da un'accorta salvaguardia della propria autonomia, e fece comunque della NSDAP un partner accettabile in una coalizione per un gabinetto nazionalistico di destra. Nonostante la partecipazione della NSDAP ai governi della Turingia e del Braunschweig, la politica di coalizione naufragò, tanto nel Reich quanto in Prussia, in seguito alle pretese esagerate di Hitler. Gr. Strasser e Göring consideravano l'orientamento hitleriano con crescente scetticismo, il che destò negli ambienti conservatori la speranza di poter guadagnare a una coalizione di destra Strasser, considerato il leader nazionalsocialista più eminente e di maggior rilievo politico dopo Hitler, tanto più dopo che Hitler era stato sconfitto di stretta misura da Hindenburg nelle elezioni presidenziali del marzo-aprile 1932. Allorché anche la schiacciante vittoria nelle elezioni per la dieta prussiana (vittoria che sulle prime sembrò compensare la sconfitta precedente) restò senza conseguenze e allorché il 20 luglio dello stesso anno la Gleichschaltung della Prussia, cioé la deposizione del governo prussiano a opera di von Papen, pose fine alla ventilata coalizione fra il Centro e la NSDAP, si ebbe l'impressione d'un totale isolamento politico di quest'ultima.
Nonostante la crisi del partito provocata dalle elezioni del novembre 1932, durante la quale Strasser diede le dimissioni dalle sue cariche, Hitler pretese per i nazionalsocialisti il cancellierato in un gabinetto munito di pieni poteri presidenziali nonché i dicasteri degli Interni del Reich e della Prussia; ma Hindenburg, adducendo le intenzioni dittatoriali della NSDAP, oppose un rifiuto. La NSDAP uscì dall'isolamento politico solo con la caduta di von Schleicher, dovuta alle voci messe in giro da von Papen, secondo cui il generale preparava la guerra civile. Dando a intendere di mirare alla costituzione di un gabinetto di maggioranza parlamentare comprendente anche il Centro (il presidente del Reich veniva quindi sollevato dalle sue responsabilità per gli eventuali sviluppi autoritari della situazione), von Papen ottenne l'assenso di Hindenburg alla formazione di un governo di concentrazione nazionale con Hitler cancelliere. A. Hugenberg e von Papen ritenevano d'aver efficacemente accerchiato Hitler in un gabinetto a maggioranza conservatrice e, a lungo andare, di poter imbrigliarlo politicamente, una speranza che doveva essere contraddetta già nel momento in cui si costituiva il governo, allorché Hugenberg, sia pur riluttante, acconsentì allo scioglimento del Reichstag, il che significava un indebolimento della componente conservatrice; dell'inserimento, dato a intendere al presidente, del Centro in un gabinetto presidenziale di minoranza, non si fece nulla. I contemporanei - i comunisti come i socialdemocratici scorgevano non in Hitler, bensì nel ‛dittatore dell'economia' Hugenberg l'esponente determinante del nuovo governo, sebbene il mito della ‛riscossa nazionale' e le azioni terroristiche iniziate immediatamente dalle SA (già nella notte del 30 gennaio) contro le forze repubblicane, rendessero palese lo spostamento d'equilibrio a favore della NSDAP.
Contrariamente a quanto sostengono posteriori apologeti conservatori, la NSDAP giunse al potere non attraverso le elezioni, ma grazie al meccanismo d'un regime presidenziale autoritario, manovrato da una camarilla annidata nell'ufficio del presidente del Reich; non solo, ma vi giunse in un momento in cui aveva dovuto incassare un netto calo elettorale e la tendenza espansionistica stava subendo un'inversione di segno. La capacità di resistenza del movimento operaio socialista era già stata psicologicamente infranta con la deposizione del governo prussiano compiuta da von Papen il 20 luglio 1932. Fu allora, se non prima, che venne abbandonato il terreno della legalità; e tanto meno si poteva parlare d'una legale ‛presa del potere', dato che fu capovolto il rapporto fra composizione del governo e risultati elettorali (K. D. Bracher). Gli elementi di continuità fra l'epoca dei gabinetti presidenziali e la prima fase del cancellierato di Hitler furono soprattutto i seguenti: l'utilizzazione della facoltà presidenziale d'emanare decreti d'emergenza al fine di scalzare progressivamente la costituzione repubblicana; la tecnica dell'‛integrazione' (Gleichschaltung), di cui von Papen aveva fornito un esempio nel caso della Prussia; e infine l'assunzione massiccia di personale negli uffici pubblici, effettuata col pretesto di necessità tecnico-amministrative.
3. La presa del potere
a) Verso la legge sui pieni poteri
Spacciando il 30 gennaio 1933 come l'inizio della ‛rivoluzione nazionale', si mascherava la necessità di procurare al governo una maggioranza assoluta nelle elezioni del 5 marzo, prima che esso potesse chiedere al parlamento una legge sui pieni poteri che lo rendesse del tutto indipendente dal presidente del Reich. Sostenuto dalla neutralità della Reichswehr e ora da vasti settori della grande industria, con l'aiuto di von Papen, la cui carica di commissario del Reich per la Prussia veniva di fatto a decadere, Hitler estorse mediante un decreto presidenziale d'emergenza lo scioglimento della dieta prùssiana e l'insediamento in Prussia di Göring quale ministro dell'interno; poté quindi valersi, nella repressione dei partiti di sinistra, dell'apparato poliziesco prussiano, rapidamente allineato (gleichgesehaltet) e coadiuvato dalla polizia ausiliaria delle SA. L'incendio del Reichstag, avvenuto il 27 febbraio, fu impresa individuale dell'olandese M. van der Lubbe; ma il governo ne addossò la colpa ai comunisti, cogliendo il destro per sopprimere completamente, mediante decreto presidenziale, la libertà d'azione politica delle sinistre: furono abrogati i diritti fondamentali (sul modello dell'ordinanza emanata a suo tempo da von Papen in Prussia), legalizzata l'ingerenza negli affari di competenza delle autorità di polizia dei Länder, e sottoposto a sistematica persecuzione il Partito comunista (formalmente non fuori legge). Lo stato d'emergenza civile si basò sul pronto e accorto sfruttamento dei sentimenti anticomunisti, destinati a sopravvivere lungamente all'incendio, ma altresì del timore che una situazione prossima alla guerra civile mettesse in pericolo le elezioni e potesse condurre alla proclamazione dello stato d'emergenza militare.
Le elezioni diedero alla coalizione una risicata maggio- ranza; spacciate per un trionfo schiacciante, esse servirono come pretesto per l'allineamento forzato (Gleichsehaltung) dei Länder, al quale invano cercò d'opporsi la Baviera. Sottoposto a una fortissima pressione politica lo schieramento di Centro (il Centro cattolico e i residui dei partiti borghesi) votò a favore della legge sui pieni poteri (Ermächtigungsgesetz), mentre le trattative - che iniziavano proprio allora - per il concordato col Vaticano aggravavano l'isolamento politico del partito cattolico. L'anticostituzionale legge sui pieni poteri fu approvata, il 23 marzo 1933, solo grazie all'annullamento dei mandati dei parlamentari comunisti e coi voti contrari dei socialdemocratici, che perseverando nella loro tattica legalitaria, speravano, nonostante tutto, di poter evitare la soppressione totale. Ormai Hitler aveva mano libera per ricostruire lo Stato e la società e per liquidare politicamente anche i suoi alleati conservatori. L'opera di liquidazione si concluse con le forzate dimissioni di Hugenberg, l'autoscioglimento della DNVP, l'incorporazione dello Stahlhelm nelle SA e la legge del 14 luglio 1933 contro la fondazione di nuovi partiti politici. Ma già prima Hitler era venuto meno all'impegno di non alterare la composizione del gabinetto includendovi Goebbels, Göring, Hess e Röhm.
Nonostante i progetti d'un nuovo testo costituzionale - che secondo il suo propugnatore W. Frick avrebbe dovuto accompagnare la riforma del Reich - la legge sui pieni poteri, definita da C. Schmitt ‟costituzione provvisoria della nuova Germania", restò sino alla fine del regime il fonda- mento pseudolegale della dittatura hitleriana; formalmente prorogata nel 1937 e nel 1939 dal Reichstag, nel 1943 le fu conferita validità a tempo illimitato da un decreto del Führer. Le garanzie costituzionali ancora contenute nella legge furono violate con l'intromissione negli affari dei Länder, l'unificazione delle cariche di cancelliere e presidente del Reich (agosto 1934) e l'abolizione del Consiglio federale (Reichsrat). L'importanza della legge sta nella pretesa legalizzazione della ‛rivoluzione nazionalsocialista', grazie alla quale il regime poté più agevolmente ottenere il giuramento di fedelta dei corpi burocratici e assicurarsi il riconoscimento internazionale.
b) Il ‛livellamento' (Gleichschaltung) dello Stato e della società
Secondo il Bracher la presa del potere da parte dei nazisti si attuò in tre stadi. Alla prima fase, che vede aumentare i poteri dell'esecutivo grazie ai metodi del regime presidenziale e che si conclude con la legge sui pieni poteri, ne succede una seconda in cui lo Stato di diritto e l'opposizione politica vengono liquidati mediante l'instaurazione del regime a partito unico; nel terzo stadio, infine, s'instaura il regime totalitario per mezzo dell'alleanza con l'esercito, la burocrazia e il vasto apparato poliziesco accentrato nelle mani del Comando delle SS. Contrariamente a una diffusa opinione, secondo cui la NSDAP avrebbe imposto il suo monopolio di potere secondo un minuzioso programma graduale, in realtà il processo fu spesso privo di coordinazione ed ebbe di mira prevalentemente la neutralizzazione o l'eliminazione politica degli avversari potenziali; in tale processo s'integravano a vicenda l'azione ufficiale pseudolegale del regime e l'oppressione terroristica. Nel Reich, in Prussia e negli altri Länder, i direttori generali dei ministeri, in questo appoggiati da loro funzionari (di mentalità conservatrice-statalistica), si studiarono di assoggettare al loro esclusivo controllo l'amministrazione rispettiva e di estenderne le competenze; ne risultò un conflitto fra gli sforzi di centralizzazione messi in atto dall'amministrazione del Reich, e i Länder che, pur dopo il ‛livellamento' (Gleichschaltung), miravano all'autonomia: il risultato fu un contrasto fra amministrazione generale o nazionale e organi amministrativi autonomi d'ogni grado. D'altro canto le organizzazioni del partito e le SA cercano, per mezzo dell'insediamento di commissari, d'acquisire un'influenza diretta sull'amministrazione, in particolare sulla politica del personale; ciò si risolve in un colossale favoritismo burocratico, osteggiato con esiti alterni dai ministri (non fosse altro per considerazioni di carattere finanziario). È vero che il Ministero degli Interni del Reich impose l'abolizione del sistema commissariale e vietò ulteriori intromissioni delle organizzazioni del partito nell'apparato amministrativo; ma questo non impedì la persistenza, soprattutto in sede comunale, di situazioni aperte all'influenza del partito. Sulle prime la burocrazia riesce a imporsi in larga misura, fra il crescente risentimento dei quadri della NSDAP, ma in seguito la sua risulterà una vittoria di Pirro.
Tra l'incudine e il martello degli interventi centrali e del terrore locale si attua il ‛livellamento' della vita sociale. L'introduzione del Führerprinzip in associazioni, federazioni, enti di diritto pubblico e società scientifiche, l'estromissione di Ebrei e repubblicani, e l'oppressione terroristica esercitata sulle personalità ribelli assicurano e consolidano l'allineamento della società con il Führerstaat. Un ruolo di fiancheggiamento legalizzatore fu svolto in questo processo dalla legislazione. Nello stesso tempo, usurpando prerogative statali, le associazioni affiliate alla NSDAP fanno proprie nuove funzioni da sostituire a quelle, sin allora prevalenti, di agenti elettorali. È quanto fanno la Deutsche Arbeitsfront (DAF, Fronte Tedesco dei Lavoratori), la Hitlerjugend, il Reichsnährstand (Corporazione del Reich per l'alimentazione), i reparti propaganda della NSDAP, che vengono subordinati direttamente al ministro del Reich per la Propaganda e l'Educazione Popolare; altre organizzazioni, quali la NS-Jago (Nationalsozialistische Handwerks-Handels-und Gewerbeorganisation: organizzazione nazionalistica dell'artigianato, del commercio e dell'industria) per i ceti medi o la NSBO (Nationalsozialistische Betriebszellenorganisation: organizzazione di cellule aziendali nazionalsocialiste), non sono in grado di affermarsi. Si va delineando fra partito e Stato un dualismo (ma ‛dualismo' è solo l'etichetta sommaria di tutta una complessa rete di rivalità e lotte di posizione) che già nell'estate 1933 minaccia di ridurre a valori minimi l'efficienza del regime.
La ‛rivoluzione di marzo' (così si volle denominare il processo di ‛allineamento') viene accompagnata dallo scatenarsi d'uno sfrenato terrore contro i nemici del regime e gli Ebrei, e dall'istituzione, a opera delle SA, di campi di concentramento ‛selvaggi'. Il movimento operaio organizzato è esposto senza difesa alcuna agli interventi terroristici. Nonostante i loro tentativi di trovare un modus vivendi col regime grazie allo sganciamento dei socialdemocratici, i sindacati liberi vengono sciolti, con un'azione accuratamente preparata, il 2 maggio 1933; i loro patrimoni sono confiscati, le loro sedi occupate e saccheggiate; ne assume l'eredità la Deutsche Arbeitsfront (DAF), guidata da R. Ley, all'insegna della ‛comunità aziendale'. La legge sull'ordinamento del lavoro nazionale abolisce la libera circolazione della manodopera, nega al lavoratore il diritto di sciopero e annienta la rappresentanza sindacale in seno all'azienda. I deboli tentativi, compiuti dalla DAF, di far valere certi interessi sociali dei lavoratori naufragano contro la resistenza opposta dal Ministero del Lavoro del Reich, che affida la composizione delle controversie di lavoro a ‛fiduciari per il lavoro'. Dato l'obbligo di iscrizione, la DAF era in realtà una delle organizzazioni più grandi ed economicamente più forti del Terzo Reich ; ma si limitò a organizzare corsi d'istruzione e addestramento, ad attività dopolavoristiche (Kraft durch Freude) e a coltivare una certa quale cosmesi sociopolitica (‛bellezza del lavoro').
Nella misura in cui non si esaurivano nelle attività di sottogoverno, le energie della NSDAP e delle SA furono rivolte soprattutto contro gli Ebrei ; e tuttavia il boicottaggio organizzato da J. Streicher il 1 aprile 1933 si risolse in un fiasco. La speranza di farne l'avvio di pogrom spontanei a furor di popolo si rivelò fallace. Considerazioni di politica estera e interna costrinsero il regime a impedire sempre di più la persecuzione ‛selvaggia' degli Ebrei e a percorrere, invece, la via ritenuta più efficace da Heydrich: l'eliminazione ‛legale', vale a dire effettuata sfruttando i sistemi propri di uno Stato di polizia. La legge del 7 aprile 1933 sulla riorganizzazione della burocrazia servì più che altro a legalizzare le misure epurative prese contro i pubblici dipendenti ebrei e socialisti. Già in precedenza numerosi giuristi, insegnanti universitari, artisti e liberi professionisti erano stati costretti a emigrare. Soprattutto nelle università, ampiamente nazificate già prima del 1933, l'agitazione ‛contro lo spirito non tedesco' portò a eccessi vergognosi. Eppure, sul finire della primavera, intellettuali eminenti come G. Benn, M. Heidegger, E. Bertram e K. A. von Müller esprimevano ancora il loro favore al regime, col quale, ai primi di luglio, faceva definitivamente pace l'episcopato tedesco.
c) Seconda rivoluzione: la Werhmacht e le SA
A onta delle sue dichiarazioni in contrario, la NSDAP giunse al potere impreparata. Mancavano idee chiare sul da farsi. Sebbene progetti legislativi fossero stati elaborati dalla Direzione nazionale del partito ancor prima del 1933, essi rimasero senz'alcuna influenza sulla burocrazia ministeriale. La formula di Goebbels, secondo cui bisognava trasferire allo Stato ‟la legalità del movimento" nazista, rispecchia l'imbarazzo nascente dalla mancanza di progetti concreti ben definiti. Di fatto l'iniziativa passò alle burocrazie ministeriali del Reich e della Prussia, ambedue di mentalità conservatrice e ben affiatate tra di loro. Nello stesso tempo, col massiccio afflusso d'iscrizioni, l'apparato del partito risultava sproporzionato. Con un milione e mezzo d'iscritti, la NSDAP non era più una struttura politicamente efficiente, tanto più che nelle sfere dirigenti cominciò ad aversi una mobilità elevatissima. Lo stesso si dica delle SA, che con l'annessione delle associazioni combattentistiche di destra arrivavano a due milioni di membri (tre milioni e mezzo comprendendo la riserva), di cui meno di un terzo era iscritto alla NSDAP. La trasformazione del movimento da un'associazione combattentistica orientata verso la lotta politica in un'organizzazione interessata esclusivamente all'indottrinamento politico, alla preparazione di pubbliche adunate (WHW) e ad attività dimostrative, sollevava problemi considerevoli. Non più il fanatico combattente occorreva, d'ora in poi, ma il funzionario amministrativo; di conseguenza il gruppo dei ‛vecchi combattenti' perdette la posizione chiave detenuta fino allora, e reagì con acre risentimento antiburocratico e, in parte, antiborghese. Parimenti, dopo la presa del potere, il nerbo delle SA si vide defraudato dei frutti della sua battaglia, tanto più che, sotto la guida di H. Himmler e R. Heydrich, le rivali SS monopolizzavano le funzioni di polizia politica. Lo scontento delle SA, duramente colpite dalla persistente disoccupazione, sfociò nell'oscura parola d'ordine della ‛seconda rivoluzione', dietro la quale non c'era alcuna idea chiara. Una qualche plausibilità politica avevano solo gli obiettivi di Röhm: evitare la fusione delle SA con l'apparato statale e, dopo la morte di Hindenburg, assumere il Ministero della Reichswehr, per conferire alle SA una rilevanza militare determinante, possibilmente sotto forma di una milizia popolare. Queste ambizioni avverse alla Reichswehr offrirono agli esponenti delle SS - che, come Göring, rivaleggiavano con Röhm - il destro per far circolare, in perfetta malafede, le voci d'un imminente Putsch delle SA; alla fine Hitler (il quale, dopo il discorso tenuto da von Papen a Marburg, aveva fiutato il pericolo di mene sovversive dei monarchico-conservatori) si convinse che le SA erano sul punto di rendersi colpevoli d'alto tradimento. Le fucilazioni del gruppo dirigente delle SA, effettuate dalle SS con l'attivo appoggio della Reichswehr, e gli assassini immediatamente successivi di avversari effettivi o potenziali del regime, avvennero in un clima di generale isterismo, in cui soltanto le SS operarono razionalmente secondo i propri interessi. Non si può parlare d'una programmata azione epurativa, di cui avrebbe preso l'iniziativa lo stesso Hitler, ma piuttosto d'un regolamento di vecchi conti all'interno del gruppo dirigente nazista; ne furono vittime anche Gr. Strasser e K. von Schleicher, senza che il comando della Reichswehr, allora affidato a W. von Blomberg, elevasse la minima protesta; poco dopo, anzi, allorché furono unificate le cariche di presidente e cancelliere del Reich, il comando dispose che le truppe prestassero giuramento di fedeltà al Führer Adolf Hitler, ripagando così le azioni terroristiche che avevano assicurato alla Reichswehr il monopolio del potere militare; il che doveva portare, fra il 1938 e il 1939, all'‛allineamento' (Gleichschaltung) del comando supremo. Il 20 giugno 1934 significò la fine di tutti i piani fondati su Hindenburg, d'un rovesciamento della situazione in senso monarchico-conservatore e collocò le SS al centro del potere. Con la nomina di Himmler a capo della polizia tedesca (solo formalmente soggetto al Ministero degli Interni del Reich), nel 1935 era posta la prima pietra del futuro Reichssicherheitshauptamt (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, 1939) e si compiva il passo decisivo verso l'assoggettamento di tutte le forze di polizia (Gestapo, Ordnungspolizei) al comando delle SS.
4. Il sistema di dominio nazionalsocialista
a) La struttura del potere
Anziché porre l'accento sul monolitico Führerstaat invocato dalla propaganda nazista, negli studi recenti si sottolinea la struttura antagonistica del regime, il quale si rivela come un intrico assai complicato e disorientante di istituzioni e gruppi di potere in contrasto fra loro. Controverse sono le cause di queste lotte di potere, che andarono acuendosi continuamente durante la guerra, risolvendosi nella disgregazione dell'apparato statale prenazista, senza però che questo fosse sostituito da nuove e durature istituzioni. Il Bracher fa risalire l'anarchia istituzionale del regime all'atteggiamento mentale fondamentale socialdarwinistico di Hitler, il quale si sarebbe servito coscientemente del principio del divide et impera onde assicurarsi il ruolo di supremus arbiter. È indubbio che le rivalità interne alle élites direttive non intaccarono la posizione del dittatore. Già come capo del partito Hitler, per consolidare il suo ruolo di Führer, aveva indirettamente favorito lotte di potere ai livelli inferiori. Da tutto questo il Bracher trae le seguenti conclusioni: ‟L'antagonismo delle funzioni di potere viene superato unicamente nell'onnipotente posizione chiave del Führer. Ma è proprio in tale posizione e non nell'efficienza dello Stato di per sé, che risiede l'obiettivo più riposto del tutt'altro che perfetto ‛allineamento'. La posizione chiave del dittatore, infatti, è basata appunto sul complicato e torbido giustapporsi e contrapporsi di gruppi di potere e vincoli personali". Indipendentemente dal fatto che la tendenza al conflitto di competenze dipendesse dalla costituzione psichica irrazionalistica di Hitler (R. Bollmus) ovvero da un modello socialdarwinistico programmaticamente perseguito (E. Jäckel), è certo comunque che la struttura antagonistica del regime è in gran parte il risultato della trasposizione del Führerprinzip, proprio della ‛fase di movimento', al piano delle decisioni statali. Anche come statista, Hitler agì secondo le massime del propagandista provetto: concentrare tutto su un obiettivo individuato di volta in volta, evitare d'impegnarsi su contenuti precisi, simulare incrollabile tenacia di propositi e impiegare strategie parallele senza curarsi delle conseguenze politiche. Coerentemente con tali principi, la prassi abituale consisteva nel trascurare quei problemi politici che, temporaneamente o stabilmente, non fossero al centro dell'interesse; nel raggiungere l'obiettivo auspicato col sistema delle doppie competenze, anziché operando un avvicendamento dei quadri dirigenti, inopportuno per ragioni di facciata; e infine nel preferire sistematicamente soluzioni ad hoc.
Il Führerprinzip sortì effetti assolutamente non riduci- bili al solo irrigidimento del processo decisionale: L'indi- scriminata vastità delle competenze e una direzione disinvoltamente aburocratica, unite a una cronica sottovalutazione del parere di esperti, condussero su tutti i piani al dominio incontrollato di clientele personali e al diffondersi di corruzioni, delazioni e intrighi, oltre che a un'estesa segmentazione dell'organizzazione del partito. I tentativi, compiuti da M. Bormann, di assoggettare l'apparato del partito al vice-Führer, cioè alla Cancelleria del partito, riuscirono solo in parte, soprattutto a causa della posizione dei Gauleiter, direttamente responsabili verso il Fùhrer. A buon diritto il Gauleiter K. Röver così criticava i metodi di comando, risalenti all'epoca della lotta: ‟Il principio della libera crescita, finché il più forte non si sia imposto, è indubbiamente il segreto dello sviluppo e delle realizzazioni assolutamente sbalorditivi del movimento". Quel principio sortiva però anche altri risultati: un completo frazionamento delle competenze, un totale autonomizzarsi delle istanze del partito e quindi l'assoluta mancanza di direzione nella politica interna tedesca. L'accanita lotta di potere fra i potentati del regime, condotta di solito a spese della burocrazia ministeriale, fu esasperata in misura determinante dalla mancanza di chiare direttive del Führer. Circa il progressivo consolidamento delle varie aree di potere è significativo che fossero spesso stipulate private convenzioni fra singoli potentati al fine di delimitare le competenze rispettive.
L'irrazionalità dei processi decisionali nel Terzo Reich era dovuta inoltre alla mancanza di meccanismi integrativi. Il Reichstag era ridotto all'acclamazione; formalmente le decisioni spettavano al gabinetto, che però, dopo avere svolto un'attività relativamente continuata nel 1933, si riunì sempre più di rado e dal 1938 non fu più convocato; le sue riunioni furono surrogate da colloqui interministeriali o da circolari e altre forme di corrispondenza scritta. Anche prima, d'altronde, si era dato il caso di decisioni sottratte al gabinetto, che veniva quindi ridotto a sanzionare formalmente misure già adottate. Cessò del tutto, inoltre, ogni contatto fra i dirigenti dell'amministrazione e il cancelliere del Reich. Il coordinamento era affidato al segretario di Stato e capo della Cancelleria del Reich (H. Lammers) che assurse bensì al rango di ministro, ma in definitiva riuscì solo eccezionalmente a far valere contro le mene di Bormann il diritto - di decisiva importanza - a essere ricevuto dal Fuhrer. In tutto ciò, durante la guerra, ebbe la sua parte la separazione geografica del quartier generale del Führer dalla sede del governo.
Nemmeno nel partito era garantita la composizione degli interessi divergenti. La direzione nazionale della NSDAP esisteva solo di nome; le conferenze dei Gauleiter avevano luogo sempre più raramente, quelle dei governatori dei Reichsstatthalter Länder finirono col non essere più convocate. Hitler rifiutò la proposta di affiancargli un organo consultivo, si trattasse d'un senato con compiti legislativi o d'un senato di nomina del Führer. Le riunioni del gruppo dirigente durante i congressi del partito erano irrilevanti ai fini della formazione d'una volontà e d'un consenso all'interno del partito. Non esisteva, quindi, nessuna valvola istituzionale che regolasse gli attriti e i contrasti d'interesse nel partito, la cui composizione era perciò inevitabilmente affidata a intrighi, a intese stipulate su una base esclusivamente personalistica. La funzionalità del sistema era condizionata dal fatto che il Führer fissasse per lo meno le linee direttive della politica, decidendo di autorità i conflitti di maggior portata. Ciò avvenne sempre più di rado. Al contrario, Hitler diede disposizioni perché si ponesse fine a qualsiasi discussione, come ad esempio quella sulla controversa riforma del Reich. Per di più, nessuno dei gruppi di potere in lizza poteva esser sicuro che le competenze riconosciutegli non gli fossero strappate da rivali di maggior successo. Si venne così a creare un'atmosfera di diffidenza, che rafforzò negli apparati rivali - nel partito e nello Stato - la determinazione di assicurarsi il favore del dittatore con iniziative unilaterali. I pogrom antiebraici del 9 novembre 1938, inscenati da Goebbels e durissimamente criticati da Heydrich e Göring, ebbero origine dallo sforzo di ridare, sia a Goebbels che al partito, una posizione di primo piano.
b) Disgregazione dell'unità amministrativa
Con la creazione, a ogni piè sospinto, di autorità commissariali con incarichi speciali ma competenze non chiarite, si ebbe una guerra di tutti contro tutti: fu scomodato il Ministero degli Interni del Reich perché prendesse sotto controllo la situazione. Dopo l'insediamento dei commissari del Reich nei Länder e dopo che la composizione delle diete e dei consigli comunali era stata uniformata d'autorità ai risultati delle elezioni per il Reichstag, il 7 aprile 1933 fu promulgata la legge sui governatori del Reich (Reichsstatthaltergesetz), che, fatta eccezione per la Prussia, sostituiva nei Länder i ‛governatori' ai ‛commissari'. Il 1° gennaio 1934 segui il Neuaufbaugesetz (legge di ristrutturazione), definita da Frick un'‟estensione della legge sui pieni poteri": il governo del Reich era autorizzato a emanare un nuovo ordinamento dello Stato; venivano aboliti i parlamenti regionali; i governi regionali e i governatori venivano posti alle dipendenze e sotto il controllo del Ministero degli Interni del Reich.
Fallì invece l'intento di Frick di superare, attraverso un'autorità nazionale intermedia e in vista di un ordinamento centralizzato, il particolarismo regionale, ormai rappresentato dai Gauleiter. Dell'auspicata riforma costituzionale non poterono salvarsi che la Deutsche Gemeindeordnung (Testo unico sull'ordinamento dei comuni tedeschi, 1935) e il Deutsches Beamtengesetz (Legge sullo stato giuridico degli impiegati statali tedeschi, 1937), oltre che l'estesa unificazione dei ministeri prussiani con quelli del Reich.
Le tendenze disgregatrici furono potenziate coll'annessione dell'Austria, dei Sudeti e del bacino della Warta: tutti territori in cui il partito entrò in azione più prontamente del Ministero degli Interni; e dal dominio effettivo dei Gauleiter orientali e sudorientali, che in Alsazia-Lorena fungevano anche da commissari civili, derivò la pretesa, a livello del Reich, che l'‛autorità nazionale intermedia' (Reichsmittelinstanz) fosse resa immediatamente soggetta al Führer. Nella lotta fra autorità centrali da una parte e Gauleiter dall'altra fu largamente erosa l'autonomia amministrativa comunale e regionale, ma non per questo si evitò la disgregazione dell'unità amministrativa (caratteristica dello Stato moderno) la quale tanto più s'indeboliva quanto più andava decadendo la legalità amministrativa. Le dimissioni di Frick, richieste nel 1941 e per volere di Hitler differite al 1943, suggellarono la sua sconfitta nella battaglia contro l'usurpazione di competenze da parte dei Gauleiter dei territori annessi e contro gli alti gradi delle SS e della polizia, che Himmler, nella sua qualità di responsabile del Reichskommissariat für die Festigung deutschen Volkstums (Commissario del Reich per il consolidamento del carattere nazionale tedesco: RKFDV), aveva associati alle autorità amministrative.
I continui trasferimenti di potere investirono tutti gli ambiti amministrativi, a eccezione del Ministero delle Finanze che però il più delle volte era messo di fronte al fatto compiuto. Il Ministero dell'Economia del Reich dovette cedere competenze essenziali a Göring quale plenipotenziario per il piano quadriennale; a sua volta Göring entrò in conflitto con Fr. Sauckel (a lui soggetto solo formalmente), commissano del Reich per la mobilitazione del lavoro e con l'Ufficio per l'economia di guerra, fino a che la sfera di competenze di quest'ultimo non fu rilevata da A. Speer, asceso alla carica di ministro degli Armamenti. La DAF, che aveva usurpato in larga misura le competenze proprie del ministro del Lavoro del Reich, si vide costretta a passare per Sauckel. Apparati di partito e burocrazia ministeriale si trovarono in aspro conflitto con le SS, le quali apparivano sacre e inviolabili nel capillare impero che si erano costruito in tutti i settori pubblici; in realtà era anch'esso gravido di contrasti ed era tenuto insieme, a malapena e solo esteriormente, dalle aspirazioni aristocratiche dei fautori della Grande Germania. Il tentativo di rinsaldare il sistema creando il Reichsverteidigungsrat (Consiglio per la difesa del Reich) e, dopo il 20 luglio 1944, delegando i pieni poteri a Goebbels, incaricato dell'applicazione della guerra totale, fallì del tutto. Particolarmente nei territori occupati si svilupparono strutture dispotiche di dominio, che si sottraevano interamente al controllo delle autorità centrali del Reich.
Gli sforzi compiuti dall'ufficio del vice-Führer per monopolizzare, contro gli uffici di partito subordinati, il controllo della pubblica amministrazione - in specie in materia di politica del personale - ottennero, è vero, che le alte sfere burocratiche, collegate coi vertici governativi per il solo tramite di Lammers, segretario di Stato alla Cancelleria del Reich, dovessero passare per quel tramite; ma ebbero scarso successo nei confronti dei Gauleiter (specialmente dopo la loro nomina a commissari per la difesa del Reich) e delle influenti amministrazioni speciali (Piano Quadriennale, RKFDV, Organizzazione Todt, lo Einsatzstab di Speer, Ufficio della forza lavoro di Sauckel) e, infine, nei confronti delle SS che erano diventate uno Stato nello Stato. Solo grazie alla sua duplice veste di capo della Cancelleria del partito (dopo il volo di Hess in Inghilterra) e di segretario del Führer, e ricorrendo anche alla prassi degli ‛ordini del Führer' senza la controfirma di Hitler, Bormann fu in grado di assicurarsi, come ‛eminenza grigia', un'influenza non certo universale, ma comunque determinante; tanto più che, al pari di Goebbels, egli non pretese alcuna posizione di vertice allorché nel quartier generale del Führer si scatenarono alla fine quelle lotte per la successione che portarono alla destituzione di Göring e all'esclusione di Himmler.
Nonostante la sua parte determinante nell'assegnazione dei posti di Gauleiter vacanti, e nonostante la massiccia pressione esercitata in materia di politica del personale sull'amministrazione e la sua estesa influenza sulla legislazione, dalla Cancelleria del partito - anch'essa internamente scissa - non promanò alcun efficace stimolo alla ristrutturazione del sistema politico. Benché in origine fosse il più deciso sostenitore del principio dell'unione di cariche di partito e cariche statali nella stessa persona, Bormann mirò a render più autonomo e a ripoliticizzare il partito, nel quale fece ammettere alti ufficiali di fede nazista, cercando cosi di procurargli appoggi nel corpo ufficiali d'un esercito destinato, ‛dopo la vittoria', a essere ridimensionato. Nemmeno il trasferimento a Himmler del Ministero degli Interni, che cedette competenze essenziali al RSHA, poté evitare il decomporsi del sistema in aree di comando senza comunicazione fra loro.
c) Comunicazioni e processo decisionale
La repressione dei quadri burocratici dirigenti, la frantumazione delle competenze e l'erosione degli organi di coordinamento produssero una crescente insicurezza decisionale ai vertici, tanto più che Hitler, a quelli ufficiali, preferiva canali d'informazione ufficiosi; egli inoltre prendeva abitualmente le sue decisioni sulla base di resoconti orali, senza conoscere la relativa documentazione, e subiva facilmente le influenze incontrollate e arbitrarie della sua cerchia abituale. L'apriorismo nell'esercizio del comando si concretava in resoconti falsati e in una selezione dell'informazione: il risultato era una crescente perdita di presa sulla realtà. In politica interna, rapporti della provenienza più disparata e intonati allo stato d'animo del momento surrogavano il pubblico dibattito (ormai soffocato) come anche il collegamento (difettoso) fra partito e popolazione; il risultato finale di questo filtraggio selettivo era un'accresciuta ignoranza dello stato reale delle cose (M. G. Steinert). Questa situazione si estese alla sfera della politica estera (vedi, per es., la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti) e al comando militare - dal 1941 in poi monopolizzato da Hitler - provocando innumerevoli errori strategici.
Il dispregio - tipico del regime - nei confronti della competenza tecnica in campo burocratico, diplomatico e militare è rintracciabile a tutti i livelli e si risolse nello svilimento della burocrazia, nella soppressione dell'indipendenza del potere giudiziario, e nell'esclusione dei diplomatici di carriera in favore di incaricati speciali e dilettanti politici quali J. von Ribbentrop. Si produsse così, nella sfera dell'economia e degli armamenti, una perdita di razionalità a cui si pose rimedio troppo tardi con il ricorso a tecnici apolitici. I pubblici poteri furono surrogati da uno scoperto sistema di cricche spadroneggianti e rivaleggianti tra di loro, che si servivano parassitariamente delle istituzioni vigenti minandone così la consistenza per aumentare il proprio potere. Il processo decisionale politico era quindi influenzato in misura determinante dalle ambizioni personali e dalla corruzione dei detentori delle varie cariche, e si svolgeva inoltre irrazionalmente, sotto forma di lotte per il potere fra clientele che si muovevano fuori di ogni canale istituzionale. Perno della giostra delle alterne costellazioni e alleanze di potere era il dittatore, prigioniero a sua volta d'una politica che, incapace di conciliare gli interessi divergenti per mezzo di compromessi prammatici, poteva farlo solo entro l'orizzonte di utopistiche mete finali, promuovendo così una sorta di ‟selezione negativa dei fattori ideologici" (M. Broszat). Là dove erano in gioco massicci interessi sociali, si addiveniva di solito a una situazione di stallo. E tanto più sfrenatamente i gruppi di potere rivali cercavano di dimostrare la propria indispensabilità allorché erano chiamati all'oppressione di gruppi razziali o etnici, o quando l'espansione militare faceva balenare la prospettiva di facili razzie. Conseguentemente, slogan come quelli del Lebensraum (spazio vitale) e del Rassenkampf (battaglia per la razza), che in origine servirono a mascherare una politica espansionistica di potenza priva di mete precise, o a placare risentimenti sociali, divennero priorità politiche che, almeno in apparenza, consentivano di legare in un fascio gli interessi antagonistici di parte. La persecuzione degli Ebrei, che dalla discriminazione sistematica passò alla deportazione forzata e al genocidio ne è un esempio: il progetto di un'emigrazione sistematica naufragò sullo scoglio della situazione valutaria; quello della deportazione nel Madagascar, temporaneamente preso in seria considerazione dal Ministero degli Esteri, fu scartato per ragioni di politica estera ; quello delle deportazioni in massa nel Generalgouvernement (governatorato generale) non superò le resistenze opposte da H. Frank, che voleva il suo governatorato ‛libero da ebrei' ; ecco quindi che, sebbene considerata sulle prime politicamente irrealizzabile, la ‛soluzione finale' s'impose come la ‛soluzione sicura'.
Casi di conflitti risolti aggirando le priorità effettive sono rintracciabili in tutti i settori della politica nazista. Per quanto concerneva gli obiettivi immediati, una simile prassi facilitò una tattica che, dando l'illusione di una razionalità nei tempi lunghi, consentiva astuzia e giravolte improvvise, che si pagavano poi con crescenti contraddizioni nella programmazione a medio termine e con enormi perdite dovute agli attriti. Tutto questo facilitò la stabilizzazione esteriore del sistema, nel senso che di fronte al confuso giustapporsi e contrapporsi d'interventi e alla frammentaria informazione fornita dai funzionari al servizio del regime, si mantenne intatta la finzione d'una razionalità sovrastante l'insieme - la lungimiranza del dittatore - mentre gli inconvenienti del malgoverno erano accollati ai subordinati e non al sistema in quanto tale; ciò spiega il lealismo che vastissime cerchie serbarono nei confronti di Hitler sino alla fine della guerra. Oltre a ciò, accadde che, di fronte alla frantumazione dei centri decisionali e alla difficoltà di individuare le responsabilità, i gruppi d'opposizione si trovarono privi di un punto d'avvio per un'azione cospirativa efficace. D'altro canto il vuoto esistente fra governo e popolo impedì alle consortene naziste dominanti di liberarsi del loro stato di patologica dipendenza da Hitler. Gravate d'una corruzione personale spinta all'estremo e d'inimmaginabili delitti, esse non seppero opporsi (con l'eccezione della cerchia di Speer) agli irrealistici ordini di resistenza a oltranza che il dittatore, fisicamente e psichicamente finito, lanciava dal bunker in cui s'era recluso.
5. Società e nazionalsocialismo
a) Politica sociale ed economica
A parte gli interventi distruttivi - lo scioglimento del movimento sindacale operaio e l'abolizione dei diritti dei lavoratori sanciti dalla Legge sull'ordinamento del lavoro nazionale promulgata ai primi del 1934 - i programmi socio- politici del nazismo fallirono su tutta la linea. Invece del promesso rafforzamento del ceto medio e dei contadini, la politica di riarmo provocò una subitanea urbanizzazione e un'elevatissima concentrazione in campo economico a spese del ceto medio artigiano la cui posizione economica era stata solo transitoriamente migliorata dalla politica di arianizzazione. Lo slogan della ‛comunità di popolo' (Volksgemeinschaft) non conduceva certo al livellamento delle sperequazioni sociali, ma simulava l'eguaglianza sociale per mezzo d'una fittizia parificazione dei ruoli sociali e d'un artificioso indebolimento delle aspettative di avanzamento sociale. Il pathos della propaganda sociopolitica del Terzo Reich, con quel suo trasfigurare la figura del lavoratore in ideale sociale e quei suoi appelli all'aumento della produttività, lanciati per mezzo di ‛battaglie per la produzione' e ‛gare professionali' su scala nazionale nascondeva il progressivo ridursi della quota di prodotto nazionale lordo spettante ai salari come anche un nettissimo calo dei consumi, dovuto alle restrizioni imposte alle importazioni e alle industrie produttrici di beni di consumo. Certo, con la penuria di forza lavoro sopravvenuta negli anni 1938-1939, il sistema del blocco dei salari non poté essere mantenuto, ma è innegabile che l'ascesa economica avvenne a spese dei lavoratori, privati dei diritti sociali e, soprattutto durante la guerra, stimolati a continui straordinari; l'esperienza della grande crisi li induceva tuttavia a preferire la sicurezza del posto di lavoro agli aumenti salariali, ma in cuor loro erano contrari al regime.
Nonostante che nella NSDAP perdurassero certi risentimenti anticapitalistici, il regime proseguì coerentemente la politica d'intesa con la grande industria, perseguita fin dal 1927. Dal canto suo la grande industria si organizzò in sei associazioni nazionali, di cui erano obbligatoriamente membri tutti gli industriali tedeschi: scomparvero quindi tutte le confederazioni preesistenti. Dopo la parentesi di K. Schmitt ministro dell'Economia del Reich, che favorì unilateralmente gli interessi dei chimici, H. Schacht tornò a un sistema economico dirigistico che privilegiava i gruppi dell'industria pesante e che, mediante un'artificiosa creazione di credito (Mefo-Wechsel), il controllo dell'interscambio con l'estero, il contingentamento delle materie prime e le restrizioni valutarie, fu messo al servizio del riarmo forzato. La nomina di rappresentanti della grande industria a dirigenti dell'economia di guerra, la direzione statale imposta alle camere d'industria e di commercio e le commesse statali in costante aumento permisero a Schacht di superare la disoccupazione di massa con misure dirigistiche di vasta portata, e di accrescere notevolmente la produzione industriale. La politica degli accordi commerciali bilaterali con l'estero, che assoggettarono all'influenza economica tedesca non solo il Sudamerica, ma anche e soprattutto i paesi dell'Europa sudorientale (K.-J. Wendt), riuscì a contenere la carenza di divise e le ripercussioni che il ricorso deflatorio al credito poteva avere sugli scambi coll'estero.
Mentre il ‛nuovo piano' di Schacht mirava alla ricostruzione dell'economia tedesca e non intendeva troncare definitivamente i collegamenti della Germania col mercato mondiale, si profilò un ben diverso orientamento. Dapprima in accordo con l'Ufficio per l'economia di guerra e per il riarmo, Göring, quale ispettore generale per l'economia petrolifera, e poi quale commissario per la materie prime e le divise, impose il programma di autarchia radicale propugnato dall'IG-Farben e questo nonostante che a parere di Schacht esso eccedesse le capacità dell'economia tedesca. In qualità di delegato per il piano quadriennale, Göring - soprattutto dopo le dimissioni date per protesta da Schacht (1937) sottrasse competenze fondamentali al Ministero dell'Economia per trasferirle alla burocrazia del piano quadriennale, legata a filo doppio colla IG-Farben. Contro l'opposizione dell'industria pesante egli creò gli Hermann-Göring-Werke (officine H. G.), che contribuirono a creare un considerevole eccesso di capacità produttiva nel settore siderurgico, e inserì in tal modo nel sistema dell'economia programmata un settore centralizzato statale in continua espansione che operava senza alcun riguardo per i criteri di economicità. A onta di tutto questo, Göring non raggiunse nemmeno lontanamente la meta prefissa di un'autarchia da economia di guerra. L'estrema tensione prodottasi nel mercato del lavoro, la penuria di materie prime determinata dalla carenza di divise e l'eccesso di capacità produttiva provocarono nel 1938 una preoccupante crisi economica, che fu superata solo grazie ai preparativi per la guerra imminente.
A causa delle programmazioni sbagliate, della sopravalutazione delle risorse nazionali e inoltre del contenimento imposto in misura insufficiente (per considerazioni di politica interna) all'industria dei beni di consumo, l'economia tedesca degli armamenti era nettamente inferiore a quella inglese già dal 1939. La strategia tedesca ne risultò costretta al Blitzkrieg (guerra-lampo); la prosecuzione della guerra fu condizionata, sul piano economico, dal saccheggio dei territori occupati, dallo sfruttamento delle riserve di materie prime confiscate come preda di guerra, dai rifornimenti di carburanti e derrate alimentari provenienti dall'Unione Sovietica. Dopo il fallimento del Blitzkrieg nel 1941-1942, Speer, ministro per gli armamenti e le munizioni, rimpiazzò la burocrazia del piano quadriennale, che tuttavia continuò a sussistere. Malgrado i bombardamenti alleati, egli riuscì ad aumentare fortemente la produzione di materiale bellico, ma non a rimuovere la decisiva strozzatura costituita dall'insicuro approvvigionamento di carburante. La distruzione degli impianti per l'idrogenazione del carbone portò nel 1944 allo sfacelo definitivo dell'armamento tedesco. L'aumento della produzione di materiale bellico, basato sull'impiego monodirezionale dell'economia, sull'esclusione dei canali burocratici nel processo decisionale e direttivo, e sulla sistematica improvvisazione, fu accompagnato dal metodico sfruttamento dei paesi occupati, dalle prestazioni coatte di lavoratori stranieri e prigionieri di guerra, e da una progressiva inflazione pubblica. In settori tecnologici decisivi per le sorti della guerra - e cioè le ricerche atomiche e l'estrazione dell'uranio, la costruzione di bombardieri pesanti e lo sviluppo della tecnica missilistica - le risorse tedesche erano fin da principio insufficienti rispetto a quelle delle forze armate anglosassoni
Se riguardo all'élite direttiva nazista e al corpo degli ufficiali, il regime provocò qualche limitato spostamento, esso sortì nel complesso effetti di conservazione sociale, in quanto non fu intaccata la tradizionale influenza economica e burocratica esercitata dalle élites della grande borghesia e dei grandi agrari. Se si vuol parlare d'una rivoluzione sociale prodotta dal nazismo, ci si può riferire soltanto alle conseguenze sociali della guerra (in particolare alle conseguenze dell'esodo forzato dai territori orientali), e all'accelerazione del declino a cui, nello sviluppo industriale, i ceti alto-borghesi vanno incontro a favore del nuovo ceto medio. Nella sfera economica la composizione del management rimase pressoché immutata, anche se é pur vero che, contrariamente alle interpretazioni marxiste-leniniste, l'economia poté salvaguardare una relativa integrità solo riconoscendo il ‟primato della politica" (T. W. Mason) e assoggettandosi al sistema del dirigismo economico statale, a cui si accompagnava il rafforzamento che la posizione aziendale dell'imprenditore capitalista riceveva dal Führerprinzip. Se si prescinde da alcuni gruppi che, come la IG-Farben e la Banca di Dresda, trassero un particolare profitto dall'arianizzazione e dalla spoliazione dei territori occupati, l'economia rimase passiva beneficiaria del sistema, e i tagli operati nella politica salariale furono ampiamente bilanciati da maggiori prelievi fiscali e dalla caduta del valore delle azioni. Tanto consistenti furono i profitti che, sulle prime, l'industria trasse dalla politica di guerra, quanto scarse furono le sue possibilità d'acquisire un'influenza determinante sul processo decisionale politico. Gli interessi industriali favorirono la politica d'espansione imperialistica, ma non furono in grado di pilotarla; la smisuratezza degli obiettivi imperialistici finì così col distruggere in misura crescente anche le basi della riproduzione capitalistica. Era il prezzo che industrie e banche dovevano pagare per il mantenimento formale del sistema economico capitalistico.
b) Politica culturale e religiosa
Il livellamento (Gleichschaltung) della vita culturale sotto il minuzioso controllo del Ministero per la Propaganda del Reich, la creazione della Reichskulturkammer (Camera di cultura del Reich) e dei corrispondenti apparati direttivi, le campagne contro la letteratura moderna e contro l'arte contemporanea qualificata come ‛degenerata', la promozione d'un neoclassicismo sentimentaloide e monumentale nell'architettura e nelle arti plastiche, il ripudio della musica moderna, gli ostacoli frapposti agli scambi culturali coll'estero e l'emigrazione coatta di numerosi intellettuali, artisti e letterati, produssero un impoverimento culturale di proporzioni colossali. La vessazione delle università, l'estromissione di docenti ebrei e democratici, lo spostamento di accento a favore delle scienze naturali, della tecnica e dello sport a scapito delle scienze umane, l'istituzione del numero chiuso (soggetto a manipolazioni politiche), l'incoraggiamento dato a pseudoscienze negli studi razziali, nel folclore e nella geografia antropica, l'impastoiamento della fisica atomica bollata come ‛ebraica' paralizzarono il progresso della scienza e della ricerca. L'ostilità nutrita dal regime per gli intellettuali conseguì il risultato di una considerevole e progressiva diminuzione numerica di professori e studenti universitari. Nel contempo l'organizzazione scolastica veniva quasi completamente trascurata, se si eccettuano le Nationalpolitische Erziehungsanstalten e le Adolf-Hitler-Schulen (concepite come scuole d'élite).
Raccogliendo le associazioni giovanili nel Deutsches Jungvolk e nella Hitlerjugend sotto la guida di B. von Schirach e ostacolando ampiamente l'assistenza sociale prestata alla gioventù da organizzazioni religiose, il regime cercò d'indottrinare ideologicamente la giovane generazione e di darle un addestramento premilitare; il Reichsarbeitsdienst (servizio di lavoro obbligatorio), diretto da K. Hierl, contribuì a un ulteriore allineamento ideologico, anche dopo che fu venuta meno la ragione per cui lo si era fondato, cioè la necessità di un intervento statale in materia di mobilitazione della forza lavoro. Per quanto Hitler facesse del tutto per evitare un conflitto aperto con le chiese, gli ostacoli frapposti in misura crescente al movimento giovanile cattolico provocarono tensioni sempre più acute. Ma poiché l'episcopato, dopo la stipulazione di un concordato insolitamente accondiscendente, esitava a mettersi apertamente contro il regime e poiché il cardinale Segretario di Stato Pacelli (poi papa Pio XII) guardava di buon occhio la funzione antibolscevica del Terzo Reich, nonostante l'enciclica Mit brennender Sorge (1937), le tensioni non esplosero mai in rottura formale. Sfruttando le aspirazioni a una chiesa nazionale coltivate dai Deutsche Christen (Cristiani tedeschi), Hilter cercò di creare una chiesa protestante del Reich fedele al regime; ma il suo tentativo fallì per la resistenza della Bekennende Kirche (Chiesa confessante) guidata dal pastore M. Niemöller. La protesta di eminenti ecclesiastici luterani costrinse il regime a sospendere il programma di eutanasia già avviato, programma poi ripreso, in rigoroso segreto e solo parzialmente, durante la guerra. Nondimeno i rapporti fra il regime e le chiese, che evitarono assolutamente di proferir verbo sulla persecuzione degli Ebrei e dei testimoni di Geova, furono caratterizzati da uno stato di sospensione, giacché Hitler, in questo contro la tendenza di Bormann, vietò azioni direttamente antiecclesiastiche prima che avesse fine la guerra; il che non comportava però l'interruzione delle agitazioni anticristiane, condotte soprattutto dalle SS. A onta delle continue diffamazioni e vessazioni poliziesche, la maggioranza degli ecclesiastici delle due confessioni (di orientamento nazional-conservatore) tenne un comportamento esteriormente leale nei confronti del regime; solo singoli elementi presero parte attiva al movimento di resistenza del 20 luglio 1944. In politica estera l'atteggiamento conciliante del Vaticano fu di valido sostegno al regime, soprattutto nella fase di conquista del potere.
c) Politica ebraica
L'estromissione degli Ebrei dalla vita pubblica e, dopo le dimissioni di Schacht, anche dalle attività economiche, fu perseguita dapprima con azioni ‛selvagge' e poi sistematicamente per via legislativa, con l'intento di segregare completamente la minoranza ebraica dalla maggioranza della popolazione tedesca. Un tale risultato fu facilitato dal fatto che, grazie all'intervento della burocrazia ministeriale, dall'applicazione delle leggi di Norimberga (settembre 1935) rimasero esclusi i mezzo-Ebrei e gli Ebrei che avevano contratto matrimoni misti, altrimenti sarebbe inspiegabile la mancanza di partecipazione della stragrande maggioranza della popolazione al destino dei propri concittadini ebrei. La fusione forzata di tutti gli enti associativi ebraici consentì alla Jüdische Auswanderungszentrale (Centrale per l'emigrazione ebraica) creata da K. A. Eichmann e al Reichssicherheitshauptamt il pieno controllo di quella parte della popolazione ebraica che restava in Germania. Malgrado il lavoro d'assistenza svolto dallo Zentralverband der Juden in Deutschland (Unione Centrale degli Ebrei in Germania), gli Ebrei rimasti in patria caddero in uno stato di disagio sociale estremo, dal quale il regime si attendeva la loro degradazione a deliquenti. La guerra tolse le ultime remore derivanti da ragioni di politica estera; la creazione di ghetti, le deportazioni, l'espansione del sistema dei campi di concentramento, le Einsatzgruppen (gruppi d'azione) e il blocco della migrazione, spianarono la via verso la ‛soluzione finale' - portata avanti con la più rigorosa segretezza da Himmler, d'accordo con Göring e con l'appoggio senza riserve di Hitler - della quale furono vittime per lo meno cinque milioni e mezzo di Ebrei europei. Il compito di organizzare questa barbarie, che Himmler trasfigurava con ragioni pseudomorali, fu assolto con impeccabile perfezione tecnica dalle Einsatzgruppen e dai Totenkopfverbände (reparti ‛testa di morto') delle SS, spesso con l'acquiescenza della Werhmacht, che non si oppose al Kommissarbefehl (ordine riguardante i commissari politici sovietici), contrario al diritto internazionale, accettando l'illegale fucilazione o soppressione di prigionieri di guerra russi; lo sterminio di Ebrei e di Slavi, ai cadaveri dei quali si arrivò perfino a strappare le protesi dentarie in oro per assicurarle al ‛patrimonio nazionale', è senza confronto nella storia.
6. Politica estera nazista
a) Continuità o rottura
Fino a che punto la politica estera nazista sia stata la prosecuzione di tendenze imperialistiche dell'anteguerra e degli obiettivi nazionalistici degli anni venti (sia pure con espedienti tattici diversi: patto di non aggressione tedesco-polacco, accordo navale con l'Inghilterra, rinuncia al Sudtirolo), è un problema vivacemente dibattuto. Alla tesi d'una predominante continuità (K. Hildebrandt) si contrappone l'assunto di quanti sostengono che la politica estera di Hitler comporterebbe una rottura qualitativa con tutti i ‟criteri tradizionali" (F. Dickmann) e, sia per le finalità sia per i metodi propri, presenterebbe un carattere rivoluzionario (H.A. Jacobsen). Strettamente collegato al precedente è l'interrogativo se Hitler avesse fin dall'inizio un programma rigoroso e in sé coerente di politica estera (E. Jäckel). A quanti rispondono affermativamente, basandosi sulle iniziali prese di posizione in politica estera contenute in Mein Kampf e nello Zweites Buch, va ricordato il fattore d'incertezza che nei calcoli di Hitler rappresentò sempre l'Inghilterra, e va ribadito che gli obiettivi d'espansionismo globale non si possono affatto considerare come la realizzazione d'un programma che, ‟con una formidabile autominimizzazione" (H.-A. Jacobsen), Hitler avrebbe mimetizzato con l'obiettivo della revisione di Versailles durante tutta la fase d'aggressione dissimulata, cioè fino al 1937. In realtà il regime perseguì in politica estera più linee simultaneamente: quella tradizionale nazionalistica della revisione di Versailles; quella imperialistica prebellica di un'equiparazione all'Inghilterra tramite la fondazione d'un circoscritto impero coloniale; e l'espansione verso oriente, caldeggiata dal movimento pangermanista. Rispetto all'imperialismo classico emergono evidenti divergenze: la preferenza pel dominio continentale rispetto al dominio mondiale sui mari - che Hitler, in verità, non escludeva, ma lasciava semplicemente da parte, nello stesso modo tipico in cui Goebbels evitava l'uso propagandistico dell'espressione Grossdeutsches Weltreich (Reich universale della Grande Germania) e la peculiare motivazione in termini razziali della politica d'espansione verso oriente. La formula di ‟espansione senza oggetto" di J. Schumpeter coglie in modo calzante la natura dei piani di conquista nazisti, nei quali si evitava di fissare alcunché in termini definitivi. Nè occorreva circondare del minimo segreto gli intenti di un gruppo dirigente così stupefacentemente senza reticenze come quello nazista: le palesi divergenze circa i vari obiettivi di volta in volta perseguiti assolvevano la loro funzione ingannatrice assai meglio di qualsiasi disciplina o astuzia verbale. La concezione di un'espansione continentale, pervasa dall'idea del Lebensraum, corrispondeva alle caratteristiche preindustriali dei programmi nazisti. Tale concezione non fu ponderata sufficientemente nemmeno in fatto di politica agraria e, durante la seconda guerra mondiale, non si diede attuazione neppure approssimativamente al programma di insediamenti di colonie agricole; per tacere poi dell'illusione, coltivata da Himmler prescindendo completamente dai condizionamenti industriali, di creare una rete di villaggi-presidi (Werhdörfer) tedeschi nell'area russa. Quanto poco un tale programma fosse aderente alle realtà politiche, risulta dal fatto ch'esso poggiava sulla speranza, nutrita specialmente da Ribbentrop, di un'alleanza con l'Inghilterra: un'alleanza da infrangere non appena conquistata la base continentale, con la conseguente revoca della rinuncia alla condizione di potenza marittima. Mentre si abbozzavano piani così grandiosi che nel 1941, dopo la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti e in analogia con le concezioni giapponesi del ‛grande spazio', dovevano essere arricchiti del sogno d'una futura Germania potenza atlantica mondiale sostenuta da estesi possedimenti coloniali, la politica estera tedesca operava in pratica in base alla concreta situazione europea. Regolamento dei rapporti con Polonia e Inghilterra, voluto, più che per preparare una guerra contro l'Unione Sovietica, per ‛coprire' la vulnerabilità del riarmo tedesco; uscita dalla Società delle Nazioni, dapprima senza idee precise, ma poi, già nel 1935-1936, seguendo una linea concreta intesa a tirarne fuori anche l'Italia fascista, sulle prime tutt'altro che ben disposta verso la Germania; accantonamento del progetto, fallito nel 1933-1934, di un'annessione forzata dell'Austria: queste furono le tappe della prima fase revisionistica (tatticamente antitetica alla tradizione tedesco-nazionale), la quale si concluse con l'istituzione della coscrizione obbligatoria, la rimilitarizzazione della Renania e il ritorno della Saar alla Germania. Con il piano quadriennale e il patto anti Komintern (a cui l'Italia aderì solo nel 1937 e che, prevedendo un semplice impegno di neutralità in caso di conflitto coll'URSS, aveva una mera importanza propagandistica) e poi con l'intervento nella guerra civile spagnola (neanch'esso, al pari del patto anti Komintern, frutto della politica perseguita dal Ministero degli Esteri), s'imboccava consapevolmente la via dei preparativi bellici; tuttavia, ancora nel 1937 (si veda il verbale Hossbach) la guerra era prevista per un'epoca non anteriore al 1943-1946, a meno che un conflitto anglo-italiano o una crisi interna francese non consigliassero un intervento anticipato.
Coll'indebolirsi della Piccola Intesa la questione cecoslovacca veniva a trovarsi all'ordine del giorno dei problemi europei: di qui la speranza di Hitler, se si offriva l'occasione, di poter intervenire prima ancora di quanto avesse previsto. La crisi interna della Repubblica Cecoslovacca, acuita dalla Sudetendeutsche Freiheitsbewegung (Movimento per la libertà dei Tedeschi dei Sudeti) di K. Henlein, incoraggiava a pressioni più drastiche su Praga, tanto più che la politica estera di N. Chamberlain era improntata ad accondiscendenza verso la Germania e il riserbo inglese faceva apparire privo di rischi il Blitzkrieg preparato sin dalla fine del 1937. Il voltafaccia di Mussolini nella questione austriaca, inatteso per Hitler, indusse a modificare la successione degli interventi e consentì, dopo pesantissime pressioni diplomatiche su K. von Schuschnigg l'annessione (Anschluss) della Repubblica Austriaca. L'atteggiamento passivo delle potenze occidentali confermò Hitler nella decisione di risolvere militarmente la questione cecoslovacca; sennonché la volontà di Mussolini di giungere a un accomodamento e la politica inglese di appeasement nella Conferenza di Monaco dell'autunno 1938 (oltremodo accondiscendente verso le pretese tedesche) vennero a intralciare per il momento il già progettato smembramento manu militari della Repubblica Cecoslovacca. Questa, malgrado l'alleanza con la Francia e l'appoggio diplomatico dell'URSS, fu costretta alla cessione dei Sudeti e praticamente consegnata alla sfera d'influenza tedesca; e ciò avveniva ancor prima che, istituendo nel marzo 1939 il protettorato di Boemia e Moravia e lo Stato satellite slovacco, Hitler disattendesse le garanzie tuttavia vigenti: atto con il quale veniva a cadere nella sua politica estera la limitazione consistente nel rispettare l'integrità degli Stati nazionali. Confermato da Ribbentrop nell'illusione che la Gran Bretagna avrebbe alla fine indietreggiato di fronte alla guerra, e dopo che, con una svolta tattica sorprendente, gli era riuscito di sventare, per mezzo del patto di non aggressione russo-tedesco (agosto 1939), le trattative alleate con la Russia (che fallirono soprattutto per la questione degli Stati baltici), Hitler decise il Blitzkrieg contro la Polonia. L'apertura dell'Europa sud-orientale agli interessi sovietici, la cessione della Polonia orientale all'URSS costituirono un pagamento anticipato in cui era implicito il presupposto di una successiva revisione.
Il vittorioso Blitzkrieg contro la Polonia, contro i paesi del Benelux (di cui si violava la neutralità) e contro la Francia, e, in più, la campagna di Norvegia ingannarono Hitler sulla forza di resistenza dei suoi avversari, sebbene, ancor prima dell'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'Inghilterra disponesse in misura pressoché illimitata degli aiuti americani sia economici che militari. Il tentativo di acquisire nel governo di Vichy un alleato contro l'Inghilterra (che, per bocca del nuovo premier Churchill, rifiutò la sedicente ‛generosa offerta di pace' di Hitler) fallì, così come fallirono i sondaggi intesi a coinvolgere Franco nell'alleanza dell'Asse, mentre l'Italia, non appena entrata in guerra nel 1940, già si rivelava più che altro un fattore di aggravio militare ed economico. Coinvolto a forza da Mussolini nelle campagne di Iugoslavia e di Grecia (strategicamente discutibili e dispendiosissime in perdite), e quindi costretto ad analogo intervento nell'Africa del Nord, il regime disperse le sue forze militari, e ciò dopo ch'era già fallita, per l'inferiorità della Luftwaffe e della marina, l'operazione Seelöwe (Leone marino), cioè il tentativo di sbarco in Inghilterra. Parimenti, la guerra sottomarina non rappresentò in nessun momento, neppure quando fu messo da parte ogni riguardo diplomatico, una seria minaccia per il potenziale delle forze anglosassoni. Per le forze dell'Asse, la guerra era già perduta strategicamente con la battaglia d'Inghilterra; la svolta fu segnata dall'operazione Barbarossa, cioè l'attacco a sorpresa scatenato contro l'URSS il 22 giugno 1941. Infatti, nonostante gli strepitosi successi iniziali, l'insuccesso alle porte di Mosca (fine del 1941) significò il fallimento del Blitzkrieg che, malgrado il sistematico sfruttamento dei territori occupati, rappresentava per l'economia di guerra tedesca (per la disponibilità di materie prime e la capacità produttiva) l'unica risorsa possibile. Nondimeno nuove e gigantesche conquiste territoriali, spinte fino al Caucaso, dissimularono la sconfitta strategica, finché nel 1943 la battaglia di Stalingrado non segnò agli occhi di tutti una svolta decisiva nella campagna di Russia. Gli sbarchi alleati, prima nell'Africa settentrionale, poi in Sicilia e nell'Italia meridionale, il crollo del regime fascista in Italia e infine lo sbarco, decisivo per le sorti della guerra, in Normandia (1944) incalzarono il Reich, costringendolo su tutti i fronti a una disastrosa guerra difensiva, tanto più che gli Stati Uniti attribuivano maggiore importanza militare all'Europa rispetto all'Asia.
L'eccessiva incessante tensione a cui furono sottoposte le forze economiche e militari tedesche, l'esasperazione degli obiettivi espansionistici, l'incapacità di raggiungere un'intesa politicamente solida coi paesi assoggettati, la smoderata e criminale politica di oppressione svolta nell'Oriente europeo, che alienò ai Tedeschi le iniziali simpatie antisovietiche dei popoli slavi, l'intrusione negli affari interni anche di Stati alleati: tutto questo cospirò a far perdere la guerra sul piano diplomatico, ancor prima che si profilasse inevitabile la disfatta militare. La Carta atlantica e la richiesta di resa incondizionata furono le pietre miliari d'una guerra condotta non contro le potenze mondiali, ma contro il mondo intero; una guerra cui non poteva metter fine il sistema nazista stesso - incapace com'era di ogni autolimitazione - anche se non mancarono sondaggi per una pace separata con Stalin e illusioni analoghe nei confronti degli Alleati. La capitolazione dell'8 maggio 1945 non solo lasciava all'Europa centrale un'eredità di ruderi e macerie, ma sanciva altresì la distruzione d'ogni capacità d'azione politica da parte di un Reich, territorialmente assottigliato. Sotto la pressione delle necessità militari, l'atavica politica hitleriana, politica dello spazio vitale, ne aveva partorita un'altra, quella imperialistica del ‛grande spazio' (Grossraumpolitik), che le SS si sforzavano di realizzare sognando il Grossgermanisches Reich (Impero della Grande Germania), governato da una élite di ‛dominatori' (Herren) superiori per razza, e liquidando così il progetto di un'egemonia nazionale. Ma erano chimere, come lo erano le fantasie d'uno Stato mondiale nazista, da costituirsi dopo il vittorioso confronto finale con gli Stati Uniti, votati allo sfacelo razziale e al decadimento della civiltà. Di tutto questo non restava che miseria, dolore, la morte di 35-45 milioni di uomini, e in più un risultato finale diametralmente opposto a quello al quale, in tutte le sue varianti, aveva mirato la politica estera nazista.
b) Il crollo del Terzo Reich
Furono totalmente privi di reale importanza politica gli avvenimenti che si susseguirono nelle ultime settimane di vita del regime: le lotte per la successione; la destituzione di Himmler e Göring; il passaggio della presidenza del Reich al grandammiraglio Dönitz (uomo fedele al regime, ma di scarso rilievo politico) e del cancellierato a Goebbels che si sottrasse col suicidio all'insensatezza della situazione, mentre Dònitz aveva formato un governo, numericamente ridotto quanto effimero, nello Schleswig-Holstein. Questi eventi rispecchiano però lo stadio di disgregazione interna a cui era giunto lo Stato nazista, che era crollato col tramonto di Hitler, anche se più tardi si è voluto far valere una continuità giuridica fra i due Stati tedeschi e il Terzo Reich. Il fallimento dell'attentato e del rovesciamento che si tentò di compiere il 20 luglio 1944 consentì la dissennata prosecuzione d'una guerra che proprio negli ultimi mesi fu causa di perdite immani. La politica della ‛terra bruciata', di cui Hitler ordinò l'estensione anche in Germania e che Speer riuscì a sventare, il testamento di Hitler, con la sua condanna della nazione tedesca giudicata indegna di sopravvivere e l'obbligo imposto ai sopravvissuti di proseguire l'annientamento degli Ebrei: tutto questo illumina la intrinseca nequizia d'un regime banditesco che, oltre ad avere sconquassato le strutture sociali e politiche preesistenti, non aveva prodotto altro che corruzione, mediocrità piccolo-borghese e crimini immensi, eroicizzati da una morale menzognera. Occorsero i processi di Norimberga contro i criminali di guerra per svelare al popolo tedesco nelle loro vere proporzioni lo sterminio degli Ebrei e il terrore instaurato nei paesi europei occupati, come anche, a un tempo, l'obiettivà insufficienza politica e morale delle élites dirigenti naziste e le fatali conseguenze del culto plebiscitario di Hitler. Date le condizioni descritte all'inizio, occorreva un certo distanziamento nel tempo per individuare, dietro le manipolazioni totalitarie e la predisposizione tedesca allo Stato autoritario, le cause dell'ascesa del nazismo e del suo affermarsi al potere. Ma già nel 1945, comunque, era sbarrato il passo a ogni nuova leggenda di pugnalate alle spalle e, commisurato al numero degli incondizionati sostenitori di Hitler nei primi anni del regime, fu ridottissimo il gruppo degli eterni nostalgici e dei neofascisti. Il Terzo Reich si era privato da se stesso della possibilità d'un sia pur relativo rispetto da parte degli storici, ben lungi come era stato dal possedere la capacità sociorivoluzionaria (se si trascurano le negazioni velleitarie) di eliminare le storiche passività del parlamentarismo democratico e le sperequazioni sociali che ne sono alla base; d'altro canto la catastrofe tedesca ed europea provocata dal nazismo ha stimolato il formarsi di un certo consenso politico di fondo che ha consentito la ricostruzione di una stabile collettività democratica nella Repubblica Federale.
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