Abstract
Nella tradizione del diritto civile l’espressione ‘negozio giuridico’ è impiegata per indicare gli atti di autonomia privata: quegli atti di disposizione mediante i quali i privati costituiscono diritti o ne dispongono. Essi possono anche definirsi atti innovativi, impegnativi o conformativi della realtà giuridica. La disciplina di tali atti si ricava, in mancanza di norme specifiche, da quella del contratto. L’omogeneità funzionale tra atto impegnativo e contratto è espressa dal limite della ‘compatibilità’ previsto dall’art. 1324 c.c.
L’autonomia privata consiste nel dettare regole con cui i privati disciplinano i propri interessi: creano rapporti tra loro, dispongono di diritti, assumono obbligazioni.
L’atto di autonomia privata – tradizionalmente definito negozio giuridico - innova la realtà giuridica: esso costituisce il titolo dell’assetto di interessi che produce, è integrato dal diritto oggettivo ed è interpretato e valutato ai fini della qualificazione, della validità e dell’efficacia.
Per l’ordinamento giuridico l’atto di autonomia privata è un fatto. Esso costituisce oggetto di valutazione da parte delle norme: produce gli effetti che la legge gli riconduce. La legge ne integra gli effetti e preclude quelli in contrasto con norme inderogabili.
Le manifestazioni dell’autonomia privata sono assai articolate, e spaziano dall’atto di disposizione del singolo sino ai fenomeni di contrattazione collettiva. Perciò, come vedremo, una costruzione unitaria dell’atto di autonomia privata non rispecchia la realtà.
La Pandettistica tedesca offrì una sistemazione concettualizzante ma moderna di contenuti romanistici. Questo studio, al quale la dottrina italiana è tributaria, sfociò nel codice civile tedesco -promulgato nel 1900- che ebbe una forte funzione innovativa. Il primo libro del BGB, contenente la parte generale, dedica all’atto di autonomia privata una trattazione tendenzialmente completa attraverso la enunciazione di una figura comprensiva: il negozio giuridico (Rechtsgeschaeft).
Questa esperienza è stata ampiamente ripresa dalla dottrina italiana attraverso la riproposizione della teoria del negozio giuridico. Di questo si rintracciano numerose definizioni, tra le quali è preferibile quella che lo individua nella manifestazione volontaria di un intento, dove il termine “intento” è il dato caratterizzante. Deve trattarsi di un intento rilevante ai fini della produzione di effetti giuridici: requisiti o “elementi essenziali del negozio”, tradizionalmente, sono la volontà, la dichiarazione, l’oggetto e la causa.
Il negozio giuridico, per il diritto italiano, a differenza di quanto è accaduto in Germania, non è una categoria normativa, intendendo con l’espressione “categoria” una figura caratterizzata da struttura e disciplina costanti, e con “normativa” il fatto che la legge la disciplina. Si può dire che nel sistema italiano sono categorie normative il contratto, il testamento, il matrimonio e così via, non il negozio giuridico.
Tuttavia l’espressione, diversamente da quanto si è ritenuto, non è priva di riscontri normativi: la si rintraccia, ad es., nell’art. 18 della l. 20.3.1985, n. 222, in tema di «invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici» (un elenco di norme che lo contemplano è in Sacco, R., Negozio giuridico, in Dig Civ., Agg., I, Torino, 2014).
I giuristi incaricati di elaborare il testo del nostro codice civile si posero l’interrogativo se regolare questa figura generale, sul modello del BGB, oppure optare per la regolamentazione di singole figure di atti di autonomia privata. La promulgazione di un nuovo codice è anche espressione di un intento politico: quindi, nell’approntare il codice si pensò di fare una parte generale destinata ai principi generali dell’ordinamento fascista, nella quale regolare anche il negozio giuridico. Ma, perspicuamente, la commissione di giuristi incaricata di mettere mano all’elaborazione del testo segnalò la inopportunità di introdurre principi declamatori, di carattere generalissimo. Cadde, così, l’idea di una parte generale in cui inserire il negozio giuridico.
Ciononostante, la dottrina precedente ed immediatamente successiva al codice ha poggiato, in gran parte, le sue ricostruzioni sul modello tedesco, ed ha rielaborato, negli anni ‘40 e ‘50, la categoria del negozio essenzialmente nei noti contributi di Betti, Cariota-Ferrara, Stolfi e Scognamiglio; tuttora è frequente rintracciare l’espressione in dottrina e giurisprudenza.
Il senso di queste opere è nella ricerca di costruire regole comuni a tutti gli atti di autonomia privata. Occorre, tuttavia, aver presente che l’uso dell’espressione non è, in sé, indice rivelatore di un approccio tendente alla generalizzazione. La stessa opera di V. Scialoja – che è un corso di lezioni risalente alla fine dell’800 e riedito sino agli anni ‘30 del secolo scorso – era intitolata ai ‘negozi giuridici’: l’impiego del plurale rivela un approccio tendenzialmente frammentario, che si risolve nella trattazione di varie figure accomunate dalla funzione impegnativa, non del negozio come categoria unitaria. Segnatamente a partire dagli anni ‘50 la dottrina ha incentrato la sua attenzione sulle singole espressioni dell’autonomia privata, cioè sul contratto, sul testamento, sul matrimonio, e negli anni ‘70, esaltando premesse ideologiche, si è cercato di enunciare anche la crisi –tra le tante- della categoria concettuale del negozio giuridico, scorgendovi, sostanzialmente, lo strumento precipuo di una giuridicità di stampo borghese, da sottoporre a revisione critica. Privata delle ideologie e riferita al dato normativo, una visione critica circa l’unità concettuale del negozio aveva un sicuro fondamento nella percezionedel fatto che le variegate esplicazioni dell’autonomia privata si sottraggono ad una univoca gabbia catalogante.È possibile collocare l’approdo finale di questo itinerario alla fine degli anni ‘80, quando, sul negozio giuridico, si sono addensate visioni nostalgiche e apocalittiche: le prime volte a segnalare la perdurante attualità della figura considerata un modello, se non altro, di apprendimento; le seconde, invece, sostenitrici dell’esigenza di incentrare l’attenzione sulle singole figure normativamente contemplate. Ma il dibattito sul punto non merita soverchia attenzione.
Per un corretto atteggiamento verso la teoria del negozio giuridico è opportuno un approccio induttivo: dunque, non dalla teoria generale per ricercarne le ricadute sulle singole esplicazioni degli atti di autonomia privata, ma dal regime dei singoli atti, che ne segna le caratteristiche, e, in particolare – come accade molto spesso – dallo studio della patologia degli stessi: la disciplina della patologia appresta, infatti, l’indice rivelatore della struttura e della funzione dell’atto a cui si riferisce.
Tuttavia la disciplina del contratto possiede una attitudine generalizzante e, dunque, può essere presa a modello di una figura generale di atto di autonomia privata. In particolare viene in rilievo l’art. 1324 c.c., secondo cui «salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale». La norma imprime un carattere generale al regime del contratto, ma avverte l’esigenza di valutare di volta in volta la natura dell’atto rispetto al quale si intende farla operare.
L’atto può apparire una categoria normativa, poiché esso è menzionato dal codice civile, il quale, però, non fornisce lumi sulle sue caratteristiche. Certamente l’atto – è scontato – è un fatto umano, ma non sempre esprime un intento impegnativo. Talvolta, inoltre, il codice fa menzione dei patti – in molti casi fuori dalla disciplina del contratto, ma alludendo sostanzialmente a figure che sono altrettanti contratti, come nel caso dei patti successori (art. 458 c.c.) o del patto di famiglia (art. 768 bis c.c.) – o delle convenzioni – anche queste, se hanno carattere patrimoniale, sono contratti, come nel caso delle convenzioni matrimoniali (art. 162 e ss. c.c.).
L’art. 1324 c.c., pur esprimendo la vocazione generale del regime del contratto, ne avverte i limiti. Il primo è dettato all’inizio: «salvo diverse disposizioni di legge», cioè salvo che l’atto abbia una propria disciplina.
Molti atti unilaterali tra vivi aventi carattere patrimoniale hanno una disciplina specifica: ciò si spiega per la funzione a cui ciascuno di essi assolve. Talvolta si tratta di una funzione solutoria, cioè di estinzione di un rapporto obbligatorio mediante l’adempimento, e perciò l’atto non possiede alcuna attitudine innovativa, ma solo quella estintiva (cfr., infatti, l’art. 1191 c.c.). In altri casi, sebbene abbia una funzione dispositiva, l’atto non rispecchia i caratteri del contratto (cfr., tra le varie ipotesi, l’art. 1349 c.c.).
Hanno una disciplina specifica, ad esempio, tutte le deliberazioni, che sono atti collettivi assunti dalla maggioranza dei componenti di un determinato collegio, in una collettività organizzata. Esse sono la sommatoria di tanti atti unilaterali, i voti, ciascuno dei quali ha un’efficacia sospensivamente condizionata alla circostanza che la maggioranza delle dichiarazioni di voto abbia lo stesso contenuto. Le deliberazioni hanno una disciplina specifica in tema di associazioni(artt. 21 e 23 c.c.), comunione (artt. 1105 e 1109 c.c.), condominio(artt. 1136 e ss. c.c.), società di capitali(artt. 2363 e ss. c.c.; la disciplina della società a responsabilità limitata contempla anche le «decisioni» – art. 2479 e ss. c.c. – che prescindono dal metodo collegiale).
Gli atti unilaterali hanno talvolta discipline diverse, come la promessa di pagamento e la ricognizione di debito (art. 1988 c.c.), il cui solo effetto è di operare l’inversione dell’onere della prova in sede giudiziale, senza costituire il titolo di un rapporto giuridico.
In tutti questi casi la specificità della disciplina rispecchia una diversità funzionale rispetto al contratto.
Anche il secondo limite è di immediata percezione: esso è dato dagli atti unilaterali tra vivi, una categoria che si contrappone a quella dell’atto mortis causa, cioè a causa di morte, la cui nota distintiva non sta nella struttura ma nella sua funzione.
L’atto mortis causa evoca, appunto, quella figura tuttora ambigua che è la ‘causa’, considerata al livello normativo, dall’art. 1325, n. 2, c.c., come uno dei requisiti del contratto. Quando si afferma che un atto è mortis causa, si vuole alludere, così come per la causa del contratto, alla ragione giustificatrice dello spostamento patrimoniale.
Quindi l’atto mortis causa è quell’atto nel quale la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale risiede nella morte del soggetto: si tratta del testamento. È chiaro, dunque, che dall’ambito esplicativo della disciplina del contratto è escluso il testamento in quanto atto mortis causa (al quale, del resto, è riservata un’ampia disciplina nel secondo libro del codice: artt. 587 ss. c.c.). Tuttavia la giurisprudenza in tema di interpretazione del testamento offre non rare sentenze che richiamano le norme sull’interpretazione del contratto (artt. 1362 ss. c.c.) in maniera piuttosto tralatizia. La tendenza può essere condivisa quando si tratti di norme che esprimono principi comuni a tutti gli atti di autonomia, perché il testamento non ha una disciplina specifica sull’interpretazione, ma singole norme speciali (ad es. l’art. 625 c.c.), che indicano i criteri per stabilire l’intento del testatore.
L’ultimo aspetto da considerare ai fini della estensione della disciplina del contratto è dato dalla compatibilità, che costituisce l’altro limite posto dall’art. 1324 c.c. Bisogna chiedersi come intenderlo. In dottrina si è dibattuto abbastanza sull’interrogativo se l’applicazione della disciplina del contratto agli atti unilaterali tra vivi sia da considerare diretta o analogica. È preferibile, però, superare questo problema perché, sostanzialmente, l’applicazione analogica viene in considerazione quando c’è una lacuna di disciplina: lacuna che, qui, non si riscontra perché l’art. 1324 c.c. richiama la disciplina del contratto.
Il punto importante è fissare il limite della compatibilità. Per saggiare questo problema è necessario porsi nella prospettiva della dinamica giuridica, e cioè valutare quali presupposti sono richiesti perché un determinato effetto giuridico si produca. Se questo presuppone un intento del soggetto volto a produrlo, allora, nella valutazione della legge, l’atto ha carattere impegnativo: esso, nella prospettiva della teoria del negozio giuridico, si può definire negoziale. Se, invece, l’effetto giuridico prescinde completamente dall’intento dell’autore dell’atto, siamo al di fuori della figura. In sostanza, dunque, è la funzione dell’atto a stabilire se ci sia compatibilità con la disciplina del contratto in generale.
Per spiegare questa prospettiva è opportuno qualche esempio. Ma prima bisogna chiarire le premesse generali del discorso, che attengono alla distinzione, istituzionale, tra fatto giuridico, atto giuridico e negozio giuridico.Essi si configurano come cerchi concentrici: il fatto è più ampio, l’atto più ristretto, il negozio ancora più ristretto.L’atto di autonomia privata, nella valutazione dell’ordinamento, è un fatto. Ma è un fatto particolare, perché consiste in regole. Il senso di questa affermazione si comprende nella prospettiva della dinamica giuridica, cioè di ciò che occorre per la produzione di determinati effetti giuridici.Il fatto è produttivo di effetti giuridici senza il sostegno della volontà umana, ovvero di un comportamento umano e volontario; l’atto presuppone, per la produzione dei suoi effetti, un comportamento umano e volontario; il negozio presuppone, invece, l’intento di produrre un vincolo giuridico. Questa distinzione è importante, perché, mentre per il negozio serve la capacità di agire (art. 2 c.c.), salvo che la legge prescriva una capacità diversa (cfr. gli artt. 84 e 250, ult. co., c.c.), per l’atto basta la capacità di intendere o di volere(art. 2046 c.c.), in quanto si richiede la volontà del comportamento, mentre per il fatto non serve neanche la capacità di intendere o di volere, perché l’effetto giuridico prescinde dal comportamento umano. È possibile che un determinato effetto giuridico sia voluto dall’autore del comportamento: e tuttavia quel comportamento rimane, ai fini del regime giuridico, un mero fatto quando la legge non richiede alcun intento perché l’effetto si produca. Un esempio è l’inseminazione di un terreno: le piante che nasceranno apparterranno al proprietario del terreno tanto se i semi li abbia portati il vento quanto se la semina sia opera del proprietario o di un terzo. L’inseminazione non diviene negozio giuridico se è fatta con l’intento di attribuire le piante al proprietario del terreno: questo intento rimane – ai fini dell’acquisto della proprietà delle piante per accessione (non, invece, ai fini di una eventuale donazione indiretta: art. 809 c.c.) – sullo sfondo di un mero fatto. Per questo la volontà non ha alcuna rilevanza. Non c’è un atto o, addirittura, un atto negoziale solo perché il comportamento è sostenuto da quell’intento; l’intento, in sé, rimane ininfluente e può, semmai, rilevare solo ai fini della configurazione di una donazione indiretta (cfr., per le obbligazioni che derivano ex lege da questi fenomeni, gli artt. 934 e ss. c.c.).Un altro esempio si ha in tema di procreazione: la vicenda procreativa è un mero fatto giuridico, anche se sostenuta da un intento procreativo all’atto del concepimento, così come è un fatto la nascita. Non è l’intento ma il legame genetico a fondare giuridicamente la filiazione. Nell’atto non serve l’intento di produrre l’effetto: qui il discrimine rispetto al negozio risiede nella esigenza di una volontà impegnativa, ma non sotto il profilo soggettivo, cioè di ciò che il soggetto vuole, quanto nell’ottica di ciò che l’ordinamento richiede perché l’effetto giuridico si produca. Non sempre questa distinzione è netta. Ad esempio, la giurisprudenza in tema di dicatio ad patriam – che è l’atto con cui il proprietario di una strada privata la destina all’uso pubblico costituendo sulla stessa una c.d. servitù di uso pubblico – ritiene sufficiente, ai fini della costituzione della servitù, la mera volontarietà del comportamento, senza richiedere l’intenzione di destinare la strada al pubblico godimento. Questo orientamento è, tuttavia, discutibile. La costituzione di un peso sul proprio fondo costituisce un atto costitutivo di un diritto; pertanto esso, quand’anche realizzato con un comportamento, presuppone un intento. È verosimile, piuttosto, che la giurisprudenza ricavi tale intento dal dato oggettivo costituito dal comportamento di mettere volontariamente, e con continuità, un proprio bene a disposizione della collettività.Come detto, nell’atto giuridico serve il comportamento umano e volontario di un soggetto capace di intendere e di volere(cfr. l’art. 2046 c.c.). È atto giuridico l’illecito extracontrattuale(artt. 2043 c.c.). Ha una efficienza dispositiva l’adempimento dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), del quale è ammessa la ripetizione se è fatto da un incapace, diversamente dall’adempimento di una obbligazione civile, ancorché prescritta (art. 2940 c.c.), per il quale non è richiesta la capacità del solvens(art. 1191 c.c.), essendo l’adempimento un atto dovuto. Il riferimento all’irrilevanza della ‘incapacità’ senza specificazioni riguarda, oltre all’incapacità di agire, l’incapacità naturale: e perciò induce la conclusione che l’adempimento sia un mero fatto, non essendo rilevante la consapevolezza con cui esso viene attuato. Nocciolo dell’atto impegnativo è l’intento. Esso rende volontaria la manifestazione. Quest’ultima comprende sia la dichiarazione, sia il comportamento espressivo di un intento (ad es. la derelizione e l’occupazione: la prima consiste nella dismissione della proprietà di una cosa mobile; la seconda – art. 923 c.c. – nell’acquisto della proprietà tramite l’impossessamento di una cosa mobile che non appartiene ad alcuno): quando l’intento è rivelato da un comportamento, che lo attua materialmente, si configura un negozio di attuazione.
Sondiamo la portata pratica di quanto abbiamo detto. Il diritto seleziona la realtà, demarcando gli atti giuridicamente rilevanti da quelli che rimangono nella socialità.
Nella promessa di matrimonio, in una prospettiva naturalistica e sociale, si ha certamente un intento impegnativo. Se la promessa è vicendevole, si potrebbe anche ipotizzare, sempre in una prospettiva sociologica, un atto preliminare di matrimonio, in cui le parti si impegnano a sposarsi. Ma questa figura, sul terreno giuridico, non esiste, perché la libertà di non contrarre matrimonio è un valore presidiato in maniera assoluta.
Perciò la promessa di matrimonio è regolata proprio per escluderne la vincolatività (art. 79 c.c.). Tuttavia, pur non producendo effetti congruenti con l’intento, essa produce altri effetti, quelli previsti dagli artt. 80 e 81 c.c., cioè la restituzione dei doni e, a determinate condizioni, il risarcimento del danno. Dunque, la risposta dell’ordinamento prescinde dall’intento: perciò la promessa di matrimonio è un atto non negoziale.
Non possiamo, però, ritenere che questo criterio sia l’unico indice rivelatore della ‘negozialità’: occorre, infatti, aver presente che la ricostruzione generale del negozio è ambigua in numerosi punti e non consente generalizzazioni. Si sostiene, infatti, che nell’atto serve la mera capacità di intendere o di volere, mentre nel negozio serve la capacità di agire: tuttavia anche l’effetto dell’art. 81 c.c. presuppone la maggiore età o la capacità di contrarre matrimonio. La teoria si infrange, dunque, su singoli aspetti della figura alla quale si riferisce. Resta, però, il fatto che eventuali vizi del consenso della promessa di matrimonio non debbono essere fatti valere mediante un’azione di annullamento, ma restano assorbiti dalla non vincolatività della promessa: essi rilevano in sé per escludere la responsabilità prevista dal citato art. 81 c.c.
Un altro esempio utile a comprendere la variegata fenomenologia degli atti di autonomia privata è il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio (art. 250 e ss. c.c.). Esso è significativo perché mette in luce un utile criterio per accertare la funzione di un atto di autonomia, e quindi i suoi caratteri: il criterio secondo cui la disciplina della patologia dell’atto – cioè dei vizi dello stesso e dei rimedi volti a rimuoverne gli effetti – aiuta a comprenderne la fisionomia.Il riconoscimento di figlio produce un forte effetto giuridico, quello di imprimere lo status di figlio a un soggetto, il quale non abbia lo status di figlio di un’altra persona dello stesso sesso (art. 253 c.c.). Poiché esso è volto ad attribuire questo status, è caratterizzato da un corrispondente intento, per il quale è richiesta una determinata capacità (art. 250, ult. co., c.c.).Con il riconoscimento nasce il rapporto parentale, con tutti i diritti ed i doveri che ne conseguono. Veniamo alla sua patologia. Il riconoscimento può essere impugnato per violenza (art. 265 c.c.) e per interdizione giudiziale.L’errore e il dolo non sono regolati. Ma ciò non significa che il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio non possa essere impugnato da chi l’ha compiuto ritenendosi genitore per errore o a causa dell’inganno. Essi non sono, in sé, rilevanti, perché sono assorbiti da un vizio ancora più intenso, che è il difetto di veridicità(art. 263 c.c.). Ciò significa che l’autore del riconoscimento, anche se consapevole di riconoscere un figlio non proprio - dunque senza errore -, può impugnare il riconoscimento stesso.Sino alla riforma attuata dal d.lgs. 28.12.2013, n. 154 il difetto di veridicità poteva essere fatto valere senza limiti di tempo dall’autore del riconoscimento, dal figlio e da chiunque vi avesse interesse.Il solo limite era dato dal caso di concepimento avvenuto mediante fecondazione eterologa (ora ammessa nel nostro sistema per effetto della sentenza della C. cost., 10.6.2014, n. 162) col consenso del genitore il cui gamete non viene impiegato: in questo caso la regola di responsabilità rende irretrattabile la determinazione volta a ricorrere alla fecondazione eterologa. La possibilità che anche l’autore del riconoscimento possa dedurre il difetto di veridicità senza limiti di tempo è caduta con la riforma del 2013, che preserva l’imprescrittibilità dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità al solo figlio, il quale rimane arbitro della corrispondenza del proprio status giuridico alla derivazione biologica. In tutti gli altri casi vi è comunque un termine di decadenza quinquennale decorrente dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita, ridotto ad un anno rispetto all’autore del riconoscimento (cfr. l’art. 263, co. 3, c.c.). Se caratteristica dell’atto impegnativo è di conformare la realtà giuridica, si dovrebbe concludere nel senso che il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, poiché può essere caducato – senza limiti di tempo da parte del figlio – per la non corrispondenza con la realtà genetica, non è un atto realmente impegnativo, sebbene produca un intenso effetto squisitamente giuridico, quello di creare lo status di figlio.
In effetti sul tema si è scritto di tutto: taluno l’ha ritenuto un negozio, altri un mero atto, altri ancora una confessione. Ma la questione è che si tratta di una figura sfuggente, così come sfuggente è la stessa classificazione degli atti di autonomia, che spesso si sottraggono a rigidi schematismi. Qui il principio di verità – che consente la prevalenza della verità genetica sulla condizione giuridica, cioè lo status – è l’impronta che caratterizza la figura. Nel caso del consenso alla fecondazione eterologa, anche quando il difetto di veridicità non può essere fatto valere dal coniuge o dal convivente di chi è fecondato, può sempre esser fatto valere da terzi.
Ecco un’ulteriore riprova dell’opportunità di rifuggire da una ricostruzione unitaria dell’atto giuridico e del negozio giuridico, mentre è necessario soffermarsi sulla disciplina dei singoli atti per sondarne la specifica rilevanza.
Talvolta, poi, c’è una disciplina specifica, ricognitiva di una diversa natura dell’atto, le cui lacune non possono essere colmate applicando le disposizioni sul contratto in generale.
Ad esempio,l’adempimento, che è l’atto con cui il debitore estingue fisiologicamente l’obbligazione, non può essere impugnato per incapacità del debitore stesso (art. 1191 c.c), perché esso non è un atto con cui si assume un’obbligazione o si dispone di un diritto, ma, come detto, è un atto solutorio, cioè estintivo di un rapporto obbligatorio.
Dunque il regime del contratto ha la sua ragione d’essere per gli atti dispositivi di un diritto, costitutivi o modificativi di un rapporto obbligatorio e per quelli estintivi diversi dall’adempimento (ad es. la novazione: art. 1230 e ss. c.c.). Questi ultimi, infatti, estinguono il rapporto obbligatorio dettando una nuova regola: gli atti che non hanno questa caratteristica non possono soggiacere al regime del contratto.
Altro fenomeno sono le dichiarazioni di scienza, che consistono nell’affermazione o nella ricognizione di un fatto. Pensiamo alla confessione, regolata nell’art. 2730 e ss. c.c. Essa è collocata tra le prove, perché la sua funzione risiede nel provare i fatti attestati dal confitente: è, dunque, concepita in funzione del giudizio, cioè del procedimento contenzioso che sfocia nella decisione di una lite.
La confessione è «la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte» (art. 2730 c.c.). In verità anche con la confessione si può disporre di un diritto, perché, valendo come prova in giudizio, essa può provocare uno spostamento patrimoniale privo di supporto sostanziale, quando il confitente attesti falsamente, ma consapevolmente, la verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Tuttavia ciò non muta la funzione che l’ordinamento assegna alla confessione. In altri termini, ciò non toglie che, anche in questo caso, essa, nella sua morfologia normativa,non è funzionalmente diretta a produrre un effetto dispositivo. Tale effetto deriverà, infatti, dalla sentenza.
La mera confessione è una dichiarazione di scienza nel senso di attestazione di un fatto. Non è un atto con cui taluno regola un rapporto giuridico: non solo ha una propria disciplina (art. 2730 c.c.), ma le sue note funzionali impediscono di colmarne le lacune attingendo a regole dettate per il contratto.
Ad esempio, nel contratto l’errore è rilevante – e produce l’annullabilità – se è essenziale e riconoscibile(art. 1428 e ss. c.c.). Invece nel regime della confessione l’errore legittima la revoca della confessione stessa (art. 2732 c.c.) senza che occorra la riconoscibilità: è sufficiente che il soggetto abbia dichiarato per vero un fatto non vero essendo incorso in errore, cioè senza essere consapevole della falsità.
Si prescinde dalla riconoscibilità perché, non essendo un atto dispositivo, la confessione non suscita un affidamento da tutelare, diversamente da quanto avviene nel contratto dove occorre bilanciare l’interesse del contraente caduto in errore con l’affidamento generato nell’altro contraente, così come negli atti unilaterali dispositivi, in cui l’interesse del disponente va bilanciato con quello dell’eventuale destinatario della dichiarazione.
Un altro utile esempio si rintraccia nell’atto dell’arbitratore (art. 1349 c.c.), quell’atto con cui un terzo, incaricato dai contraenti, procede alle determinazione dell’oggetto del contratto configurato come determinabile dalle parti. Questo tipo di atto, pur producendo un effetto innovativo, è caratterizzato dall’inserimento nella cornice contrattuale, che ne legittima l’efficienza innovativa: è un atto dispositivo di secondo grado, cioè poggia su un contratto; ed è un atto funzionale all’altrui interesse. Ciò spiega la sua peculiare patologia, quanto ai vizi ed alle conseguenze.
Se non risulta che le parti si sono rimesse al mero arbitrio del terzo, questi deve procedere con equo apprezzamento: in tal caso la determinazione è viziata se manifestamente iniqua o erronea. Se, invece, le parti si sono rimesse al mero arbitrio del terzo (art. 1349, co. 2, c.c.), la determinazione è infungibile ed è impugnabile solo per mala fede, cioè per aver agito in danno di una od entrambe le parti. Il regime della patologia è, in entrambi i casi, l’inettitudine dell’atto a produrre effetti: non c’è una scelta normativa verso la tipologia della nullità, ma l’atto è comunque improduttivo di effetti.
Torniamo al punto da cui siamo partiti, cioè al limite della compatibilità posto dall’art. 1324 c.c. Abbiamo constatato che la compatibilità va commisurata all’intento impegnativo: là dove l’atto si caratterizza per essere manifestazione di un intento impegnativo c’è la compatibilità; quando, invece, l’atto non è volto ad innovare la realtà giuridica, creando, regolando o estinguendo un rapporto così come il contratto, ma produce un altro tipo di effetto – solutorio, di scienza, di mera partecipazione –, non ricorre il presupposto della compatibilità, e la disciplina del contratto non potrà essere applicata.
Infine, la compatibilità può essere esclusa dalla constatazione che una disposizione presuppone specificamente un contratto (ad es. l’art. 1453 c.c.): la questione, tuttavia, meriterebbe un approfondimento non possibile in questa sede.
Manca una nota unitaria idonea a raccordare tutti gli atti di autonomia privata: per questo il negozio giuridico non appare idoneo ad essere impiegato come categoria concettuale.
Ma la stessa conclusione vale per il contratto, che, a sua volta, non può essere elevato ad archetipo dell’atto dell’autonomia privata. È vero che quella del contratto è la disciplina più diffusa. Ma ciò non toglie che essa non è sempre adeguata a cogliere la realtà di un atto, anche quando si riscontri la compatibilità.
Si pensi agli atti unilaterali e alla loro interpretazione. La teoria della interpretazione consente di mettere a fuoco le caratteristiche di un determinato atto. Dalla disciplina sull’interpretazione del contratto (artt. 1362-1371 c.c., art. 35 d.lgs. 6.9.2005, n. 206), si ricava un regime funzionale a una vicenda bi- o plurilaterale: non è questione, cioè, di rintracciare l’intento di un soggetto, ma di ricostruire un intento ‘comune’ in funzione della tutela dell’affidamento di ciascuna parte dell’accordo. Nella disciplina del contratto non rileva ciò che intende l’autore della dichiarazione, ma ciò che può ritenere, secondo ragionevolezza e buona fede, chi la riceve: l’ottica, cioè, è quella del destinatario.
Negli atti unilaterali le norme sull’interpretazione vanno applicate in questa prospettiva là dove c’è un destinatario della dichiarazione, la cui percezione occorre perché l’atto produca effetto (le cosiddette dichiarazioni recettizie o indirizzate – artt. 1334 e 1335 c.c. – tra cui si annoverano proposta e accettazione, che, tuttavia, sono ritenute atti ‘prenegoziali’, in quanto revocabili: cfr. gli artt. 1328 e 1372 c.c.), ma non là dove la dichiarazione non presuppone un destinatario ai fini della sua efficacia. Si pensi alla rinuncia a un diritto reale, che è atto non indirizzato, anche se produce effetti nei confronti di qualcuno.
Dati significativi in tema di interpretazione si rintracciano, al di fuori della disciplina del contratto, in tema di testamento: qui l’interpretazione deve tendere ad accertare l’intento del testatore nei limiti in cui sia riconducibile al tenore della scheda testamentaria.
All’opposto si pone il regolamento privato, che è categoria essenzialmente dottrinale, ed il cui carattere è dato dall’attitudine a regolare a prescindere dal consenso (statuti associativi, regolamenti nella comproprietà, regolamenti di impresa). Questo carattere, infatti, rende rilevante esclusivamente il significato della regola obiettivamente percepibile dal destinatario, senza che rilevi l’intenzione di chi l’ha posta.
Quindi, mentre nel contratto bisogna ricercare la comune intenzione anche oltre il significato letterale delle parole (art. 1362 c.c.), utilizzando il comportamento delle parti, e nel regolamento privato (v. ad es. l’art. 1138 c.c.) l’intenzione, quando collide col significato, è del tutto irrilevante – in quanto la regola vincola senza l’esigenza del consenso –, nel testamento siamo all’opposto, perché domina l’esigenza più squisita di accertare l’intento del testatore, oltre e anche contro il significato letterale delle parole, nei limiti in cui, naturalmente, sia possibile attribuire un significato alla disposizione testamentaria e stabilire che è quello voluto dal testatore.
Prima di concludere per l’inettitudine di una disposizione testamentaria a produrre effetto, bisogna considerare che il testamento rileva come atto quando l’autore non può più rimetterci mano. Nel testamento la volontà è sempre in movimento, essendo sempre revocabile (art. 679 e ss. c.c.), sino a quando è la morte ad impedirlo. In questo senso essa è ‘ultima volontà’. Dunque, solo se sia impossibile conferirle un significato, bisogna negare l’effetto ad una disposizione testamentaria.
Agli antipodi del testamento è il regolamento privato. L’interpretazione del primo è marcatamente soggettiva – tende cioè ad accertare l’effettivo intento dell’autore – mentre nel secondo essa è improntata alla prospettiva del destinatario della regola, per la sua attitudine a vincolare senza il consenso. Nel contratto, dove la regola è concordata tra le parti, si deve rintracciare la comune intenzione (art. 1362 c.c.).
Nel mero atto giuridico, invece, le questioni ermeneutiche rimangono sullo sfondo, in quanto viene in rilievo soltanto la configurabilità del comportamento o della determinazione idonea a configurare l’atto.
La distinzione tra atto e negozio giuridico, dunque, è anche rilevante ai fini dell’interpretazione e della patologia. Solo il secondo si interpreta, dovendosi stabilire qual è il suo contenuto prescrittivo, e soggiace alla patologia prescritta per la specifica figura di cui si tratta o a quella prevista per il contratto. Il primo rileva come dato oggettivo: se non rispecchia le caratteristiche richieste dalla legge per la sua efficacia, è improduttivo di effetti, senza necessità di stabilire di quale tipo di vizio si tratti, non potendosi mutuare la disciplina del contratto.
Gli interventi normativi successivi al codice civile, che, per molti versi, hanno prodotto un grande impatto sulla realtà giuridica, non hanno, invece, consentito di cogliere, descrivere o creare qualche ulteriore fenomenologia di atti giuridicamente rilevanti in funzione dell’intento.Il nuovo e, per molti aspetti, complesso assetto odierno delle fonti normative non innova il panorama degli atti giuridici sebbene incida in profondità nella dinamica delle fonti di integrazione del contratto e nei molteplici modelli in cui esso si registra. Ciò, peraltro, dipende dalla constatazione che la disciplina codicistica ha già registrato – sia pure soltanto mediante “segni” e demandando alla dottrina il compito di costruire la teoria degli atti giuridici – i modi mediante cui si esplica l’autonomia privata.Tra i vari modelli di atti impegnativi sussistono differenze tali da rendere inutile delineare un figura unitaria. La nota costituita da un intento tendente a costituire od innovare un rapporto giuridico non è di per sé sufficiente a costruire una categoria unitaria, cioè ad accorpare gli atti di autonomia sotto una comune etichetta. Vi sono, infatti, diversità più o meno marcate a seconda degli effetti perseguiti e della materia a cui gli atti ineriscono, le quali si spiegano in ragione dei caratteri e della funzione di ciascun modello di atto. In ogni caso la disciplina generale degli atti impegnativi, che opera in mancanza di una disciplina specifica, è quella del contratto in generale(artt. 1321-1469 bis c.c.): lo prevede l’art. 1324 c.c.Da esso la dottrina ha ricavato l’emersione nel nostro sistema della figura del negozio giuridico in generale. La questione, però, è terminologica, non sostanziale.
Art. 1324 c.c.
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