neocomunitarismo
Corrente della filosofia morale e politica sviluppatasi prevalentemente nel mondo anglo-americano a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento. Sono considerati suoi principali esponenti lo scozzese MacIntyre (➔), gli statunitensi M. Sandel (n. 1953), Walzer (➔), R. Bellah (n. 1927) e A. Etzioni (n. 1929), il canadese C. Taylor (n. 1931) e il brasiliano Roberto M. Unger (n. 1947). Per quanto diversi tra loro, questi autori sono accomunati da un atteggiamento critico verso il liberalismo contemporaneo, sia nella versione ispirata al kantismo, sia in quella che si richiama all’utilitarismo: al primo rimproverano una concezione meramente procedurale della razionalità e una visione astorica e asociale dell’individuo; al secondo contestano una concezione economicistica della razionalità e una visione dell’individuo come semplice massimizzatore di utilità. A entrambi gli indirizzi i filosofi neocomunitari oppongono una concezione forte della razionalità (capace di valutare e deliberare norme e valori) e una visione storico-sociale dell’individuo, la cui identità morale e politica è inestricabilmente connessa alla comunità di appartenenza. La rivendicazione del primato logico e assiologico della dimensione comunitaria e storica ha portato taluni interpreti a vedere nel n. una forma di neoaristotelismo, di neohegelismo o (nel caso di MacIntyre) di neotomismo.
Il libro di Sandel che secondo alcuni segna l’atto di nascita del n. – Liberalism and the limits of justice (1982; trad. it. Il liberalismo e i limiti della giustizia) – ha come suo principale bersaglio la teoria elaborata da Rawls in A theory of justice (1971; trad. it. Una teoria della giustizia). Gli individui che Rawls colloca nella ‘condizione originaria’ – eguali, liberi, razionali e spinti all’equità dal fatto di ignorare quale posizione occuperanno nel futuro assetto sociale – rappresentano per Sandel un esempio emblematico dell’inadeguatezza della concezione liberale della persona. Si tratta infatti di soggetti ‘vuoti e incorporei’, nei quali l’Io viene prima dei fini che persegue: gli individui sono in grado di esaminare con distacco razionale qualsiasi convinzione, legame o circostanza che coinvolga la loro identità. Una simile concezione, oltre a essere irrealistica sotto il profilo psicologico, è per Sandel pericolosa sotto il profilo morale e politico: esistono infatti appartenenze, valori e fini che sono avvertiti dalle persone come ‘costitutivi’ della loro identità (essere membri «di questa famiglia o comunità o nazione o popolo», essere portatori di «questa storia, come figli e figlie di quella rivoluzione, come cittadini di questa repubblica») e che quindi non possono essere messi tra parentesi quando si tratta di deliberare sull’assetto sociale e politico; ammesso che fosse possibile, ci troveremmo di fronte non a soggetti liberi e razionali, ma a persone completamente prive di carattere e profondità morale. Nella prospettiva di Sandel la comunità ha quindi una funzione ‘costitutiva’: essa non indica solo ciò che i membri di una società hanno in comune come concittadini «ma anche ciò che essi sono, non una relazione che scelgono (come in un’associazione volontaria) ma un attaccamento che scoprono». Questo tipo di argomentazioni critiche – fondato sull’idea della natura costitutivamente sociale dell’uomo – viene rivolto da Taylor agli altri versanti della tradizione liberale, ossia ai libertarians alla Nozick o ai classical liberals alla Hayek. Taylor, inoltre, sottolinea quanto inadeguata sia la concezione del soggetto agente implicita nel «liberalismo del mercato»: e al «semplice soppesatore» di preferenze e desideri egli contrappone quindi la figura del «forte valutatore», ossia di un soggetto che non subisce passivamente i suoi desideri, bensì li soppesa e li valuta in relazione a beni più complessi, come per es. la «qualità della vita» o «il tipo di persone che siamo o vogliamo essere» (Human agency and language, 1985).
Il primato dell’Io sui suoi fini (concezione atomistica dell’individuo) porta a una concezione strumentale della società, la quale a sua volta postula il primato del giusto sul bene (ossia, una concezione formale della giustizia). Secondo tale concezione, lo Stato liberale non si fonda su una determinata concezione del bene, ma su un insieme di principi e regole che permettono a ogni individuo di vivere secondo le sue particolari convinzioni; tali principi e regole trovano il loro fondamento nel concetto di giusto, che è prioritario e indipendente rispetto al concetto di bene. Secondo gli esponenti del n. tale priorità è falsa, illusoria e pericolosa. È falsa, perché ogni criterio di giustizia dipende, secondo Taylor, da una determinata concezione del bene: la giustizia di cui parla Rawls, per es., presuppone che si consideri come bene supremo l’autonomia morale dell’individuo. È illusoria, perché nessuna società potrebbe sussistere come semplice somma di interessi e di opinioni particolari, tenuti insieme dall’esigenza di autotutelarsi; è necessario il riferimento a una qualche forma di bene collettivo e condiviso, senza il quale non può prodursi alcun legame sociale autentico e duraturo. Infine, è pericolosa, perché non esistono istituzioni valide per ogni tempo e per ogni luogo e non esistono punti di vista neutrali: ogni soluzione istituzionale, secondo Walzer, ha un carattere storicamente e culturalmente determinato e ogni punto di vista, secondo MacIntyre, si situa in una tradizione e in un contesto morale specifici.
Uniti nella critica al liberalismo, gli esponenti del n. si dividono nella proposta di modelli alternativi. Alcuni (Taylor, Walzer) si sono limitati a una critica di tipo filosofico, accettando – anche se con alcuni importanti distinguo – lo Stato di diritto della tradizione liberale; altri (Sandel, MacIntyre, il primo Unger) hanno elaborato dei modelli alternativi centrati sulla dimensione comunitaria, che tuttavia sono stati criticati per la loro vaghezza o per la loro scarsa praticabilità. Va infine osservato che lo stesso concetto di comunità ha assunto a volte i connotati della nazione o della patria, altre volte quelli del gruppo etnico o culturale, altre ancora quelli dei gruppi di piccole dimensioni (famiglia, Chiesa, associazioni): di qui le oscillazioni, persino nella stesso autore, tra un n. di tipo nazionalista e ‘repubblicano’, un n. pluralista e ‘multiculturalista’ e un n. ‘associativo’.