NECESSITÀ
Concetto filosofico, di tradizione storica assai importante e complessa. Nel pensiero greco corrisponde al termine di ἀνάγκη, adoperato inizialmente nella letteratura per designare il destino che governa il mondo e al quale anche gli dei debbono sottostare. La filosofia presocratica cerca d'interpretare questo concetto (anche se non sempre espresso con tale termine) in forma scientifica, considerando tale necessità come legge razionale, costituente l'universo: e già Anassimandro la concepisce nella forma dell'eterno ciclo di tutte le cose tra i due poli dell'indeterminatezza e della determinazione, mentre Eraclito, dando il nome di logos, cioè di "formula razionale", alla legge eternamente costante che determina il processo dell'universo, trasmette allo stoicismo, continuatore della sua concezione cosmica, l'idea classica della necessità (εἱμαρμένη o πεπρωμένη) razionale e provvidente alla quale l'uomo si deve adeguare sia perché è il meglio che possa fare, sia perché non potrebbe fare altrimenti. Ma il più tipico creatore del concetto filosofico della necessità è Parmenide, che nella mitica figura dell'Ananke o della Dike ("Giustizia", nel senso di suprema legge cosmica) reggitrice dell'universo ipostatizza la sua scoperta della necessità logica onde la pura asserzione dell'essere esclude ogni asserzione di non essere. E dalla contrapposizione parmenidea della realtà vera e necessaria dell'ente alla realtà "secondo opinione" del mondo empirico deriva l'idea che la necessità sia un attributo costitutivo della realtà degna di questo nome, ciò che veramente è non potendo non essere: nel che è il primo motivo di quella rigorosa negazione del concetto del "possibile" (il quale, come realtà che potendo essere non è, è esattamente antitetico al "necessario", che è non potendo non essere) a cui più tardi giunge, con Diodoro Crono, la scuola megarica, continuatrice dell'eleatismo parmenideo e zenoniano. Opposto all'assoluto razionalismo di questa identificazione della realtà davvero esistente con quella richiesta dalla necessità logica è invece il materialismo democriteo, che fa dipendere la necessità solo dal moto meccanico e causale degli atomi. Sua logica conseguenza è quindi la limitazione che al regno di tale necessità meccanica arreca, con la sua idea dell'eccezione casuale nel contesto delle cause, Epicuro, seguace di Democrito nell'esclusione di ogni necessità di carattere razionale e pure timoroso della distruzione di ogni umana libertà, che sarebbe stata egualmente provocata dall'assoluto impero della necessità meccanica del moto atomico.
La sintesi di questi due concetti, razionale-logico e causale-meccanico, della necessità, s'incontra in Platone, che nel Timeo restringe il dominio dell'ἀνάγκη all'accadere empirico delle cose, costretto dalla necessità materiale della loro natura, ma insieme considera il divenire universale come risultante dal confluire di quella necessità con la necessità razionale e ideale dei principî intelligibili. La loro analisi e distinzione è invece tipicamente operata da Aristotele, che separando in ogni campo la sfera della logica da quella della realtà esistente riporta anzitutto alla prima anche il concetto di necessità, considerandolo pertinente, in modo precipuo, al campo della deduzione logica e sillogistica. Necessario (ἀναγκαῖον) è, in questo senso, ciò che rigorosamente dipende dalle sue premesse logiche, o, in altri termini, ciò che è dimostrato dall'apodissi: nel che è la prima origine di quella coincidenza fra i termini di "necessario" e "apodittico" e di "necessità" e "apoditticità", che poi serba tanta importanza, per es., nel pensiero kantiano. Ma d'altra parte, distinguendo premesse concernenti verità necessarie da altre concernenti soltanto verità di fatto o verità possibili, e costruendo così, accanto alla sillogistica delle premesse semplici, la sillogistica modale delle premesse necessarie e di quelle possibili, Aristotele mostra di ammettere una necessità oggettiva, fondata sull'immutabilità sostanziale dell'eterno e distinta dalla necessità puramente ideale dell'apodissi, che è infatti presente in ogni aspetto della sillogistica.
Nel pensiero cristiano e medievale i due concetti, logico ed esistenziale, della necessità tornano a fondersi in virtù delle esigenze poste dal problema teologico della natura di Dio. Coincidendo in essa essenza ed esistenza, razionalità e realtà, la necessità intrinseca alla sua assoluta perfezione ideale, che non può non essere quella che è, s'identifica con l'immutabilità del suo essere eterno, sollevato al di sopra di ogni divenire e non condizionato da altro all'infuori di sé medesimo. Necessario in tutta la sua realtà intrinseca, Dio però, secondo la filosofia cristiana, è libero per rapporto alla sua attività esteriore. E in conseguenza di tale libertà dell'atto creatore risulta la molteplice contingenza del creato, la mutabilità, la caducità, la relativa imperfezione delle cose. Non che manchino le difficoltà, come dimostra il lungo travaglio della teologia sul problema della grazia, per ciò che riguarda la libertà dell'uomo, e la dottrina del volontarismo, rappresentata principalmente da Duns Scoto, la quale per salvare la stessa libertà e onnipotenza divina dal sospetto del determinismo della razionalità assoluta di Dio rende indipendente la volontà dalla ragione. Ma la dottrina prevalente rimane nei suddetti termini, che distingue l'interno e l'esterno della divina natura, e quindi Dio e il mondo. Lo Spinoza, al contrario, mette sullo stesso piede l'assoluta necessità razionale di Dio e della sua manifestazione nel mondo, in cui nulla è perciò contingente, ma considera tale necessità come coincidente con la libertà, concependo quest'ultima come equivalente alla mancanza di ogni condizione e influenza esterna.
Il pensiero moderno, per ciò che concerne la concezione della necessità si può dire inaugurato essenzialmente dal Leibniz. Questi torna a distinguere, da un lato, la necessità puramente razionale considerandola propria delle necessarie "verità di ragione" nella loro differenza dalle contingenti verità di fatto. E accanto a questa pone la necessità, di assai diversa natura, che deve caso per caso spiegare l'accadere delle cose, e che si esprime nel "principio di ragion sufficiente". Questa necessità si presenta nel mondo come "necessità fisica" ma risale in ultima analisi a una "necessità morale" e cioè all'esigenza del bene seguita dalla volontà divina nell'attuazione del piano cosmico prescelto come l'ottimo fra tutti quelli possibili. Per quanto permanga anche qui il presupposto di una certa necessitazione di Dio rispetto al mondo ottimo, la distinzione leibniziana della necessità puramente razionale da quella intrinseca al volere apre la via alla formulazione moderna del problema dell'accordo di necessità e libertà. Di fronte all'astratta necessità spinoziana escludente ogni libero volere, e a un'astratta libertà, che come libertas indifferentiae non si potrebbe decidere ad alcuna concreta violazione, si annuncia qui infatti il concetto, poi ampiamente sviluppato da tutto l'idealismo moderno, di un elemento di necessità intrinseca alla libertà medesima come presupposto al suo effettivo volere e agire.
Ma i termini moderni del problema della necessità sono più che da ogni altro elaborati dal Kant, che pone così i fondamenti per ogni posteriore sviluppo idealistico. Da un lato, con la sua concezione del trascendentale e dell'apriori come condizione imprescindibile di ogni esperienza, egli vuole rendere ragione del vecchio concetto della necessità razionale, stabilendo il carattere universale e "necessario" di ogni verità speculativa e mostrando come tale necessità intrinseca sia l'unico criterio di verità che possa riconoscere in sé stesso il pensiero filosofico, certo di sé solo se consapevole di non potersi altrimenti conformare. D'altro lato, considerando la causalità come categoria costitutivamente imposta dal pensiero alla natura, determina il carattere di "necessità causale" - e perciò ben distinta dalla precedente - delle leggi naturalistiche, ed esclude così tanto le negazioni scettiche (quale, per es., quella del Hume) di tale necessità quanto le estensioni di essa (operate, per es., più tardi dal positivismo e materialismo) al regno non fenomenico della libertà morale.
Infine, mentre contrappone questo stesso regno noumenico della libertà a quello fenomenico della necessità naturale, mostra come tale libertà sia a sua volta determinata da una necessità diversa e superiore, cioè dalla necessità della legge morale. Mentre la necessità della legge naturale in tanto ha valore in quanto non è dato non obbedirle, la necessità della legge morale ha significato solo in quanto si deve obbedirle pur essendo possibile disobbedirle. Così, distinguendo e giustificando nei loro diversi campi le necessità della ragione filosofica, della causalità naturale e della legge morale, il Kant chiarisce gli elementi fondamentali di ogni posteriore concezione della necessità.
Bibl.: Manca un'adeguata trattazione complessiva circa la storia del concetto filosofico di necessità. Per una serie d'indicazioni particolari, v. R. Eisler, Wörterb. d. philosoph. Begr., II, 4ª ed., Berlino 1929, pp. 259-71.
Lo stato di necessità.
Lo stato di necessità è l'espressione tecnica di un concetto giuridico generale, usata più specialmente nel campo del diritto pubblico, interno e internazionale. Il concetto giuridico è questo: in certi casi e date determinate circostanze obiettive, alcuni atti, considerati, in linea di principio, illeciti dall'ordinamento giuridico non vengono più ritenuti tali. Il complesso di quelle circostanze obiettive, le quali, per certi casi e alla presenza di determinati atti, creano condizioni peculiari tali da eliminare o escludere l'illecito giuridico, costituisce ciò che nel campo privatistico (salvo un'ulteriore differenziazione) viene detto forza maggiore e nel campo pubblicistico stato di necessità.
L'evento determinante la forza maggiore da una parte e l'evento creante uno stato di necessità dall'altra, hanno il medesimo carattere, cioè costituiscono un evento che in sé non può essere impedito dall'uomo; ma i due concetti differiscono quando si voglia procedere oltre nell'esame della loro struttura. La forza maggiore, infatti, opera direttamente sul colpito, costringendolo a un contegno che reca danni ai terzi, senza scelta di potere fare altrimenti; mentre per lo stato di necessità il danno al terzo non è fatalmente necessario, potendo essere evitato se il colpito dall'evento rinuncia alla propria salvezza o, più generalmente, accetta per sé solo le conseguenze del caso fortuito. Volendo schematizzare, si può dire che la forza maggiore e lo stato di necessità sono due aspetti di un unico principio, per il quale l'ordinamento giuridico, dato il concorso di circostanze e condizioni obiettivamente certe e obiettivamente operanti, riconosce la non imputabilità dell'agente, esonerandolo da qualsiasi obbligo a risarcimento di danni e, in genere, da ogni responsabilità.
Esaminando il concetto di stato di necessità nel diritto penale, potremo adeguatamente considerarne pure il fondamento. Nella dottrina penalistica si agitano, maggiormente che altrove, i problemi della giustificazione razionale della liceità dell'atto necessitato. Il diritto romano considerava la questione soprattutto sotto il profilo della collisione dei diritti venuti a conflitto nel quale il meno importante doveva cedere. Tale criterio, alquanto semplicistico, si rivelava malagevole nell'applicazione, quando i diritti a conflitto non erano equivalenti (v. specialmente: Dig, IX, 2, ad legem Aquiliam, 29, 3). Nel diritto canonico è ammesso lo stato di necessità: Necessitas, imo et grave incommodum, plerumque delictum, si agatur de legibus mere ecclesiasticis, penitus tollunt (can. 2205, 52), criterio idoneo a giustificare anche azioni in opposizione a prescrizioni rituali (il digiuno in caso di malattia, ecc.). Anticamente proprio per ciò che concerneva i rapporti giuridici, distinguendo sottilmente tra magna e modica necessitas, i canonisti applicavano il principio necessitas legem non habet più restrittivamente, senza trovare l'accordo nel fissarne il principio informatore. Anche tra i moderni giuristi sono state riprese, in forma diversa, tali teorie, adducendosi motivi varî per il fondamento dell'atto necessitato, ritenendosi da alcuni che esso, per quanto non punibile, rimanga in sé stesso ingiusto, e da altri, invece, che esso sia senz'altro giusto. Si riscontra in questa materia l'influenza della dottrina hegeliana, per la quale si conclude appunto che l'azione necessitata è intrinsecamente giusta. Ma, oltre che sul fondamento, sorgono naturalmente molte discussioni sulle condizioni e sui limiti di esercizio di tale criterio. A quali beni giuridici va accordato il diritto della necessità? Deve essere respinto qualsiasi elenco casistico e formulato invece un principio pressoché generale. Diremo col von Buri (in Rivista penale, XIII, p. 443) che un'azione compiuta per la salvezza di un bene giuridico importante non è ammissibile quando la minacciata perdita sia assolutamente sproporzionata alla lesione effettivamente cagionata.
Rispetto al vecchio, il nuovo codice penale italiano del 1930, all'art. 54, introduce alcune innovazioni per ciò che riguarda la qualità dei beni difendibili, il requisito della violenza e dell'attualità del pericolo. La prima innovazione è in armonia con l'odierna tendenza ad ammettere la difesa di ogni diritto. È stato soppresso il requisito dell'imminenza del pericolo, perché il contenuto di esso è già negli altri due requisiti dell'attualità e dell'inevitabilità.
Nel diritto pubblico interno, lo stato, in determinate situazioni politiche, ammette la legittimità dello stato di necessità per la sua attività stessa. Come è noto, il legislatore prevede i fatti e li disciplina in un dato modo; ma la legge, appunto perché è norma di carattere generale, considera il quod plerumque accidit e si muove nella sfera della media e della normalità. Oltre i limiti di tale zona, v'è l'imprevisto, che può spingere il legislatore a limitare le libertà individuali, verificandosi lo stato di necessità. In base a tale criterio, gli stati ricorrono a disposizioni eccezionali, p. es., in caso di rivolte. Le ordinarie leggi di pubblica sicurezza si rivelano in casi simili del tutto inadeguate e insufficienti e si fa luogo a nuove disposizioni, che hanno il carattere della transitorietà così come gli eventi che le hanno originate, sono stati imprevisti e sono destinati a scomparire (v. guerra, stato di, XVIII, p. 57; pericolo pubblico, stato di; stato d'assedio.
Si può affermare che lo stesso principio esista in diritto internazionale? L'opinione negativa pare maggiormente accettabile. Giustamente il Fedozzi ha osservato (P. Fedozzi-S. Romano, Trattato di dir. internazionale, I, Fedozzi, Introduz. e Parte generale, p. 543) che, astrazione fatta del caso in cui gli stati stessi escludono convenzionalmente il dovere dell'osservanza di date norme per circostanze gravi ed eccezionali e del caso del servizio internazionale delle casse di risparmio o delle casse di assicurazione sociale, si tratta pure sempre di accertare l'esistenza di una consuetudine che porti precisamente all'assunzione del criterio dell'irresponsabilità degli stati per determinati atti illeciti da essi compiuti. Per rimanere nel campo del diritto positivo, senza inutili e dannose considerazioni d'ordine morale o politico, non è stata finora dimostrata la volontà degli stati di riconoscere l'esistenza di un diritto di necessità.
Bibl.: F. Carrara, Programma del corso di dir. crim., Lucca 1861, parte generale, par. 289; S. Longhi, Repressione e prevenzione nel dir. pen. attuale, Milano 1911, p. 130 segg.; U. Borsi, Nozione di guerra e stato di necessità nel diritto internaz., in Riv. ital. sc., giur., 1917-18, pp. 89 segg., 171 segg.; Adinolfi, La teorica dello stato di necessità nel dir. romano, in Diritto e Giur., VII, n. 2; E. Bonaudi, Dei limiti della libertà individuale, Perugia-Venezia 1930, particolarmente p. 38 segg.; G. Maggiore, Principi di dir. pen., Bologna 1932, p. 208; U. Pergola, Stato di necessità nella storia e nella legislazione comparata, in Riv. penale, LXX, pp. 129 segg., 405 segg.