Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Mandela si dedica all’attivismo politico nel Congresso Nazionale Africano (ANC) dopo essersi trasferito dalla comunità tribale a Johannesburg. Da posizioni nazionaliste africane giunge a sostenere una politica di solidarietà etnica per protestare contro il regime segregazionista. L’intransigente reazione repressiva del governo lo induce a optare per la lotta armata. Condannato all’ergastolo nel 1964, Mandela trascorre in carcere 26 anni; durante la prigionia, che gli vale una decisa popolarità internazionale, avvia di sua iniziativa, negli anni Ottanta, trattative con il governo, conclusesi con la democratizzazione del Paese e la sua nomina a presidente della Repubblica.
Nelson Rolihlahla Mandela, politico sudafricano, è stato il primo uomo di colore a ricoprire la carica di presidente della Repubblica del Sudafrica (1994-1999); la sua prigionia, durata 26 anni (1964-1990), ne ha fatto il simbolo della lotta contro la politica di discriminazione razziale detta apartheid, procurandogli solidarietà e prestigio internazionali. Mandela è nato il 18 luglio 1918 in un piccolo villaggio del Transkei, nella zona sud est del Paese; di famiglia aristocratica – il padre apparteneva a un ramo secondario della famiglia reale dei Temba, del Traansval – riceve fino ai 16 anni un’educazione in linea con le pratiche tradizionali della comunità tribale di appartenenza. Rimasto orfano di padre all’età di nove anni, la sua formazione è affidata al reggente, il capo della tribù, la cui autorità è riconosciuta e legittimata dai rappresentanti bianchi del governo che, in questo modo, controllano i diversi gruppi etnici e le differenti organizzazioni tribali presenti nel territorio. La vita a stretto contatto con il reggente permette al giovane Mandela di conoscere le modalità di risoluzione delle controversie presso la comunità; nei suoi ricordi, queste esperienze hanno stimolato in lui l’interesse per le problematiche giuridiche.
A 16 anni, il reggente gli impone di frequentare le scuole più prestigiose allora riservate alla popolazione di colore, con l’intenzione di collocarlo in una posizione rilevante all’interno dell’organizzazione tribale: entra così dapprima al Clarkebutty Institute e poi, a 19 anni, allo Wesleyan College di Fort Beaufort, vicino Healdtown. L’esperienza scolastica allarga l’orizzonte culturale del giovane, portandolo a confrontarsi sia con altre tradizioni africane, sia con la cultura inglese. A Fort Beaufort Mandela viene a contatto per la prima volta con posizioni politiche vicine al nazionalismo africanista. L’esperienza più significativa è però quella presso il collegio universitario di Fort Hare, unico centro di istruzione superiore cui possano accedere i giovani di colore. Mandela, la cui carriera scolastica è stata fino a quel momento brillante, supera gli esami d’ammissione. A Fort Hare entra a far parte delle organizzazioni studentesche e conosce OliverTambo, con cui in futuro condividerà sia un’esperienza professionale sia soprattutto l’impegno nella lotta contro l’apartheid. Una protesta contro la dirigenza della scuola ne provoca l’espulsione. Questa esperienza lo conduce a una definitiva rottura con l’autorità tribale verso la quale, già da adolescente, aveva mostrato insofferenza: Mandela fugge a Johannesburg con l’obiettivo di evitare un matrimonio organizzatogli dal reggente, ma anche perché è interessato a imporsi professionalmente nell’ambiente, da lui ritenuto più stimolante, della città.
Dopo una breve esperienza come guardiano minerario, la vita di Mandela si indirizza verso un’organizzazione più regolare: si sposa con Evelyn NtokoMase, dalla quale ha quattro figli e inizia a lavorare nello studio legale Witkin, retto da un avvocato ebreo, Lazar Sidelsky, di vedute tolleranti e liberali. La conoscenza, nell’esperienza professionale, di diverse personalità della popolazione bianca solidali verso gli africani, spingerà Mandela ad apprezzare le differenze tra le diverse culture e nazionalità proprie della popolazione non di colore, prendendo le distanze da un radicale africanismo al quale, in un primo momento, aveva aderito. Contemporaneamente, inizia a frequentare le principali organizzazioni politiche d’opposizione: dapprima il Communist Party, del quale lo stupisce l’ambiente e la solidarietà multirazziale e, successivamente, l’African National Congress (ANC), organizzazione per l’emancipazione della popolazione di colore fondata nel 1912.
Nel 1942 si laurea in giurisprudenza, quindi si iscrive all’Università del Witwaterstrand presso Johannesburg e frequenta un corso di diritto propedeutico per esercitare la professione di avvocato. Dieci anni più tardi, Mandela aprirà a Johannesburg uno studio legale, in società con Oliver Tambo, per dare assistenza legale alle vittime dei provvedimenti discriminatori. Nel 1943 entra nell’African National Congress, influenzato anche dall’amico e cugino della moglie Walter Sisulu, futuro compagno di prigionia. Mandela diventa subito una delle personalità più in vista dell’organizzazione, tra i promotori della fondazione di una lega giovanile, decisa sostenitrice dei valori del nazionalismo africano e per questo avversata dall’allora presidente dell’ANC, “dottor” Xuma; in particolare, la lega intendeva scoraggiare un’alleanza organica con il Communist Party che, agli occhi dei giovani militanti, rappresentava un’ideologia estranea a quelli che erano i più autentici valori dell’africanismo. Nell’immediato dopoguerra, in un periodo di decise lotte sociali (sciopero del minatori, 1946; proteste contro l’Asiatic Land Tenure Act, che limitava la libertà di movimento della popolazione di origine indiana), viene eletto, in seno all’ANC, nel Comitato Esecutivo del Transvaal, sua regione di nascita.
La vittoria elettorale nel 1948 del National Party guidato da Daniel Malan e l’inizio della politica di apartheid, porta progressivamente Mandela a prendere le distanze dal rigido nazionalismo africano. In particolare, la messa fuori legge del Communist Party e la logica propria della politica di discriminazione razziale, mirante a dividere le etnie, lo convince dell’importanza di realizzare una politica di alleanza, a cominciare da quella afro-indiana. Mandela si allontana così definitivamente da una prospettiva dogmatica, accettando di confrontarsi con le tradizioni politiche proprie dei diversi gruppi etnici; l’interesse e la condivisione da parte di Mandela dei principi fondamentali del pensiero politico occidentale, in particolare la sua condivisione del pluralismo politico, favoriranno la considerazione positiva della sua figura politica in Europa.
Le vicende storiche del Sudafrica di quegli anni spingono Mandela a modificare le proprie posizioni anche in merito alla strategia di lotta da adottare contro il potere: in un primo momento sostiene una linea non violenta di disobbedienza civile, in continuità con la lezione di Gandhi; a partire dal 1953, intensificandosi l’azione repressiva del governo anche contro le iniziative pacifiche, diventa favorevole a metodi di lotta violenti. Il fallimento delle battaglie contro gli sgomberi forzati ordinati dalle autorità nel sobborgo di Sophietown, finalizzati a trasferire la popolazione di colore in appositi quartieri ghetto e a facilitare l’occupazione da parte della popolazione bianca delle principali residenze storiche, e i provvedimenti repressivi contro la sua stessa persona (subisce la messa al bando per due anni, che gli impone di non uscire da Johannesburg e le dimissioni dall’ANC) conducono Mandela a scegliere in via definitiva la lotta armata.
Nel 1954, nell’eventualità di una messa fuori legge dell’organizzazione, elabora il “piano M”, mirante a organizzare l’attività politica in condizioni di clandestinità; la finalità è quella di rendere possibile ai vertici dell’ANC di trasmettere le decisioni prese ai più alti livelli alla totalità dei militanti senza organizzare riunioni. Il piano, che non viene applicato nell’immediato, costituisce nondimeno la strategia di riferimento per l’ANC a partire dal 1960, quando l’organizzazione politica viene dichiarata illegale. Nel 1953 Mandela collabora attivamente all’organizzazione del Congresso del popolo, voluto dal nuovo presidente dell’ANC Albert Luthuli; a esso partecipano diverse forze dell’opposizione, tra cui il sindacato meticcio SACPO e il COD, organizzazione dei bianchi radicali e di sinistra.
Il Congresso, tenutosi a Tongaat, vicino Durban, nel marzo 1954, vede la stesura e l’approvazione della Carta della libertà, un documento programmatico con i principi fondamentali del futuro Sudafrica; la carta rivendica uno Stato democratico, multirazziale, senza alcun tipo di discriminazione, nel quale a qualsiasi cittadino sia possibile, in base ai suoi meriti, partecipare alla ricchezza del Paese. Il modello della Carta della libertà è la Carta Atlantica, redatta nel 1941 da Roosevelt, testimonianza, a parere di Mandela, della superiorità della tradizione democratica inglese rispetto a quella afrikaaner, propria della popolazione bianca discendente dai Boeri. Mandela, nel giudicare le vicende del suo Paese, attribuisce sempre, infatti, un’importanza decisiva agli schieramenti che si sono formati tra la popolazione bianca durante la seconda guerra mondiale; la svolta nella politica razziale, iniziata nel 1948 con il governo Malan, è da lui intesa come l’inizio dell’egemonia di quello schieramento che, tra il 1939 e il 1943, aveva auspicato un’alleanza con la Germania nazista piuttosto che con gli Alleati.
Negli anni immediatamente successivi, Mandela è oggetto di nuovi provvedimenti repressivi: viene messo al bando altre due volte e, nel dicembre del 1956, è arrestato con l’accusa di tradimento. Il processo, conseguenza di una attività politica che da tempo ha compromesso la serenità della vita familiare, causa il divorzio dalla prima moglie; nel 1958 sposerà Winnie Madikizela, destinata a essere sua compagna anche nella lotta politica. Mandela è assolto nel marzo 1961; l’esito del processo va probabilmente spiegato con le pressioni internazionali esercitate sul governo sudafricano in quel periodo di forti tensioni. Oliver Tambo sceglie la strada dell’esilio per guidare dall’estero l’ANC; una corrente estremista dell’organizzazione ha costituito il PAC (congresso Panafricano, 1959) che contesta all’ANC la prospettiva multirazziale e la vicinanza, quanto meno strategica, al Communist Party.
Nel 1960 si verifica il massacro di Sharpeville, dove vengono uccisi 69 manifestanti, suscitando una sdegnata reazione internazionale; nello stesso anno un referendum indetto tra la popolazione bianca sancisce la trasformazione del Sudafrica in Repubblica, accettando di fatto l’uscita dal Commenwealth e l’isolamento dalla comunità internazionale. Si tratta, a parere di Mandela, di un’ulteriore iniziativa della comunità afrikaaner contro la nazione che li aveva sconfitti nella guerra anglo-boera svoltasi dal 1899 al 1902. Una volta assolto, Mandela prende la decisione di entrare in clandestinità e di dedicarsi all’organizzazione della lotta armata; riesce a strappare un problematico consenso ai leader dell’ANC in merito alla costituzione di una fazione armata, autonoma ma controllata politicamente dalla stessa ANC. Fonda quindi l’MK (Umkhonto we Sizwe, “La lancia della nazione”) il cui intento è quello di compiere attentati a importanti infrastrutture del Paese per indebolirne l’economia e scoraggiare l’ingresso di capitali stranieri. In questo periodo di clandestinità Mandela viaggia più volte all’estero, sia per organizzare le esercitazioni militari del gruppo, sia per ottenere riconoscimenti alla causa sudafricana. Nel 1962 visita diversi Paesi africani, dove ha difficoltà a far comprendere la strategia dell’ANC rispetto a quella nazionalista africana del PAC, e giunge anche a Londra, dove incontra esponenti dell’opposizione sudafricana in esilio.
Nell’agosto 1962, Mandela viene arrestato, probabilmente in seguito a una delazione: il processo, che inizia nell’ottobre dello stesso anno, si conclude con una condanna a cinque anni di carcere. Mandela sceglie di difendersi da solo e, insieme agli altri coimputati, intende utilizzare la tribuna processuale per propagandare le ragioni della propria causa politica. Nel luglio del 1963, però, la polizia scopre documenti compromettenti in una fattoria, presso Rivonia, che era abituale sede di ritrovo dell’MK. Questo materiale, che riporta piani con azioni di sabotaggio, dà origine a un nuovo procedimento per guerriglia e cospirazione contro lo Stato. Il processo suscita notevoli ripercussioni internazionali, con manifestazioni di solidarietà, soprattutto in Inghilterra, e con una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiede al Sudafrica, con l’astensione però degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, di concedere l’amnistia agli imputati. Queste pressioni producono l’effetto di evitare agli imputati la pena di morte, chiesta dall’accusa; tutti vengono condannati all’ergastolo.
Con l’intenzione di accentuare il valore politico della condanna Mandela, insieme agli altri coimputati, decide di non ricorrere in appello contro la sentenza. Questa assoluta coerenza con i principi morali della propria lotta, perseguita senza tentennamenti per tutti i 26 anni di prigionia, ha sicuramente contribuito alla massima considerazione internazionale della sua figura politica. Rinchiuso dapprima nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, Mandela è protagonista di tutte le azioni volte a migliorare la situazione carceraria dei detenuti, compresi quelli comuni. La sua qualità di leader, unita alla competenza giuridica (Mandela ottiene, dopo diverse azioni di lotta, il diritto di potere continuare gli studi in carcere), rafforzano la sua fama internazionale; il governo sudafricano tenta più volte, in quegli anni, di offrirgli condizioni vantaggiose in cambio della sua astensione dall’attività politica; nel 1969 il ministro delle carceri Jimmy Kruger gli propone di ritirarsi nel Traskei, ricevendo un netto rifiuto.
Nel 1968 muore la madre di Mandela, nel 1969 il primogenito avuto dalla prima moglie: in entrambi i casi le autorità gli negano il permesso di partecipare alla cerimonia funebre. Nonostante il continuo attivismo, solo in parte Mandela è a conoscenza di quanto accade nel Paese e dell’attività politica della sua organizzazione, a capo della quale è stato designato, nel 1967, Oliver Tambo, e rimane in parte sorpreso nel conoscere in carcere la nuova generazione di oppositori all’apartheid, che fanno capo al movimento della Black Consciousness (MBC), guidato da Steve Biko. Anche la moglie Winnie continua all’esterno la lotta politica ed è più volte costretta al confino; quanto alle modalità di organizzare l’opposizione al governo, molte accuse, di violazione dei diritti umani e di corruzione, saranno rivolte a Winnie Mandela dopo il 1990, accuse alla base della futura separazione dal marito, avvenuta nel 1994.
L’atteggiamento delle autorità nei confronti di Mandela migliora a partire dagli anni Ottanta, poco dopo la nomina a Primo ministro di Pieter Willem Botha (1916-2006), che avvia una politica di parziali riforme. Nel 1982 Mandela, insieme ai principali esponenti dell’opposizione con lui incarcerati, viene trasferito nel carcere di Poolsmore, vicino a Pretoria. Le condizioni di detenzione sono sicuramente migliori per la qualità e l’ampiezza della cella comune, ma i detenuti vengono completamente isolati dal resto della popolazione carceraria, per evitare loro di organizzare azioni politiche nel penitenziario. Nel 1984, contemporaneamente all’assegnazione all’arcivescovo di Città del Capo, Desmond Tutu, del premio Nobel per la pace, Mandela prende in considerazione la possibilità di avviare contatti con il governo; si tratta di un’iniziativa esclusivamente personale, in quanto in un primo tempo Mandela ne tiene all’oscuro i vertici della ANC, temendo che nell’organizzazione prevalgano pregiudiziali ideologiche rispetto a un atteggiamento pragmatico, capace di cogliere le opportunità offerte dalla nuova situazione politica.
Nel maggio 1988 Mandela viene trasferito in un edificio autonomo del carcere di Victor Verster, dove non è soggetto ad alcuna restrizione o disciplina, gode di un domestico personale, può invitare amici e membri della famiglia. Questo miglioramento delle condizioni carcerarie coincide con l’intensificarsi dei contatti, culminati con l’incontro nella residenza presidenziale, il 5 luglio 1989, con il Primo ministro Botha. Nell’agosto dello stesso anno, però, Botha è costretto a presentare le dimissioni, per motivi di salute. Il successore, Frederik Willem de Klerk, imporrà al Sudafrica una svolta politica decisiva in senso progressista. Alla sua nomina seguono le scarcerazioni dei compagni di Mandela ancora a Pillmore e la legalizzazione dell’ANC. Il Primo ministro, con un discorso tenuto il 13 dicembre, annuncia l’abolizione di tutte le misure restrittive e l’intenzione di smantellare la politica dell’apartheid. Il 10 febbraio del 1990 Mandela viene scarcerato. Inizia una nuova fase della sua attività politica, finalizzata a condurre le trattative con il governo per realizzare una pacifica transizione verso uno Stato democratico. La popolarità e la statura di Mandela sono confermate da trionfali viaggi all’estero, culminati con un concerto tenuto allo stadio di Wembley, a Londra, in suo onore.
Le relazioni con il governo del suo Paese non sono però facili e gli accordi raggiunti rischiano più volte di fallire; in questo periodo, Mandela conferma sia l’intransigenza morale sia il pragmatismo politico che caratterizzano tutta la sua vita. Rifiuta di accettare come precondizione la rinuncia alla lotta armata prima che si realizzi lo smantellamento dell’apartheid e non intende rinunciare al principio democratico del voto individuale, laddove la posizione del Primo ministro è quella di mantenere un diritto di veto stabile per le minoranze etniche. Nello stesso tempo, però, non avanza pregiudiziali ideologiche in merito al futuro assetto economico, rassicurando coloro che temono una deriva socialista dello Stato una volta abolita l’apartheid.
Le maggiori difficoltà sono incontrate da Mandela nei rapporti con le altre organizzazioni di opposizione che temono, per il prestigio riconosciuto alla sua persona, di essere emarginate nel nuovo panorama politico: da una parte il PAC, autore fino al 1994 di azioni armate che rischiano di far fallire i negoziati, dall’altra l’Inkhata Freedom Party, guidato da Mangosuthu Buthelezi, protagonista di scontri e violenze con i militanti dell’ANC, finanziati anche, come viene più tardi accertato, dal Conservative Party, l’organizzazione politica più intransigente dell’opinione pubblica bianca, intenzionata a far fallire il processo riformatore.
Per facilitare l’azione politica di de Klerk e permetterle di opporsi a questa pratica occulta di sabotaggio dei negoziati, il 6 agosto del 1990, con la Convenzione di Pretoria, Mandela annuncia la sospensione della lotta armata, d’intesa con gli altri principali leader della ANC. La CODESA (Conferenza per un Sudafrica democratico) avvia il suo corso nel dicembre 1991, anche se le violenze ancora diffuse nel Paese ne rallentano i lavori. Mandela e de Klerk riescono a far superare al Paese queste tensioni firmando, il 26 settembre del 1992, un protocollo d’intesa che consente di uscire politicamente dagli antagonismi e porre le basi per il futuro assetto dello Stato. Il protocollo prevede anche un accordo per una nuova assemblea costituzionale.
Nel 1993, mentre una conferenza multipartitica fissa la data delle prime elezioni a suffragio universale per il 26 aprile dello stesso anno, Mandela e de Klerk ricevono il premio Nobel per la pace. Nello stesso anno una delegazione internazionale, guidata da Henry Kissinger, incoraggia il nuovo processo riformatore, favorendo un definitivo accordo tra Mandela, de Klerk e Buthelezi. Dopo le elezioni, il 27 aprile 1994, Mandela chiede all’Assemblea Generale dell’ONU la fine delle sanzioni contro il Sudafrica; nel maggio viene eletto presidente del Sudafrica democratico, carica che ricopre fino al giugno del 1999. In qualità di presidente, Mandela guida la transizione del Paese verso la democrazia, favorendo in particolare l’attività della Commissione per la verità e la riconciliazione, con la quale il Sudafrica supera, secondo modalità ritenute da tutti gli osservatori di particolare rilevanza politica e culturale, il dramma delle violenze compiute nei decenni precedenti.
Con la presidenza di Mandela il Sudafrica assume un ruolo completamente nuovo nel continente africano, proponendosi quale Stato capace di trainare l’intera economia della regione e di favorirne i processi di pacificazione. Mediatore, tra gli altri, nel conflitto in Zaire e in altre situazioni critiche, Mandela incontra frequentemenete molti politici africani. Nel 1998 si sposa per la terza volta con Graça Machel, vedova di Samara Machel, ex presidente del Monzambico. Concluso il mandato presidenziale, Mandela continua a farsi promotore di iniziative internazionali in difesa dei diritti dell’uomo; partecipa soprattutto alle attività dedicate al dramma dell’AIDS, cercando di far superare, con il suo esempio, le tradizionali reticenze dell’opinione pubblica africana ad affrontare il tema.
La personalità di Mandela, la cui esistenza si è distinta per assoluta coerenza e per avere pienamente raggiunto, in modo pacifico, i propri obiettivi politici, non ha costituito solo un positivo punto di riferimento per l’intero Terzo Mondo, ma è diventata modello di moralità politica nella stessa Europa. Indubbiamente Mandela rappresenta una volontà di riscatto propria dei Paesi non industrializzati, ma egli ha saputo rivendicarla rimanendo fedele ai principi del pluralismo. Se la sua azione politica ha generato in Europa unanimi consensi – come mai è accaduto per altre importanti figure di rivoluzionari del Terzo Mondo – è stato perché egli ha condotto coerentemente la propria rivoluzione verso una democrazia compiuta, pur tra innumerevoli difficoltà, senza nulla concedere a soluzioni di carattere autoritario.