neologismi
Il termine neologismo giunse in Italia dalla Francia, dove néologisme, formato non più tardi del 1735 su elementi del greco classico significanti «nuova parola», completati dal suffisso -isme (it. -ismo), per indicare (in concorrenza con néologie) la propensione all’invenzione lessicale, era presto passato anche a indicare la stessa «parola nuova». Il calco italiano apparve nel dizionario francese-italiano di Francesco D’Alberti di Villanuova (1771), soltanto nella prima accezione (rappresentata anche da neologia, cui si affianca l’aggettivo derivato neologico), mentre i due significati convivono nel Saggio sopra la lingua italiana di ➔ Melchiorre Cesarotti (1785). La distinzione fu chiarita nel Dizionario di ➔ Niccolò Tommaseo (1861-1879), dove neologia è «abito e modo dell’usar nuove voci non usitate nel comune linguaggio. Così distinguerebbesi la Neologia dal Neologismo, la voce stessa o il modo nuovo, considerato da sé ne’ singoli casi».
Se si escludono le parole discese per tradizione ininterrotta dal latino ai volgari e all’italiano (circa duemila in ciascuna lingua romanza; ➔ lessico), tutto il lessico restante è o è stato neologismo (o neologia), a cominciare dalle voci latine adattate nelle opere dantesche, e proseguendo coi ➔ cultismi (anche di matrice greca) di giuristi e teologi medievali, di umanisti, filosofi e scienziati tra Rinascimento ed età moderna, per finire con la creazione vorticosa di termini favorita, negli ultimi due secoli, dai moderni mezzi di comunicazione.
L’impostazione letteraria della nostra lessicografia ha ritardato l’accoglimento nei vocabolari di parole coniate dopo l’«aureo Trecento»: Alessandro Tassoni lamentò l’assenza, nella prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612; ➔ accademie nella storia della lingua), di esagerare, intruso, presidiato, vagire, ecc. Ancora due secoli dopo, mentre ➔ Vincenzo Monti rimproverava alla quarta edizione della Crusca la disattenzione prestata a parole-simbolo delle nuove scienze (botanica, ottica, psicologia, ecc.), ➔ Giacomo Leopardi dovette fronteggiare l’accusa di aver introdotto parole ‘non autorizzate’, come erompere, fratricida, improbo, incombere (1824; e il Tommaseo lo svillaneggiò da morto per aver usato procombere).
La creazione di un neologismo (il processo che Migliorini propose di chiamare onomaturgia; ➔ parole d’autore) può consistere in una neosemia, cioè un intervento sul significato di parole già esistenti, oppure nello sfruttare le possibilità concesse dalla morfologia derivativa, per es., mediante l’aggiunta di un affisso o confisso a una base nota: per citare poche modalità, si pensi agli aggettivi derivabili da un nome proprio mediante i suffissi -iano o -esco, ai nomi desumibili dallo stesso nome con l’aggiunta di -ismo o -erìa o del suffissoide -(o)logìa, e ancora con l’anteposizione di non- o anti-; o ai verbi ottenibili coi suffissi -izzare o -eggiare.
Ma il passaggio dal conio d’occasione (ristretto all’oralità o alla scrittura individuale) a una certa accettazione sociale, e ancor più dallo status di neologismo d’uso incipiente a quello di componente stabile del lessico comune, soggiace a varie condizioni: la rispondenza alle regole fono-morfologiche della lingua (che entra in gioco specialmente nell’ammissione dei ➔ forestierismi); l’avvertita e perdurante ‘necessità’ di una parola nuova per una nuova scoperta o invenzione o per un concetto definito da poco; quanto meno, il favore del pubblico verso un termine giudicato più efficace di altro già esistente nella stessa area semantica.
I settori tecnico-scientifici, come pure l’ambiente politico, sono una fucina di novità e conseguenti nuove parole: ma, per es., il nome di una malattia o di un farmaco o di un nuovo sistema elettorale possono divenire di dominio pubblico, e ricevere la sanzione dell’accoglienza su un dizionario, solo se la collettività viene a contatto con essi (si possono citare, tra i più recenti, l’influenza aviaria e la suina, l’H1N1 e la RU-486, le primarie o il premierato).
Scrittori e scienziati, uomini di chiesa e burocrati (comprendendo nella categoria gli intermediari in genere tra il potere e il popolo, dai notai ai cancellieri agli estensori di gride e leggi) sono stati i principali innovatori del lessico fino al XVIII secolo. A partire da quell’epoca l’azione neologica ha cominciato a essere esercitata soprattutto dai giornalisti, tanto i compilatori delle riviste letterarie, che si incaricavano di diffondere verso il basso le nuove idee e scoperte, quanto, e in misura crescente fino a quasi tutto il XX secolo, i redattori di quotidiani e settimanali. A contatto sia con le classi dirigenti nazionali sia coi flussi di notizie provenienti dall’estero, i giornalisti hanno trasmesso al pubblico concetti e parole nuove, spesso trasportate o derivate da lingue straniere, contribuendo al loro attecchimento a onta delle rimostranze della parte più acculturata e tradizionalista dei lettori. Anche per questo i repertori di neologismi, specialmente dal secondo Novecento, derivano in prevalenza dai giornali (➔ giornali, lingua dei).
Ma, con l’avvento dei media parlati (radio e cinema sonoro tra le due guerre, televisione dagli anni Cinquanta), e soprattutto con l’esplosione delle radio e tv private nell’ultimo quarto del secolo scorso, l’oralità trasmessa ha preso il sopravvento sulle altre forme di comunicazione e creatività linguistica (➔ cinema e lingua; ➔ Internet, lingua di; ➔ lingua e media; ➔ televisione e lingua; ➔ radio e lingua). Come effetto dell’accesso a microfoni e video, e in genere alla scena pubblica, di parlanti sempre meno colti, la neologia si è fatta meno sorvegliata, e tributaria spesso di termini dialettali (dall’inciucio al che ci azzecca?), talora gergali e volgari, cui si indulge sia per ignoranza sia per volontà mimetica. Un’altra spinta neologica viene da Internet: le liste di discussione, i forum, i blog consentono a chiunque di intervenire diffondendo il proprio parlato (cfr. Petralli 1996; ➔ posta elettronica, lingua della).
Piuttosto rara una coniazione dal nulla (parole totalmente di fantasia, come i nomi dei personaggi delle Cosmicomiche o di Ti con zero di Italo Calvino), o da un’onomatopea (il ciak cinematografico, ma anteriormente ciac o ciacche per il frangersi delle onde): in genere si tratta di creazioni occasionali, che trovano talora spazio nei dizionari solo a scopi di documentazione letteraria, ma di cui è ben difficile stabilire l’‘atto di nascita’.
Per es., l’ultima parola dei vocabolari, che ha soppiantato il celeberrimo zuzzurellone, è zzz, introdotta dal dizionario Zingarelli nel 1970, poi documentata dal Grande dizionario della lingua italiana (GDLI) in almeno tre accezioni diverse (una delle quali reperita in Fenoglio, prima del 1963), ma che era stata messa per iscritto (con due z) già da Cesare Cantù nel 1838 quale equivalente di sst! (che a sua volta fu introdotto nei Promessi sposi 1827, scritto st, ma era già comparso come ist nella commedia alfieriana Il divorzio). È evidente che tali onomatopee circolavano nell’oralità e non furono ‘inventate’ da un autore (➔ onomatopee e fonosimbolismo); uno spoglio di documenti non letterari vicini al parlato probabilmente ne offrirebbe esempi anteriori.
Oggi, la fonte più vistosa di neologismi sono i ➔ prestiti, solitamente accomunati alle neoformazioni endogene sia dal biasimo dei puristi sia dalla trattatistica recente (cfr., per es., Scotti Morgana 1981: 39-53; Adamo & Della Valle 2008; ➔ neopurismo). A rigore, anche i ➔ latinismi e ➔ grecismi introdotti in italiano tra medioevo ed età moderna sono forme prelevate da lingue estranee (la qual cosa risulta più evidente per termini che conservano la veste originaria, come par condicio, ictus o pathos, mentre altri latinismi, come repulisti, lavabo, a priori, si mimetizzano più facilmente).
Possono ugualmente considerarsi prestiti le parole o modi attinti ai dialetti, che pur avendo un’origine comune all’italiano (come, del resto, le altre lingue romanze), sono stati elaborati in culture diverse e politicamente disgiunte, fino all’Unità o anche dopo (➔ dialettismi): cannolo e cannolicchio, le esclamazioni ostrega, ammappete, mannaggia. Per questa categoria si ricorre alla denominazione di prestito interno, applicata anche ai prelievi dalle lingue speciali. L’accoglimento nella lingua comune di un elemento di sottocodice può avvenire mantenendo il significato originario, cioè semplicemente portando alla conoscenza collettiva tecnicismi già noti agli specialisti, oppure conferendo al termine settoriale valori traslati, sia in altre lingue speciali sia nell’italiano comune (atmosfera, sdoganare, moviola, alzare l’asticella).
I prelievi da altre lingue sono soggetti ad ➔ adattamento fono-morfologico, sia per eliminare fonemi estranei sia per inserire i nuovi elementi in classi già esistenti (declinazioni o coniugazioni): tipica è l’aggiunta di una vocale finale a parola che termina in consonante, o di una desinenza verbale italiana a una radice straniera o espressiva (crossare, sniffare); ma si è ricorsi anche, per es., all’assimilazione consonantica (tassì e tassista / tassinaro da taxi). Il procedimento è meno comune oggi, quando una migliorata conoscenza delle lingue e l’affievolirsi dell’impronta fiorentina sull’italiano inducono a restare più vicini alla forma originaria (meeting o alpenstock, non più mitinghe o pistocco; ’ndrangheta, cumenda, senatùr; i suffissi -aro e -arolo anziché -aio e -aiuolo, e una certa prevalenza attuale dei tipi birraria e hostaria sui fiorentineggianti bruschetteria e cioccolateria).
Da un lessema nuovo (forestiero, dialettale, settoriale) si possono ottenere derivati e composti (neologismi sintattici o di combinazione): sono stati già esemplificati taluni suffissi di largo uso, cui se ne possono aggiungere altri (come -ale o -izzare) la cui proliferazione è favorita da analoghi elementi inglesi. A questi l’italiano aggiunge la tradizionale ricchezza di suffissi apprezzativi, grazie a cui sono nati, in epoche diverse, decretone, yuppetto, indultino, manovrina; gli alterati possono anche lessicalizzarsi, cioè designare referenti diversi da quelli indicati dalla forma primitiva (telefonino, scarpette o scarpini da sport; ➔ lessicalizzazione).
Largamente sfruttato, e deplorato dai puristi, il cumulo di suffissi del tipo posizionare o istituzionalizzazione (cfr. Fochi 1966: 118-124): si pensi a scansionare e scannerizzare in luogo di scandire. Comune alle lingue moderne è il largo impiego dei confissi (quelli che Migliorini battezzò ➔ prefissoidi e ➔ suffissoidi; cfr. Migliorini 1990), ovvero ‘semiparole’ dotate di significato, inizialmente usate in composti neoclassici (➔ composizione; ➔ elementi formativi), poi rese disponibili per la fusione con altri lessemi, anche moderni. I nuovi composti divengono talora distinguibili anche per l’evoluzione semantica del confisso: si confrontino telelavoro e teleutente, autostima e autolavaggio; -poli con valore di «città» in baraccopoli, poi per designare, a partire da tangentopoli, uno scandalo pubblico o la relativa inchiesta.
Anche il ricorso a prefissi accomuna l’italiano alle altre lingue: tra i più frequenti oggi, ricordiamo dopo- e post-, anti- e contro- , non-, dis- e s- negativo (sbattezzare e sbattezzo). L’aggiunta simultanea di un prefisso e una desinenza permette di ottenere i cosiddetti ➔ parasintetici, solitamente verbi da nomi (imbufalire, denuclearizzare, spacchettare), ma anche nomi da verbi o da altri nomi (denatalizzazione, collateralismo, sfegatato). Queste neoformazioni rispondono a esigenze di economia, allo stesso modo dei sostantivi derivati da verbi senza l’aggiunta dei tradizionali suffissi (modifica, riciclo, pernotto invece di modificazione, riciclaggio, pernottamento): tale tendenza è in genere attribuita alla lingua burocratica (➔ burocratese).
Un avvio alla nascita di parole nuove è la composizione, ottenuta sia mediante l’accostamento di due nomi o di un nome e un aggettivo (pasta party, opzione zero, funzione pubblica) sia con la combinazione di più elementi (fermata a richiesta, pillola del giorno dopo, otto per mille): tali unità lessicali superiori (dette anche polirematiche; ➔ polirematiche, parole) possono stabilizzarsi, presentandosi talvolta come parola unica anche nella scrittura (➔ univerbazione). Questo espediente grafico è usuale nelle composizioni verbo + nome (acchiappafantasmi, calco dell’ingl. ghostbuster; salvavita, contapassi) o di aggettivo + aggettivo (sordocieco, giallorosa). Ugualmente, la fusione grafica si presenta nei composti dove il primo elemento sia ridotto, come per effetto di un ‘tamponamento’ (fantapolitica, ristobar, infopoint: sono le cosiddette ➔ parole macedonia), secondo un procedimento affine a quello della confissazione.
Meno percepibile è il neologismo semantico, ottenuto tramite allargamento o specializzazione dei significati già presenti in una parola. In particolare, la tecnificazione di parole comuni è spesso usata nei ➔ linguaggi settoriali, da termini di ➔ Galileo Galilei come momento o pendolo, ai significati sportivi di allungo, rete, rigore, generalmente ricalcati dall’inglese. Tra le voci entrate nell’uso comune negli ultimi decenni con estensione metaforica, citiamo i santuari della mafia, il sito web e la relativa navigazione, la chiocciola dell’indirizzo e-mail, il campo elettromagnetico utilizzabile dal telefono mobile, la forbice o forchetta delle statistiche. Affine è l’impiego ellittico di un aggettivo sostantivato (la complanare, il passante ferroviario; ➔ sostantivato, aggettivo).
Ristretti all’uso giornalistico e al cosiddetto politichese (➔ politica, linguaggio della) sono formazioni metonimiche come l’indicazione del luogo anziché dell’istituzione che vi opera (il Quirinale o il Colle per la presidenza della Repubblica, Mirafiori o il Lingotto per la Fiat), o l’impiego per sineddoche di un particolare a designare l’intero (tute blu «gli operai»; black bloc e tute bianche per i «disobbedienti»). Spesso il mutamento semantico è dettato da eufemismo o ‘correttezza politica’ (paese in via di sviluppo, non vedente, operatore ecologico, terza età; ➔ politically correct; ➔ tabu linguistico). L’estensione può essere mutuata dal gergo: pizzo e pizzino (di origine dialettale) della mafia, cuccare o segare dall’ambiente giovanile studentesco, da dove anche i modi bersi, essere fuori o sclerare (entrambi nel senso di «non ragionare») o fumarsi il cervello.
Le prime raccolte sistematiche, generalmente con intenti puristici, apparvero a Milano nel 1812 in conseguenza dell’applicazione in Italia della legislazione napoleonica (➔ dizionario): l’Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono ne’ vocabolarj italiani di Giuseppe Bernardoni e il più tollerante Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del sig. Bernardoni di Giovanni Gherardini.
Su una linea liberale si collocò anche Prospero Viani col Dizionario di pretesi francesismi e di pretese voci e forme erronee della lingua italiana (1858-1860); mentre sotto la bandiera del misoneismo si pose la maggior parte degli altri repertori, tra cui il Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso di Filippo Ugolini (1848, 18714), indi Nuovo vocabolario di parole e modi errati del figlio Vittorio (1889). Il secolo si chiuse con Il lessico della corrotta italianità di P. Fanfani e C. Arlia (1877; dalla seconda ed. intitolato Lessico dell’infima e corrotta italianità), giunto alla quinta edizione nel 1907, e col fortunato I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno di Giuseppe Rigutini (1886), con l’ultima edizione accresciuta e curata da Giulio Cappuccini nel 1926.
Nel 1905 uscì il Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari italiani di Alfredo Panzini, che fece prevalere sull’inclinazione puristica la volontà di registrare qualunque termine o locuzione si affacciasse alla ribalta. L’opera ebbe sette edizioni, con profondi rimaneggiamenti, fino al 1935; dopo la morte di Panzini (1939), Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini trassero dalle carte d’autore un’ottava edizione (1942), che rimase definitiva, con la giunta però di un’Appendice curata da Migliorini, che nella decima edizione (1963, anche a sé come Parole nuove) raggiunse i dodicimila lemmi.
La raccolta di Migliorini, sorretta da un’ineguagliabile competenza in fatto di lingua e lessicografia, instaurò fra l’altro il criterio dell’uso incipiente come condizione per l’accoglimento di voci altrimenti classificabili come occasionali: criterio che avrebbe fatto da guida, perlomeno dichiarata, delle migliori pubblicazioni successive (➔ neopurismo). Le due edizioni del Dizionario di parole nuove di Manlio Cortelazzo e Ugo Cardinale (1986, 1989) si presentano programmaticamente come la continuazione delle Parole nuove miglioriniane, colmando lo spazio tra il 1964 e il 1987; dal 1945, visto giustamente come anno d’inizio di un forte rinnovamento nel lessico (specie politico e tecnologico), muove il massiccio e documentato Dizionario del nuovo italiano di Claudio Quarantotto (1987; aggiornamento col Dizionario delle parole nuovissime, 2001).
Nell’officina del dizionario Devoto-Oli sono nate le due compilazioni di Andrea Bencini ed Eugenia Citernesi, Parole degli anni Novanta (1992), poi di Bencini e Beatrice Manetti, Le parole dell’Italia che cambia (2005); mentre fungono da appendici, soprattutto neologistiche, al Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro i due tomi di Nuove parole italiane dell’uso (2003 e 2007; rifusi col dizionario nel Supporto digitale in commercio nel 2007). Infine, nell’Istituto del Lessico intellettuale europeo, col suo Osservatorio neologico della lingua italiana di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, sono stati elaborati i Neologismi quotidiani (2003; se ne può considerare un supplemento 2006 parole nuove, 2005), e da ultimo Neologismi (2008): sono le raccolte più voluminose mai uscite, per un complesso di oltre duemila pagine, fondate su uno spoglio dei quotidiani da cui, fatalmente, provengono molti occasionalismi mai entrati nell’uso.
Un approccio pienamente scientifico alla neologia è venuto in Italia, come detto, con Migliorini e i suoi studi (confluiti in Lingua contemporanea, del 1938, e nei Saggi sulla lingua del Novecento del 1941), più volte aggiornati (ora in Migliorini 1990) e integrati da nuovi scritti. Va segnalato il ruolo della rivista miglioriniana «Lingua Nostra», fondata nel 1939 e tuttora in vita, attenta alla contemporaneità, anche con intenti propositivi. La formazione delle parole nell’italiano d’oggi (1978) è solo la prima delle monografie dedicate da Maurizio Dardano alle problematiche svolte in questa voce; tra i numerosi altri contributi si segnala infine Costruire parole. La morfologia derivativa dell’italiano (2009). Dopo il sistematico Scotti Morgana (1981), i principali saggi sul fenomeno neologico sono apparsi in premessa alle raccolte di parole nuove: si aggiunga la menzione di D’Achille (1991), che grazie a un più accurato scavo da materiali e studi sul lessico novecentesco ridimensiona la presunta maggiore creatività dell’italiano fin-de-siècle rispetto alle epoche precedenti.
Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2003), Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio, 1998-2003, Firenze, Olschki.
Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2008), Neologismi. Parole nuove dai giornali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
D’Achille, Paolo (1991), Sui neologismi. Memoria del parlante e diacronia del presente, «Studi di lessicografia italiana» 11, pp. 269-322.
Fochi, Franco (1966), Lingua in rivoluzione. Saggio, Milano, Feltrinelli.
Migliorini, Bruno (1963), Parole nuove. Appendice di dodicimila voci al “Dizionario moderno” di Alfredo Panzini, Milano, Hoepli.
Migliorini, Bruno (1990), La lingua italiana del Novecento, a cura di M.L. Fanfani, con un saggio introduttivo di G. Ghinassi, Firenze, Le Lettere.
Petralli, Alessio (1996), Neologismi e nuovi media. Verso la globalizzazione multimediale della comunicazione?, Bologna, CLUEB.
Scotti Morgana, Silvia (1981), Le parole nuove, Bologna, Zanichelli.