nemico
Fino al primo Cinquecento la questione del n. non aveva mai avuto uno spazio significativo nella riflessione politica, per quanto la narrazione delle inimicizie incrociate avesse occupato largamente le cronache cittadine. L’amicizia infatti, e non l’inimicizia, sembrava cruciale nel pensiero politico, e la centralità dell’una aveva distolto dal riflettere particolarmente sull’altra. Nel discorso politico-morale dominante nelle repubbliche comunali, l’amicizia è infatti più importante della stessa giustizia, perché è il fondamento della concordia senza la quale la giustizia non è neanche pensabile. Questa posizione di matrice aristotelica e ciceroniana fonda anche la posizione irenica di Agostino (→) e di Tommaso d’Aquino, che fanno della pace l’origine della felicità dell’uomo e per i quali la «societas amicorum» è un requisito della felicità nella vita presente (Summa theologica, la IIae, q. 4, a. 8 e la IIa IIae, q. 114 et q. 116). Ma è proprio questa concezione che va in frantumi nel primo Cinquecento. Un re di Francia, Luigi XII, può, nel luglio del 1510, chiedere a M., inviato della Repubblica fiorentina: «io voglio sapere chi è mio amico o mio inimico» (M. ai Dieci, 18 luglio 1510, LCSG, 6° t., p. 431). Il contrario dell’amicizia, l’inimicizia, conquista in tali parole uno statuto paritario e diventa componente irrinunciabile di un vero e proprio ‘sapere’, decisivo in un’era di guerra permanente. Il n. porta in sé un pericolo e una minaccia incombenti sulla salvaguardia dell’individuo e, soprattutto, dello Stato. Non è più, come nella lunga tradizione del De amicitia ciceroniano, legato alla solitudine, alla lusinga o alla tirannide, le tre forme di alterazione delle relazioni sociali equilibrate.
La divisione che in precedenza – per es. nelle cronache cittadine – era solo deplorata e condannata, deve ormai essere ‘pensata’: ed è qui che la riflessione di M. acquisisce tutta la sua importanza.
La presenza del campo semantico dell’inimicizia negli scritti di cancelleria è imponente. Nei sette volumi dell’Edizione nazionale, la parola n. compare più di 600 volte sotto le tre forme correnti (nemico, nimico, inimico) o tramite le parole dello stesso campo semantico (inimicizia ecc.), il più delle volte al plurale o con un singolare preceduto da un articolo definito che vale per un plurale («il nemico»). Nel carteggio, quell’inimicizia è prima di tutto collettiva e non individuale: nell’«arte dello stato» repubblicana il n. individuale spunta raramente e interessa solo quando si ragiona di principi nuovi, come Cesare Borgia, o quando si scrive sui «grandi uomini». Per gli stessi motivi, l’inimicizia è pubblica prima di essere privata. Inoltre, essa viene espressa in modo alquanto semplice: nel caso del n., M. non propone mai una definizione assoluta, e, contrariamente a un procedimento frequente nella sua scrittura quando si intenda circoscrivere un significato complesso, poche volte ricorre a dittologie sinonimiche descrittive. M. lascia da parte le approssimazioni per difetto: il n. si definisce dai suoi ‘atti’ e non ha bisogno di altro per qualificarsi come tale, mentre l’amicizia si esprime spesso con semplici ‘parole’ (→ odio e amore); una delle poche eccezioni è il n. giuridico che si ribella contro la sovranità fiorentina e che viene tacciato di «nimico e ribelle». La categoria è talmente pregnante che vale una metonimia: per es., tra il 1498 e 1508, i pisani diventano il n. per eccellenza, ossessione di tutta la politica estera fiorentina, e ci si riferisce molto più spesso al «nimico» o ai «nimici» che non ai «Pisani». Una volta identificato, il n. va trattato in quanto tale: spesso nel carteggio ricorre senza ulteriore precisione (l’indicazione basta) il sintagma «trattare da nemico».
In questa prima tappa della scrittura machiavelliana, il n. è innanzitutto esterno, è un hostis da combattere per difendere la patria, mentre gli amici sono alleati – reali o potenziali, effettivi o auspicati. Si tratta, per es., di fare sì che i destinatari delle lettere ufficiali si comportino da «buon figlioli e fedeli amici delli amici e inimici delli inimici nostri» (minuta non datata e priva di destinatario, LCSG, 1° t., p. 323), secondo una catena di determinazioni meccaniche e incrociate di amicizie e inimicizie. Può valere la pena segnalare che i momenti di maggiore concettualizzazione della coppia amico/nemico sono nei testi delle legazioni, come se l’esperienza diretta di punti di vista non fiorentini aiutasse a mettere a fuoco la logica binaria. Si pensa specialmente alle legazioni in Francia e presso Cesare Borgia, per due motivi simmetrici: nel primo caso, M. sa di essere mandato presso «l’amico» storico della Repubblica, che, tuttavia, dal 1494 in poi, delude regolarmente i fiorentini per lo scarso sostegno alla riconquista di Pisa; nel secondo caso, invece, il Valentino è un n. potenziale da controllare, tentando di capire le sue intenzioni.
Durante la sua prima legazione in Francia, nel 1500, M. è colpito dalla spregiudicatezza e dalla venalità dei francesi: ben due volte segnala che essi sono stati alquanto recisi nel fargli notare che «o nimici o amici che voglino essere, ad ogni modo [i fiorentini] li pagheranno», perché «non s’ha più a credere alle parole: e nel pagarli consisteva l’amicizia del Re, e nel negarli la nimicizia» (M. ai Signori, 11 ott. 1500, LCSG, 1° t., pp. 490 e 492; idea ripetuta nella lettera del 14 ott. 1500, p. 497). M. aveva d’altronde già segnalato ai Dieci che «in questa risposta» consiste «l’amicizia e inimicizia di questo Re»; e che in tale situazione non va pensato che «ci vaglino o ragioni o argumenti, perché non sono intesi» (M. ai Signori, 3 sett. 1500, LCSG, 1° t., p. 454). Ora l’amicizia risulta largamente impenetrabile dalle «ragioni» del diritto come dagli «argumenti» della retorica, i due campi che nutrono maggiormente la parola diplomatica. Conta solo il rapporto di forza: Firenze è valutata «pro nichilo», constata amaramente il Segretario nella lettera ai Signori del 27 agosto 1500 (LCSG, 1° t., p. 443). L’esigenza del re è preponderante, a scapito di ogni altra forma di razionalità, dal momento che i francesi «sono accecati da la potenzia loro e da l’utile presente e stimano solamente o chi è armato, o chi è parato a dare» (p. 443). In tali situazioni spunta poi sempre la minaccia di un rovesciamento delle alleanze e di una sostituzione dell’amicizia con l’inimicizia, o viceversa, come avverte M.: «scrivendo alcuna cosa in favore vostro e’ [il Re] faceva contro a’ Lucchesi, Sanesi e altri inimici vostri, e’ quali non voleva per nimici non avendo ad avere per amici vostre Signorie» (M. ai Signori, 4 nov. 1500, LCSG, 1° t., p. 507). Di fronte ai fiorentini che propongono il discorso di lunga durata dell’amicizia tradizionale fra regno di Francia e Repubblica, il re e i suoi consiglieri, non senza una certa brutalità, ribattono con un’analisi strettamente congiunturale. Nel campo della politica estera non esistono n. storici o eterni: l’inimicizia non è un dato stabile, bensì la componente di una situazione singolare e determinata, legata a una specifica «qualità dei tempi». È uno dei motivi per i quali i trattati di pace tentano di stabilizzare per un po’ la cartografia delle inimicizie con il dispositivo delle «nominazioni», secondo il quale ognuno dei principali contendenti ha la possibilità di «nominare» alcuni alleati suoi per includerli nel trattato, ma soprattutto per fare condividere dagli ex avversari una cernita tra amici e n., seguendo una cascata di protezioni gerarchizzata in funzione delle forze in campo: «ciascuna delle parti si è obbligata avere li amici per amici e li nimici per inimici» (M. al capitano e commissario di Arezzo, Borgo San Sepolcro, ecc., 16 maggio 1501, LCSG, 2° t., p. 96). La legazione presso Cesare Borgia propone molteplici illustrazioni di quella instabile bilancia tra amicizia e inimicizia. Il Valentino in uno dei primi colloqui con M. esclama: «e se non mi vorrete amico, mi proverrete inimico» (M. ai Dieci, 26 giugno 1502, LCSG, 2° t., p. 240). Oltre la fattualità dell’inimicizia nei tempi di guerra (quel che si potrebbe chiamare l’evidenza del n.), s’impone quindi una sua dinamica tramite la coppia amico/nemico (per la conflittualità interna → parte).
La necessità di ‘controllare’ l’inimicizia porta a costruire il concetto, centrale in M., di «sicurtà». La parola-chiave «assicurarsi» significa una politica di potenza, riguardo ai n. accertati e a quelli possibili.
Invece, con gli amici o con chi non è temibile, perché non può nuocere, il «beneficare» può sostituire o completare l’«assicurarsi». La «sicurtà» diventa un criterio decisivo del buon governo, secondo una definizione che parla chiaro:
uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere; questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo che non sia ragionevole ch’eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna (Discorsi II xxiii 8).
La «sicurtà» in tale prospettiva porta con sé la «quiete»: tale stabile tranquillità si raggiunge con una ‘azione’ puntuale definita attraverso un verbo assai frequente nella prosa di M., ossia «assicurare», che esiste il più delle volte in forma riflessiva («assicurarsi del nemico»). La «sicurtà» machiavelliana non ha niente a che fare con la serenità dell’anima di stampo stoico, epicureo o scettico, non mira a una tranquillità interiore: quel che conta è la tranquillità pubblica grazie a una «quiete» che non è neppure una pace perfetta, né la fine della guerra di tutti contro tutti o una garanzia della libertà di ognuno. Quel che conta è infatti, più modestamente, l’«assicurarsi dei nemici» per resistere ai tempi avversi. L’esistenza del n. esige di identificare le forze contrapposte, e quindi il loro rapporto, mentre l’«assicurarsi» viene concepito come una soluzione alla tensione naturale insita nell’agire politico repubblicano. L’obiettivo da raggiungere è descritto in una frase in cui ‘principe’ potrebbe essere sostituito da ‘Repubblica’: «un principe sicuro in mezzo de’ suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo [...] pieno di riverenza e di gloria il principe, d’amore e sicurtà i popoli» (Discorsi I x 22-23). La «sicurtà» diventa allora anche la pietra di paragone delle differenze e della rivalità tra i due «umori» maggiori (il popolo e i grandi), poiché il popolo chiede solo sicurtà mentre i grandi desiderano ‘opprimere’ e dominare. Nel gioco degli «umori», la «sicurtà» non è sempre e solo effetto di una forza coer citiva brutale, perché è anche suscettibile di essere prodotta dalla legge e dagli ordini. Lo indica chiaramente un passo dei Discorsi nel quale il ritmo semantico dell’assicurarsi diventa quasi ossessivo:
Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo vegga che per accidente nessuno ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento. In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stato volle che quelli re dell’armi e del danaio facessero a loro modo, ma che d’ogni altra cosa non ne potessono altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello principe adunque o quella republica che non si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani (Discorsi I xvi 25-29).
Tale stabilità nella «sicurtà» pacifica e garantista vale tuttavia soltanto se i buoni ordini portano a limitare gli eccessi dei desideri dei soggetti politici. Ma se il popolo, spinto dall’«ambizione», non si soddisfa di tale forma di sicurezza e chiede di avere accesso agli «onori», i buoni ordini entrano in crisi e si lascia la via aperta ai «desideri», senza più il vincolo del bene comune. Un circolo vizioso «naturale» porta allora alla rovina dello Stato:
[...] la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa; talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro, perché disiderando gli uomini parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quell’altra (Discorsi I xxxvii 4-5).
S’identificano così due linee contrapposte: da una parte, un collegamento quiete-sicurtà-amore-leggi; dall’altra, una serie desiderio-mala contentezzaguerra-inimicizia; donde la massima che «gli uomini si hanno o accarezzare o assicurarsi di loro» (Discorsi III vi 99). In fin dei conti, esistono due forme di «sicurtà»: quella che sorge dai buoni ordini, e quella che consiste nell’assicurarsi dei nemici. Nel primo caso, la sicurtà consente di superare e scartare l’inimicizia, per via della produttività dei buoni ordini, e la rende inattuale; ma, nel secondo, l’esistenza dell’inimicizia trascina con sé un’ingiuzione a controllarla sicché essa diventi il fondamento paradossale della sicurtà.
L’ambivalenza della sicurezza porta allo sviluppo di un vero e proprio ‘sapere’ dell’inimicizia. Si tratta infatti di stabilire una tipologia evolutiva delle inimicizie, distinguendole in funzione degli effetti che producono. L’assenza di n. può indebolire uno Stato, o addirittura contribuire alla decadenza della Repubblica:
[...] avendo i Romani domata l’Africa e l’Asia e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza de’ nimici fece che il popolo romano, nel dare il consolato non riguardava più la virtù, ma la grazia, tirando a quel grado quelli che meglio sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nimici; dipoi, da quelli che avevano più grazia ei discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine ne rimasero al tutto esclusi (Discorsi I xviii 17-18).
Un altro genere di produttività positiva dell’inimicizia si definisce quando l’esistenza del n. diventa una prova o, più semplicemente, la dimostrazione strumentale della virtù del politico che vi si confronta:
Sanza dubio e’ principi diventano grandi quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, maxime quando vuol fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che uno ereditario, gli fa nascere de’ nemici, e fagli fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle, e – su per quella scala che li hanno pòrta li inimici suoi – salire più alto. Però molti iudicano che uno principe savio debbe, quando e’ ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti maggiore sua grandezza (Principe xx 15-16).
Ma, aggiunge M. nel medesimo capitolo del Principe, il passaggio di categoria, da n. ad amici, è una delle possibilità che si offrono nell’evoluzione di un regime, soprattutto se è nuovo:
quelli uomini che nel principio d’uno principato erono stati inimici, che sono di qualità che a mantenersi abbino bisogno di appoggiarsi, sempre el principe con facilità grandissima se li potrà guadagnare: e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede, quanto conoscono essere loro più necessario cancellare con le opere quella opinione sinistra che si aveva di loro (Principe xx 19).
Così come i n. possono essere utili in quanto n., i n. possono diventare amici (o viceversa). Di nuovo risulta chiaro che l’inimiciza non è una qualità stabile e intemporale, bensì la costruzione di una situazione singolare, suscettibile quindi di evoluzione.
Quando non si può evitare di farsi dei n., bisogna sapere discernere tra quelli più o meno pericolosi perché l’inimicizia non è mai innocua:
Vero è che io giudico infelici quelli principi che per assicurare lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine; perché quello che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli si assicura, ma chi ha per nimico l’universale non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa,tanto più debole diventa il suo principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico (Discorsi I xvi 13-14).
Distinguere tra le varie possibilità di inimicizie, comprenderle e integrarle in una forma di sapere politico non equivale né a estinguere le inimicizie né a trascurare la loro effettività storica. L’alternativa amico/nemico, di cui l’esperienza di cancelleria aveva mostrato e dimostrato, nei ‘fatti’, la pregnanza al Segretario, va accettata e razionalizzata. Come indica il cap. xxi del Principe: «È ancora stimato uno principe quando egli è vero amico e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto e’ si scuopre in favore di alcuno contro a uno altro. El quale partito fia sempre più utile che stare neutrale» (§ 11).
L’orizzonte della riflessione sull’inimicizia coincide con il rigetto delle vie di mezzo e della neutralità (→). La paura del n. e il rischio dell’inimicizia non devono portare a cancellarli e a negarli, ma a integrarli nel ragionare politico e nell’azione che ne scaturisce.
Bibliografia: J.C. Fraisse, Philia. La notion d’amitié dans la philosophie antique. Essai sur un problème perdu et retrouvé, Paris 1974; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1° vol., Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma 1999; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La politique de l’expérience. Savonarole, Guicciardini et le républicanisme florentin, Alessandria 2002, pp. 55-73; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La connaissance de l’ennemi, in Id., La grammaire de la république. Langages de la politique chez Francesco Guicciardini (1483-1540), Genève 2009, pp. 125-57; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2011; F. Gros, Le principe sécurité, Paris 2012.