Jordan, Neil
Regista, sceneggiatore e scrittore irlandese, nato a Sligo il 25 febbraio 1950. Caratterizza il suo cinema lo slittamento progressivo da una situazione realistica a dimensioni al limite dell'onirico, con atmo-sfere talvolta di favola nera e crudele, oppure intrise di visionario romanticismo, non privo di risvolti psicoanalitici o di cadenze melodrammatiche. Tema di fondo dei film di J. è poi la difficile conquista dell'identità, che sia quella esistenziale o sessuale, politica o etnica, in un tragitto che rovescia lo statuto dell'eroe, avvalorandolo di malinconia e antiretorica, e circondandolo di un alone di mistero e di anelito religioso che rivela appieno l'appartenenza di J. alla cultura, anche letteraria, irlandese. Tutto ciò si è espresso, in chiave di epopea storica, ma anche di ritratto esistenziale, in Michael Collins (1996), biografia del celebre combattente della causa indipendentista irlandese, premiato con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia.
Grazie al padre professore di letteratura e alla madre pittrice, la fantasia narrativa e il mondo delle suggestioni visive hanno segnato l'infanzia di J., così come i colori emozionali del paesaggio e dell'atmosfera culturale irlandese, tra gusto del fiabesco e sentimento cattolico. Dopo gli studi effettuati alla St. Paul's School a Clontarf (Dublino), nel 1974 J. iniziò a occuparsi di letteratura, fondando la Irish Writers Cooperative ed esordendo come scrittore nel 1979 con una raccolta di racconti, Night in Tunisia, cui sono seguiti i romanzi The past, The dream of the beast e Sunrise with sea monster.
L'incontro sul set di Excalibur (1981) con un cineasta come John Boorman, di cui fu consulente creativo, a lui affine per il gusto romantico-fantastico, gli ha aperto la strada del cinema. Dopo un esordio sperimentale con Traveller (1981), misteriosa storia di delitti e visioni mute, J. ha trovato in Boorman il produttore del suo primo lungometraggio, Angel (1982), un thriller in cui il jazz, il crimine, il romanticismo si uniscono nella figura di un mite sassofonista, che diventa assassino al fine di vendicare un amore finito troppo presto. Analoghe atmosfere struggenti e risonanze irreali, barocche, disperatamente immerse in un clima noir che si accende di erotismo sognante, riecheggiano in Mona Lisa (1986), calvario passionale di un ex carcerato, assoldato come accompagnatore di una bellissima squillo di lusso, ruolo per il quale Bob Hoskins ha ottenuto il premio come miglior attore al Festival di Cannes. Realizzato tra questi due film The company of wolves (1984; In compagnia dei lupi) ha costituito la conferma del talento visionario e della libertà inventiva di J., memore della tenerezza poetica e crudele espressa dalla lezione surrealista di Jean Cocteau, un viaggio iniziatico nei meandri dell'inconscio infantile implicato in incubi a sfondo sessuale connessi alla figura del lupo e a una variante a base di licantropia della fiaba di Cappuccetto rosso, ispirata ad alcuni racconti di A. Carter. Raggiunta subito la notorietà internazionale J. ha compiuto la prima e deludente esperienza hollywoodiana: né High spirits (1988, Fantasmi da legare), né We're no angels (1989; Non siamo angeli), remake dell'omonimo successo del 1955 di Michael Curtiz con Humphrey Bogart, sono stati all'altezza delle capacità di stile e fantasia del regista.
È stato il ritorno in Irlanda e ai temi prediletti dell'identità adolescenziale, dello scatenamento di fantasticherie romantiche, del maledettismo intriso di umori jazz e di sottofondi edipici a ispirare a J. un film riuscito e poetico come The miracle (1991; Un amore forse due), la storia di un giovane aspirante scrittore diviso tra un intenso rapporto con il padre alcolizzato e l'innamoramento per colei che ignora essere sua madre. Ma è stato The crying game (1992; La moglie del soldato) a consacrare definitivamente J., in un unanime successo di critica e di pubblico, confermato da sei candidature all'Oscar nel 1993 e da quello per la migliore sceneggiatura originale, da lui stesso scritta. Il film appare esemplare del modo di costruire il tessuto narrativo e la tenuta stilistica da parte di Jordan. Da uno spunto quasi cronachistico ambientato durante l'azione di un commando dell'IRA, si sfuma progressivamente nell'esplorazione sofferta, misteriosa, allucinata della mente di Fergus (Stephen Rea, attore prediletto da J.), il combattente irlandese che accetta di rintracciare la ragazza del soldato inglese ucciso durante una fuga, e che nel trovarla se ne innamora disperatamente e ne riceve la rivelazione, traumatizzante ma quasi mistica, di una androginia racchiusa nel corpo meraviglioso e nel fascino ambivalente della stessa ragazza-ragazzo (Jaye Davidson) e nell'enigma di una bellezza che insieme lo assolve e lo condanna.
L'assunto decadente e wildiano presente in filigrana nel film emerge senza pudori nel successivo Interview with the vampire (1994; Intervista col vampiro), da un romanzo di A. Rice. Sontuosamente prodotta dalla Warner è l'opera del ritorno di J. a Hollywood, ricca di divi, da Tom Cruise a Brad Pitt ad Antonio Banderas che incarnano l'eterna giovinezza e l'orrenda maledizione di una stirpe 'dannata' di vampiri, ma soprattutto il torbido richiamo sessuale che emana dalla loro malinconica solitudine di 'eslegi' insieme cinici, sanguinari, fragili e disperati e il cui rapporto con il 'femminile' si racchiude nel pallore delicato e perverso di Claudia, una bambina-vampiro (Kirsten Dunst) che rimanda alle esangui e funebri spose adolescenti dei racconti di E.A. Poe.
Nel 1996 J. si è cimentato con un progetto ambizioso accarezzato per anni, raccontare l'epopea di un eroe nazionale irlandese, Michael Collins, nel film omonimo, premiato a Venezia anche con la Coppa Volpi per l'interpretazione di Liam Neeson. Pur racchiuso nelle regole spettacolari di un kolossal di ricostruzione storica, il film sfugge dalle maglie retoriche grazie a un ritmo vitale e scarno, a un afflato antieroico e insieme idealistico risolto in un furente impatto visivo. Con The butcher boy (1997), premiato nel 1998 al Festival di Berlino con l'Orso d'argento per la migliore regia, J. ha ripreso alcune sue ossessioni e con un tono più aspro e cupo che in precedenza è ritornato sul dato allucinatorio dell'infanzia radiografando lo stato d'animo di un ragazzo lacerato dalla presenza di un padre alcolizzato e di una madre maniaco-depressiva e dalle visioni salvifiche di una Vergine Maria (Sinead O'Connor) vista come un'apparizione aliena.
J. ha poi riproposto il labirintico intrico delle allucinazioni nel successivo In dreams (1999) dove si è abbandonato a lambiccati abissi onirici il cui simbolismo è però riscattato dalla capacità di esplorare questa volta le pulsioni profonde dell'universo femminile e materno nella storia di un serial killer che sconfina nell'horror. L'estremismo sentimentale e il gusto melodrammatico di The end of the affair (1999; Fine di una storia) si adagia nella soffusa meditazione esistenziale, non priva di risvolti religiosi, basandosi su un racconto autobiografico di G. Greene ambientato all'inizio della Seconda guerra mondiale, e intrecciandola al sentimento di una passione amorosa interminabile, in un'atmosfera cinematografica che ricorda i primi film di David Lean.
Dopo una parentesi che lo ha visto partecipare alla serie collettiva delle riduzioni televisive dai drammi di S. Beckett (Not I, 2000), nel 2002 J. ha realizzato The good thief (Triplo gioco) rifacimento di Bob le flambeur (1956) di Jean-Pierre Melville, da un romanzo di A. Le Breton, ripercorrendone l'agrodolce romanticismo con una vena ironica e disincantata.
Neil Jordan, a cura di S. Tummolini, C. Calpini, Roma 1996.