Neografia
Non potrebbe esserci introduzione più adatta al tema di queste note di quel che argomentava più di sessant’anni fa Siegfried Giedion, a proposito della storia anonima della meccanizzazione: «La storia è uno specchio magico: chi vi guarda dentro, vi scorge la propria immagine in forma di avvenimenti e di sviluppi. Essa non si arresta mai. È in continuo movimento, come le generazioni che la osservano. Non è mai possibile coglierla nel suo complesso. Si rivelano a noi soltanto frammenti in rapporto al punto di vista del momento. […] Sono cose di poca importanza esteriore quelle di cui trattiamo qui. Cose che abitualmente non sono prese sul serio; per lo meno per quanto riguarda la storia. Ma come in pittura, anche nella storia, non conta l’importanza della materia trattata. Anche in un cucchiaino di caffè si rispecchia il sole. Nel loro complesso le cose modeste, di cui si parlerà, hanno sconvolto il nostro sistema di vita sin dalle fondamenta. Queste piccole cose quotidiane si accumulano sino a formare energie che afferrano tutti quanti si muovono nella cerchia della nostra civiltà. […] Per lo storico non esistono cose banali. Egli non si può permettere – come del resto lo studioso di scienze esatte – di accettare nulla come naturale. Non può permettersi di vedere gli oggetti con gli occhi di chi li usa quotidianamente, bensì deve usare quelli dell’inventore, come se li vedesse in quel momento per la prima volta. Egli deve avere gli occhi nuovi del contemporaneo, al quale quegli oggetti sembrano meravigliosi e terrificanti. […] Il passo decisivo si compie nel lettore. In lui i significati parziali, che qui andiamo esponendo, prendono vita nella loro molteplicità» (Mechanization takes command. A contribution to anonymous history, 1948; trad. it. L’era della meccanizzazione, 1967, pp. 11-12).
Per poter iniziare il ragionamento sul tema in oggetto, evitando ambiguità e fraintendimenti, è necessario tentare di definire immediatamente e preliminarmente che cosa si intenda con il termine neografia, nozione affatto nuova nel campo delle ipotesi interpretative della contemporaneità e, più in generale, della moderna cultura occidentale.
Una nuova disciplina
«Tra le molte domande che non hanno ancora trovato adeguata risposta nell’occhio del ‘ciclone’ digitale, una emerge, in conclusione, come assolutamente preliminare: non è giunto forse il tempo di dotarsi di strumenti, teorici e progettuali, e di repertori metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò che vorremmo chiamare la scienza della ‘neografia’, rispettivamente moderna e contemporanea, a disciplinare cioè quanto sarebbe il naturale seguito della paleografia, nel conformarsi delle lettere in forme tipografiche e oggi digitali?» – ci si chiedeva dalle pagine di una tra le più antiche riviste di architettura ancora attive, aperta alle pluralità del progetto e della critica, quale «Casabella» (S. Polano, Tipologia, «Casabella», 1999, 668, pp. 68-75). «È forse matura la situazione per disciplinare, per far disciplina della conoscenza di quanto è il naturale seguito storico della paleografia, nel conformarsi delle lettere artificiali in forme tipografiche e oggi digitali, non solo nell’ambito occidentale ma in quello planetario, seguendo e analizzando al contempo l’evolversi delle scritture manuali e delle altre grafie (pittogrammatiche, logogrammatiche, diagrammatiche e così via) che marcano il mondo d’oggi come un immane immaginario testuale?» – si insisteva nell’intervento di Polano, Neografia, al Congresso annuale The shape of language dell’ATypI (Association Typographique Internationale), la maggiore associazione del settore, tenutosi a Roma nel 2002.
In un’osservazione di Roland Barthes si trova conferma di queste iniziali, autonome e personali intuizioni circa un problema contemporaneo, che hanno suggerito l’opportunità di un tentativo di prima perimetrazione del significato di neografia, per provare poi a tratteggiare i contorni di un possibile nuovo ambito disciplinare. «I nostri eruditi – nota Barthes – non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura non ha mai ricevuto altro che un sol nome: la paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare che tutta una sociologia storica, un’immagine complessa dei rapporti che l’uomo classico intratteneva con il suo corpo, le sue leggi, le sue origini, potrebbe uscire da una siffatta neografia che ora non esiste? […] ma le scritture del XIX secolo? O persino quelle del nostro secolo?» (Variations sur l’écriture, 1994; trad. it. 1999, p. 14).
Grafismi
«Apparso, nella storia dell’umanità, prima dell’arte, il grafismo, con un lungo movimento inverso, la riconquista» – osserva acutamente ancora Barthes, nel testo appena citato (p. 67). Nel corso del lunghissimo periodo dell’ominazione, ossia della lenta evoluzione di Homo, la comparsa significativa di grafismi intenzionali è databile ad alcune decine di migliaia di anni prima di Cristo, come esito del diffondersi 200.000 anni fa nel mondo, cominciando dall’Europa – allora abitata da Homo neanderthalensis –, di Homo sapiens proveniente dall’Africa.
In questo contesto, l’apparizione e la diffusione planetaria del grafismo si spiegano con (ed esprimono in pieno) un’attitudine altamente peculiare della specie umana; secondo le ipotesi di alcuni studiosi tale attitudine è antecedente alla verbalizzazione piena, certamente tra le prime tangibili manifestazioni di una cultura elaborata, e non è sottoposta esclusivamente ai bisogni elementari di nutrizione, riposo e riproduzione. Presenti in molti manufatti mobiliari paleolitici, ma soprattutto noti per quelli che furono dipinti in un gran numero di grotte/caverne (celeberrimi alcuni veri e propri affreschi parietali, da Lascaux ad Altamira, nel Nord-Est del continente europeo), questi originari grafismi si mostrano dapprima astratti, cioè hanno forma sostanzialmente ritmico-geometrica, e soltanto in seguito divengono raffigurativi, cioè si manifestano quali rappresentazioni di stampo naturalistico-riproduttivo di alcuni aspetti dell’ambiente (principalmente la fauna).
In altri termini, le grafie, quali deposizioni/iscrizioni di segni visibili intenzionali, hanno suggellato il diffondersi e contraddistinto lo strutturarsi delle culture dell’uomo sulla terra: dai monumenti della preistoria – quel lungo periodo marcato da una anteriorità rispetto alla storia, dalla pretesa di una ‘preistorialità’, che sta tutta e soltanto nell’assenza di grafie testuali, ossia di scritture – di cui non si sanno individuare le funzioni, se non per spesso contrastanti e irrisolte ragioni ipotetiche, alle più composite e complesse declinazioni della contemporaneità; queste ultime si sono manifestate attraverso le evoluzioni e le faglie, le istituzioni e gli avvenimenti, i mutamenti progressivi e gli scatti improvvisi, che disegnano il grande e articolato quadro della storia, registrata dagli apparati documentari scrittoriali, con modalità sempre più intense, se non altro in termini quantitativi, ma non per questo necessariamente più significative.
Nel bacino vastissimo dei segni visibili intenzionali, si deve riconoscere come nell’Occidente (a differenza dell’Oriente ideografico) si assista via via a un progressivo distanziarsi – senza mai totalmente disgiungersi – delle complementari polarità di scrittura e pittura, attività grafiche, che invece il gráphein greco racchiudeva ancora in un solo termine. Gráphein – da cui deriva il nostro termine grafica e quelli similari nelle lingue neolatine – significa infatti (con varie accezioni) sia scrivere sia dipingere.
Alla luce del profondo significato di questa dialettica ambiguità semantica, ricollegando criticamente la nozione di grafica all’etimo originario, si deve riconoscere che entro il suo intrecciato spettro polisemico è racchiusa e si configura parte rilevante della storia delle culture umane: la scrittura, quale tecnologia di definizione, conservazione e trasmissione dei saperi, attraverso le forme specifiche che ha assunto nel tempo e nello spazio (con le polarità alfabetica occidentale e ideografica orientale, in linea di massima); al contempo, anche il disegno, quale tecnologia di rappresentazione, progettazione ed espressione delle raffigurazioni più diverse e delle produzioni immaginali di ogni fatta e destino. Elaborando ulteriormente l’ipotesi definitoria appena tratteggiata, secondo la quale nelle grafie si possono far rientrare tanto le scritture quanto il disegno, si potrebbe adottare una prima approssimativa tassonomia grafica generale, per descriverne i nessi interni con maggior esattezza.
Sulla base di questa ipotesi, infatti, le scritture e i disegni si potrebbero classificare in naturali e artificiali. La scrittura naturale è il campo di studio della paleografia per eccellenza, nelle prossime ma distinte forme della chirografia, quella del manoscritto classico, scrittura non esposta, su supporto mobile e relativamente effimero, privata o ufficiale, di apparato o meno che sia, e dell’archigrafia, ossia l’epigrafia, scrittura esposta, su supporto non mobile e durevole – successivamente realizzata perlopiù con scritture artificiali e, dunque, posta in posizione di ponte con esse. Le scritture artificiali sono il campo di studio della neografia e sono rappresentate tanto dalla tipografia – la scrittura con i tipi di piombo, una grafia fisico-analogica, a cui è affine la dattilografia delle macchine da scrivere, con il prevalente supporto cartaceo, per cui storicamente si dovrebbe parlare a rigore di ‘neografia moderna’ – quanto dalla digigrafia, la scrittura fondata e racchiusa nel numerico, nei digit o meglio nella loro rappresentazione tramite stati della materia definita dai bit, la cui virtualità si attualizza prepotentemente sebbene non esclusivamente, nei monitor. Si dovrebbe pertanto parlare storicamente a rigore di ‘neografia contemporanea’, con una faglia assai significativa, strettamente attuale, che è alle origini di tutte queste riflessioni, con un riverbero sempre più potente nel secolo appena iniziato.
Riprendendo quanto già prima accennato, con disegno naturale si può indicare, d’altra parte, la tradizionale gamma di artefatti della storia dell’arte della figurazione/rappresentazione, nella plurale gamma che va dalla pittografia alla ideografia, con vari gradienti di simbolizzazione, ma nell’insieme caratterizzati dalla staticità. Disegno artificiale è l’espressione con cui si possono accorpare le arti visive più recenti: fotografia, cinematografia, videografia, disegno di sintesi digitale, contraddistinte dal progressivo affermarsi della dinamicità e della polisensorialità, tratti questi ultimi prepotentemente caratterizzanti le esperienze di un presente che appare sempre più esteso.
In questo rinnovato approccio alla visualità intenzionale, che si condensa nel termine esteso di grafia, quale fenomeno tanto al fondo unitario, quanto dialetticamente irradiato, si possono suggerire soltanto en passant alcuni dei nodi problematici più significativi, quali: a) l’articolato percorso che si dipana dalle chirografie alle tipografie, fino all’irruzione del digital, nel campo delle scritture, in primis alfabetiche (almeno per gli occidentali), con il fenomeno ultimo della rete globale, ossia la nascita, prima dei siti nel web e, oggi, della scrittura infinita dei blog, con una intensificazione senza precedenti dal principio del secolo; b) il succedersi e affinarsi nei secoli dei formati, dei proporzionamenti e dell’organizzazione dello sfondo/supporto materiale (soft: papiro, pergamena, carta, monitor e così via; hard: metalli, materiali lapidei e ogni edificazione in genere), in rapporto ai grafismi tutti, sia lettere sia disegni, che vi sono campiti da strumenti, metodiche e tecniche di impressione altamente specifiche; c) la dialettica tra artefatti elitari e forme diffuse della cultura materiale, che esprime il peculiare dialogo tra l’autonomia delle ricerche artistiche e l’evoluzione del gusto comune; d) la fenomenologia, infine, delle grafie tutte in rapporto alle ragioni/condizioni di riproducibilità tecnica, che potrebbe meglio chiarire i confini e i fini delle arti, giacché, per es., nel corso del secolo passato si è venuto sempre più chiarendo come un enorme settore di produzione immaginale (di fatto, trascurata o, al meglio, guardata con sospetto e sufficienza dalla storia dell’arte tradizionale), di straordinario rilievo nella civilizzazione attuale, sia costituito dagli artefatti intrinsecamente concepiti per la replicazione, al polo opposto della tradizionale aura di ogni unicum. Converrà ora soffermarci sul principale fenomeno delle grafie nel nuovo secolo: la rete globale.
Irretiti dalla rete
È accaduto in pochi anni, con moto fulmineo, ma era successo così anche per il libro stampato con caratteri mobili, alla metà del 15° sec.; e già allora per aver contezza di quel che stava accadendo ci vollero decenni. Non si trattava solo di rifare e contraffare abilmente il manoscritto con mani meccaniche, con la scrittura artificiale, e aumentare sia produttività sia profitti con la teutonica innovazione, ma al proto-tipografo degli incunabola si può credere che, forse, di ciò poco gliene importava, al momento. Forse si dovrebbe saper attendere e meditare con maggiore cautela, per capire meglio quanto accade nell’inter-rete e quale ne sarà una possibile ecologia, osservandone la genesi in evoluzione; liberandosi dall’ossessione dell’immediato, per arrampicarsi nella trama del web senza restarvi invischiati; attenuando la pressione desertificante del presente, quella temibile incombente presentificazione dell’informazione tutta, che dissolve il passato (memorabile e documentabile) e annulla il futuro (immaginabile e progettabile) in un breve orizzonte piatto. Questa porzione della rete globale, che è il reticolo sempre interconnesso del web, ha suscitato grandi attese e messianiche profezie, anche di esiti vari (libro incluso) e democrazie rinnovellate, puntualmente disattendendole; così come era successo con il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione e altro ancora.
Ha fatto credere a occhi ingenui che taluni fenomeni fossero nuovi: come nel caso della ascii art (consistente in immagini prodotte componendo i caratteri ASCII), che già si praticava con le macchine da scrivere, o degli emoticons, sorta di decodifica aberrante (secondo la semiologia classica) delle lettere alfabetiche, o delle condensazioni verbali degli SMS (Short Message Service), palese ritorno delle abbreviature del manoscritto librario dei copisti medievali; e ha anche illuso che tutto sia esprimibile cum figuris, donde una inflazione di icone e iconcine, pittogrammi e avatar, quando è ben noto che senza didascalie (seppur mentali) le immagini sono più che costitutivamente ambigue in sé. Il web, peraltro, ha promesso ipertesto e ha prodotto ipermercato; ha strizzato l’occhio all’immateriale e ha partorito succedanei scadenti alle cose e altrettanti cattivi sostituti visuali; ha fatto sperare in interazioni e ha costruito patrimoni mirabolanti in azioni. Ma si sa, le contabilità e le registrazioni mercantili sono tra le più forti motivazioni che hanno presieduto alle origini delle scritture, alcuni millenni prima dell’era cristiana, in tutte le società disegualitarie e strutturate verticalmente, come la nostra predominante attuale. E anche il computer si chiama così perché, non a caso, quel tutto di cui si scrive è numerizzato in bit, come Gottfried Wilhelm von Leibniz sognava elaborando le idee sulla mathesis universalis – scientia generalis del pensiero europeo del Cinquecento e di René Descartes – e discettando per primo in Occidente di un sistema posizionale binario. Le ‘chiacchiere’ senza fine sulla immaterialità, debordate in poetiche vaghezze su una supposta, mal dimostrata postmodernità iperdiffusa, hanno lasciato il tempo che hanno trovato, distraendo infine dalla materiale costituzione fisica di questa formidabile protesi intellettuale che è l’inter-rete: tecnologia, certo, invisibile all’utente, ma non di meno fatta di materia ingombrante e caduca, a suo modo.
Si dice che in rete c’è tutto; ma anche il contrario di tutto. Un tutto che è un sempre di più: è un esponenziale accumulo di utile e inutile, schegge e scorie, cibo e detriti, nutrimento e spazzatura, un’immane discarica e un magazzino sconfinato, a immagine e somiglianza della civilizzazione che l’ha prodotta (poteva essere altrimenti?), da cui si può pescare il buono e il cattivo e l’indistinto. Ma non si sa come trovarlo, se non si sa già dov’è e non vengono in aiuto indici che solo molto parzialmente indicano. Il sapere, per dirla in breve, irretito dalle sue stesse lusinghe, si avviluppa e si avvolge in nuove spire. La biblioteca della rete è babelica, il labirinto il suo emblema di perdita del centro, il meandro la sua figura frattale di dispositivo caotico. Tutto sembra nuovo e tutto poggia sull’antico, come finora è sempre accaduto con il costituirsi nel tempo di altri media, in questa innervazione dislocata a dismisura di luoghi di formazione, conservazione, distribuzione e diffusione di informazioni d’ogni sorta. Tanto parlare di nuova civiltà delle immagini e poi? All’immenso effimero epistolario dell’umanità connessa (si pensi soprattutto, ma non solo, alle e-mail) si affianca da un po’ di tempo un altro rigoglioso rifiorire (ma era mai veramente sfiorita?) della scrittura condivisa, con il fenomeno on-line dei blog. Peraltro, non è il web, in sé, tutto e soltanto una grafia, sia nella profondità tecnica (protocolli, brows-er, html, css, php, simili e derivati), sia nella superficie apparente? Come sostiene la massima tedesca cara alle avanguardie artistiche, «Nur der Schein trügt nicht», solo l’apparenza non è illusoria.
Block + blob = blog?
Il blog è nel web; è una forma del suo contenuto innumero. Nel web non succedeva niente di nuovo da tempo (relativamente alla sua età, si intenda), se non il crescere (ancora in progressione geometrica) delle pagine ‘irretite’, vive o morte, finché non sono esplosi i blog, sulla soglia del nuovo secolo. Il blog non è altro che un modo semplice (non si deve saperne di html e css, ftp e server per upload, database, query o content-manager systems, in linea di principio) di pubblicare nel web – il resto conta meno – e questa semplicità è la ragione del suo successo; quanto di filosofeggiante si può leggere in libri e libercoli appare perlopiù fantasmagorico e quasi di impaccio. Occorre ammetterlo: non si sa bene che cos’è un blog e non lo sa nessuno. Correttamente, la netiquette, il galateo del net, suggerisce di non parlare dei blog nei blog; ma questo testo non è un blog. Filologia a parte (sull’etimologia di weblog e dintorni), parafrasando una fulminea definizione di architettura (un lapsus tra lapide e lapis) di Adolfo Natalini, si può azzardare che il blog sia un lapsus tra block(notes) e blob, in generale.
Un tipo di blog, che verrebbe da credere sia il blog archetipo, ha la struttura del diario, antica forma di autocoscienza oggettivata, di gran voga tra le dame del Settecento e poi nei solitari furori romantici; seppur sui generis, per l’implicito esibizionismo e il conseguente voyeurismo che suscita notevole attrazione in una società di crescente ma anonima perdita del pudore, il blog-diario parrebbe la forma infatti più diffusa e scatenante di questa pandemia scrittoria. Davvero, pare poco interessante sbirciare quelle pagine pseudointimiste e intrise di fatti personali, salvo alcune lodevoli eccezioni; ma ai sociologi (di massa e della comunicazione) piacciono molto.
In realtà, il blog non esiste, come non esiste l’uomo ma gli uomini, gli individui. Forse sarebbe meglio dire che gli individui, singoli blog, non sono che fenotipi del genotipo blog. Con ogni probabilità, una ‘blogenetica’ prossima ventura aiuterà a capire meglio il fenomeno, per affrontare con superiore cognizione di causa il ‘multiverso’ delle grafie e strutturare degnamente, in sede scientifica, l’ipotesi stessa della neografia.
Bibliografia
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D. Kline, D. Burstein, Blog! How the newest media revolution is changing politics business and culture, New York 2005 (trad. it. Milano 2006).
Uses of blogs, ed. A. Bruns, J. Jacobs, New York 2006.
E. Ringmar, A blogger’s manifesto. Free speech and censorship in the age of the Internet, London 2007.