Neurodegenerazione
La morte dei neuroni
Le malattie neurodegenerative
di Carlo Caltagirone
20 aprile
Viene inaugurato a Roma alla presenza del presidente Carlo Azeglio Ciampi il Centro europeo per la ricerca sul cervello, nato da un'idea del premio Nobel Rita Levi Montalcini e a cui partecipano la Fondazione Santa Lucia, il CNR e l'EBRI (European brain research institute). Il CERC sarà finalizzato allo studio di terapie per le malattie neurodegenerative, delle quali si registra in Italia e in tutto il mondo occidentale un'incidenza crescente.
Inquadramento nosografico
Le malattie neurodegenerative rappresentano un insieme eterogeneo di entità nosografiche distinte, accomunate tra loro da alcune caratteristiche patogenetiche e cliniche. Dal punto di vista della patogenesi, sono caratterizzate da un processo cronico e selettivo di morte cellulare a carico dei neuroni. L'eziologia esatta alla base di questo processo patogenetico non è ancora definita. Benché in qualche caso sporadico siano state individuate alcune mutazioni genetiche responsabili dello sviluppo di malattia in famiglie affette da alcune patologie degenerative, nell'eziopatogenesi della maggior parte di esse numerosi fattori di rischio, di origine sia genetica sia ambientale, sembrano giocare un ruolo fondamentale.
La progressiva degenerazione, che precede di alcuni anni la comparsa dei sintomi, riguarda, almeno nella fase iniziale, una determinata popolazione di neuroni. Successivamente, nel corso della malattia, altri sistemi neuronali possono essere danneggiati. Da un punto di vista clinico, quindi, le malattie neurodegenerative esordiscono in maniera insidiosa, generalmente nell'età adulta, e hanno un decorso progressivo e inesorabile che culmina in una grave disabilità, cui segue spesso il decesso del paziente.
Sebbene nelle fasi di esordio possano assumere un carattere focale, queste patologie in genere colpiscono bilateralmente uno specifico sistema neuronale, dando luogo a una sintomatologia clinica estremamente variegata. Infatti, il deterioramento neuronale è causa di un irreversibile quanto inevitabile danno delle funzioni cerebrali che si manifesta, a seconda del tipo di malattia, con deficit cognitivi, demenza, alterazioni motorie e disturbi comportamentali e psicologici, più o meno gravi.
La definizione e la classificazione delle malattie neurodegenerative, a causa della sovrapposizione della sintomatologia e qualche volta anche della condivisione di alcune fasi del processo patogenetico, continuano a essere argomento di un acceso dibattito medico-scientifico. Tuttavia attualmente si può dire che sotto questo nome vengono raggruppate diverse entità cliniche ben definite, delle quali le più note sono la malattia di Alzheimer e il morbo di Parkinson. Le altre principali malattie neurodegenerative sono il morbo di Huntington, la sclerosi laterale amiotrofica, la paralisi sopranucleare progressiva, la demenza frontotemporale e la demenza a corpi di Lewy.
Da un punto di vista terapeutico, sebbene per alcune di queste patologie si disponga di strumenti in grado di ritardare o controllare, in modo più o meno efficace, la sintomatologia clinica, esse rimangono tuttora malattie inguaribili. Nonostante i notevoli progressi compiuti negli ultimi anni dalla ricerca biomedica, infatti, non esiste ancora nessun intervento terapeutico che si sia dimostrato capace di far regredire o di arrestare il processo patologico alla base di tali disturbi. Tale situazione dipende in gran parte dal fatto che sono ancora poco conosciuti i meccanismi cellulari e molecolari alla base del danno neuronale che si osserva nelle diverse malattie neurodegenerative.
La malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer, denominata anche demenza di Alzheimer, è la più comune tra le patologie neurodegenerative. È caratterizzata da degenerazione cerebrale associata a un declino progressivo e globale delle funzioni cognitive e intellettuali.
Il processo degenerativo solitamente coinvolge nelle fasi iniziali alcune aree del lobo temporale mesiale, come la corteccia entorinale e l'ippocampo, per interessare successivamente la corteccia cerebrale in maniera diffusa.
Benché ne esista anche una forma a insorgenza precoce, molto più rara, la malattia di Alzheimer colpisce prevalentemente i soggetti in età avanzata e rappresenta la causa più frequente di demenza senile, pari da sola al 50-60% dei casi. Alcuni dati relativi alla prevalenza della demenza senile, riportati da studi condotti in vari paesi industrializzati, indicano tassi abbastanza comparabili, che oscillano tra il 5 e il 10% nei soggetti di età superiore ai 65 anni. Nei soggetti di età compresa tra i 65 e gli 85 anni la prevalenza raddoppia approssimativamente ogni 5 anni di età e a 85 anni, in Europa, raggiunge un tasso superiore al 24%. Ovviamente la situazione è particolarmente grave nei paesi industrializzati, per i quali è evidente la relazione tra l'incidenza di demenza e l'invecchiamento della popolazione. Si stima che in tutto il mondo siano colpite da questa patologia almeno 15 milioni di persone, di cui oltre tre milioni in Europa, con un'incidenza di nuovi casi di circa 800.000 l'anno. Per quanto riguarda l'Italia, le ultime stime di prevalenza della demenza mostrano che essa colpisce il 9% degli ultrasessantacinquenni; a conti fatti, si può quindi affermare che attualmente in Italia i malati di Alzheimer sono tra i 430.000 e i 450.000.
Da un punto di vista clinico la caratteristica macroscopica più evidente della malattia di Alzheimer è la marcata atrofia a livello cerebrale, che determina un'aumentata ampiezza dei solchi cerebrali e un incremento del volume ventricolare. Alterazioni istologiche caratteristiche, anche se non patognomoniche, sono le placche senili o neuritiche - costituite dall'aggregazione di una proteina extracellullare denominata b-amiloide - e i grovigli neurofibrillari intracellulari, principalmente formati da proteina Tau fosforilata in maniera abnorme. È generalmente accettato che la produzione di peptide amiloide e il suo accumulo mostrino una correlazione diretta con l'insorgenza di malattia. L'accumulo di b-amiloide può infatti generare disfunzione sinaptica e indurre la morte neuronale, con conseguente demenza. Il peptide Ab deriva da un precursore a più ampio peso molecolare, definito proteina precursore di amiloide (APP). Questa è una proteina integrale di membrana che viene scissa a opera di diversi enzimi, rispettivamente a-, b- e c-secretasi. L'azione concertata di b- e c-secretasi dà origine al rilascio del peptide amiloidogenico (patogeno) Ab, mentre l'a-secretasi rappresenta l'attore principale del processo metabolico fisiologico di APP. Le due vie metaboliche di APP si differenziano non solo per gli enzimi implicati, ma anche per una loro differente localizzazione subcellulare. L'attività di b-secretasi è a livello del reticolo endoplasmatico e del reticolo di Golgi, mentre l'a-secretasi agisce a livello della membrana plasmatica. Tale dato è di rilievo dal punto di vista farmacologico, poiché potenzialmente le molecole che potranno aumentare la disponibilità di a-secretasi alla membrana saranno in grado di spostare il metabolismo di APP verso la via non amiloidogenica.
Sintomatologia e diagnosi
La malattia di Alzheimer è caratterizzata clinicamente da un deterioramento cognitivo ingravescente, in cui riveste primaria importanza il deficit di memoria. A ciò si associano sintomi comportamentali e psichici, quali depressione, agitazione e psicosi, che portano inevitabilmente il soggetto a una significativa riduzione della capacità di svolgere le comuni attività della vita quotidiana. L'esordio è insidioso e subdolo, con deficit cognitivi lievi e alterazioni comportamentali e di personalità spesso attribuiti a modificazioni legate alla senescenza. L'età d'esordio e la velocità di progressione variano moltissimo da individuo a individuo e ciò rende difficile esprimere un giudizio prognostico, anche se solitamente le forme a insorgenza precoce hanno un decorso più rapido. Nella fase iniziale il soggetto richiede solo una supervisione da parte dei familiari, nella fase moderata e soprattutto in quella grave diventa completamente non autosufficiente e necessita di assistenza continua.
La diagnosi di certezza può essere raggiunta esclusivamente in presenza del reperto istopatologico e pertanto è possibile soltanto dopo la morte del paziente. Attualmente mancano infatti marcatori biologici e/o strumentali sufficientemente sensibili e specifici, per cui la diagnosi di demenza si effettua ancora su base clinica. Tra i criteri per la diagnosi, quelli forniti dall'Associazione americana di psichiatria, dall'Organizzazione mondiale della sanità e dal NINCDS-ADRDA (National institute of neurological and communicative diseases and stroke-Alzheimer's disease and related disorders association) sono i più utilizzati. I nodi fondamentali che vengono direttamente coinvolti nella diagnosi di demenza, e che devono essere pertanto attentamente valutati, possono essere sintetizzati in tre punti principali: capacità funzionali, capacità cognitive e comportamento.
La valutazione delle capacità funzionali, che può essere indagata informalmente ma più spesso fa uso di scale di valutazione standardizzate, si riferisce alla capacità del soggetto di essere autonomo, cioè indaga la sua capacità di gestire le azioni del vivere quotidiano. Normalmente vengono utilizzate le misure di ADL (Activity of daily living) e IADL (Instrumental activity of daily living).
La valutazione delle capacità cognitive deve necessariamente essere eseguita tramite strumenti strutturati e standardizzati. Bisogna tenere sempre presente che gli strumenti di indagine non approfondita (chiamati test di screening), come il MMSE (Mini mental state examination), devono essere utilizzati per la valutazione globale delle capacità cognitive e per fornire indicazioni solo preliminari su aree potenzialmente deficitarie, da valutare poi in modo più appropriato; infatti questi strumenti da soli non permettono la diagnosi. Ogni paziente al momento della prima diagnosi dovrebbe essere sottoposto a una valutazione neuropsicologica completa. L'individuazione di differenti profili neuropsicologici con batterie adeguate di test appare fondamentale, soprattutto nel caso di diagnosi differenziale.
La valutazione comportamentale fornisce utili informazioni riguardo ai sintomi psichici e alle alterazioni che fanno parte integrante della malattia. Esistono numerose scale unidimensionali per la valutazione di singoli disturbi comportamentali, come l'aggressività e la depressione, ma vi sono anche scale di valutazione globale, tra cui la più usata è la NPI (Neuropsychiatric inventory), in grado di fornire un profilo generale dei disturbi comportamentali del paziente. Queste ultime però richiedono quasi sempre la collaborazione da parte della persona che assiste il paziente.
Per quanto riguarda la diagnosi, è importante menzionare il grande lavoro che si sta svolgendo attualmente intorno alla ricerca di marcatori biologici specifici. Nel corso degli ultimi anni ne sono stati proposti diversi tra quelli definiti come modificatori genetici, quale l'apolipoproteina E (ApoE), e quelli correlati alle modificazioni neuropatologiche della malattia, quali la proteina b-amiloide e la proteina Tau. Particolarmente interessanti sono i dati relativi all'ApoE, una lipoproteina indispensabile per il corretto funzionamento del sistema colinergico. Il gene che codifica l'ApoE è altamente polimorfo e normalmente ne vengono osservati tre diversi aplotipi (e2, e3, e4), la cui frequenza nella popolazione è rispettivamente dell'8, del 77 e del 15%. Dal 1994 diversi studi hanno confermato una forte associazione tra la presenza dell'allele ApoE e4 e un maggiore rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, così come sembra che l'allele e2 svolga un effetto protettivo. I dati relativi al genotipo per l'ApoE risultano tuttavia ancora fonte di controversie tra clinici e ricercatori.
Terapia
I trattamenti oggi disponibili sono prevalentemente ad azione sintomatica e hanno l'obiettivo di migliorare la qualità della vita del paziente, potenziando le funzioni cognitive e l'autonomia funzionale e contrastando i disturbi comportamentali.
L'ampia sperimentazione dei farmaci anticolinesterasici, in commercio in Italia già da alcuni anni, ha dimostrato come si possa agire in modo positivo sul decorso della sintomatologia. Il deficit del sistema colinergico rappresenta, infatti, una delle principali caratteristiche della malattia di Alzheimer, nonostante tutti i principali sistemi neurotrasmettitori risultino coinvolti, anche se in misura minore, nei processi degenerativi della malattia. Per tale motivo i farmaci colinomimetici hanno rappresentato da sempre il primo approccio farmacologico. I primi colinomimetici proposti sono stati i precursori dell'acetilcolina, in particolare colina e fosfatidilcolina, ma i risultati ottenuti in varie sperimentazioni farmacologiche si sono rivelati abbastanza deludenti. Un secondo approccio è stato quello relativo all'uso di molecole ad azione anticolinesterasica, in grado di inibire l'attività della acetilcolinesterasi, l'enzima che a livello del vallo sinaptico catabolizza l'acetilcolina. Dopo i primi studi con molecole a breve emivita, la ricerca si è focalizzata sullo sviluppo di molecole a emivita più lunga, che siano in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e agiscano selettivamente sull'acetilcolinesterasi cerebrale, al fine di evitare i potenziali effetti colinomimetici periferici.
La prima di queste è stata il donepezil, un derivato piperidinico a elevata selettività per l'acetilcolinesterasi cerebrale, il cui profilo farmacocinetico permette la monosomministrazione. Studi condotti su oltre 2000 soggetti alzheimeriani hanno dimostrato nei pazienti trattati un miglioramento statisticamente significativo sia nelle funzioni cognitive, sia nello stato funzionale globale. Sulla base di una revisione sistematica dell'evidenza disponibile, i ricercatori della Cochrane Collaboration (un'organizzazione internazionale non-profit che fornisce dati aggiornati sulla salute pubblica) hanno perciò concluso che "in pazienti selezionati con malattia di Alzheimer da lieve a moderata, trattati per periodi di 12 o 24 settimane, il donepezil produce un modesto miglioramento della funzione cognitiva".
Un altro inibitore selettivo dell'acetilcolinesterasi, in commercio in molti paesi, è la rivastigmina che, sperimentata su oltre 3000 pazienti anziani con patologie organiche concomitanti, anche di grave entità, ha mostrato un modesto beneficio sulla cognitività e la funzione quotidiana.
Successivamente, è stata approvata la galantamina, che agisce sul sistema colinergico mediante un duplice meccanismo d'azione: modulando i recettori nicotinici presinaptici e inibendo le acetilcolinesterasi.
La sua efficacia è stata valutata in 3200 pazienti alzheimeriani di grado lieve-moderato.
Un'altra linea di ricerca per i farmaci colinomimetici è quella che si rivolge allo sviluppo di agonisti specifici per i recettori dell'acetilcolina, soprattutto quelli di tipo muscarinico. Attualmente i composti muscarinici hanno raggiunto la fase III dei protocolli clinici.
Il principale ostacolo al loro utilizzo è rappresentato dalla elevata tossicità colinergica, che produce in particolare effetti collaterali di tipo gastrointestinale e cardiaco.
Le nuove conoscenze sul ruolo patogenetico del glutammato nella malattia di Alzheimer e le evidenze sperimentali e cliniche dell'attività neuroprotettiva a dosaggi terapeutici di un antagonista specifico dei recettori NMDA (N-metil-D-aspartato), chiamato memantina, hanno permesso lo sviluppo di questa molecola come nuovo presidio terapeutico nelle demenze e in particolare nelle forme moderate e gravi della malattia di Alzheimer. Il glutammato stimola, infatti, diversi recettori post-sinaptici, di cui il principale è il recettore NMDA, particolarmente coinvolto nei processi della memoria, nelle demenze e nella patogenesi della malattia di Alzheimer.
La memantina è un antagonista specifico, non competitivo e di moderata affinità, del recettore NMDA, con una rapida cinetica di legame recettoriale voltaggio-dipendente. Queste caratteristiche farmacologiche le permettono di agire sia in condizioni fisiologiche, abbandonando rapidamente il canale NMDA durante i processi fisiologici di attivazione da parte del glutammato, sia in condizioni patologiche, bloccando l'attivazione sostenuta da parte del glutammato. L'efficacia clinica della memantina nella malattia di Alzheimer di grado da moderato a severo è stata valutata in uno studio randomizzato multicentrico, condotto in doppio cieco negli Stati Uniti, e successivamente in una meta-analisi della Cochrane Collaboration. È importante sottolineare che attualmente la memantina è il solo farmaco approvato per l'uso nelle forme moderate-severe della malattia e che recenti dati di farmacoeconomia ne supportano l'utilizzo da un punto di vista del rapporto costo/efficacia.
Sperimentazioni cliniche in corso stanno esaminando gli effetti dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), degli antiossidanti e della terapia sostitutiva con estrogeni. L'approccio alla terapia con i FANS è basato sull'osservazione che soggetti in terapia antinfiammatoria hanno un ridotto rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer ed è supportato dalla scoperta che molecole ad azione proinfiammatoria sono coinvolte nella patogenesi della malattia.
Un'altra ipotesi patogenetica della malattia di Alzheimer pone le sue basi sulla teoria dei radicali liberi: le lesioni istopatogenetiche corticali tipiche di questa patologia sarebbero una conseguenza dello stress ossidativo e dell'accumulo di radicali liberi che incrementano i livelli di perossidazione lipidica, con un conseguente danno delle membrane neuronali. Numerosi studi sono in corso su sostanze protettive antiossidanti quali vitamina E, selegelina e Ginkgo biloba, usati da soli o in associazione con farmaci anticolinesterasici.
Infine la terapia sostitutiva con estrogeni, benché non abbia mostrato benefici nel trattamento della malattia di Alzheimer, potrebbe comunque possedere un effetto neuroprotettivo, ritardando l'esordio della patologia. Un approccio innovativo alla terapia riguarda la possibilità di mettere a punto un vaccino in grado di influenzare l'accumulo di proteina b-amiloide. Studi svolti su topi modificati geneticamente hanno suggerito le basi potenziali per lo sviluppo di tale vaccino, in quanto l'effetto dell'immunizzazione riduceva la formazione di placca di b-amiloide, caratteristica in questo modello animale di malattia di Alzheimer. Sulla scorta di questi risultati incoraggianti, sebbene ottenuti in modelli sperimentali non del tutto sovrapponibili alla situazione umana, una strategia di immunizzazione analoga è stata avviata in fase I, con una sperimentazione clinica che ha coinvolto un campione di 100 soggetti reclutati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. In seguito all'esito positivo di questa sperimentazione, in cui non sono stati evidenziati significativi effetti indesiderati, è stata avviata una sperimentazione di fase II su 375 soggetti, reclutati negli Stati Uniti e in Europa. I ricercatori hanno dimostrato che i pazienti sottoposti a immunoterapia erano in grado di produrre anticorpi che si legavano in modo specifico a placche senili in esperimenti in vitro su parenchima cerebrale, ottenuto sia da modelli animali sia da reperti autoptici. Tuttavia, l'insorgenza di effetti indesiderati, caratterizzati da un'infiammazione di tipo meningoencefalitico, riscontrato in circa il 6% dei soggetti vaccinati, ha costretto a interrompere la sperimentazione. I possibili meccanismi responsabili di questo effetto, che devono essere tenuti in considerazione al fine di sviluppare una più sicura strategia vaccinale, sono ancora in fase di dibattito.
La fase preclinica della demenza
Come abbiamo indicato in precedenza, la malattia di Alzheimer è un processo patologico che solitamente dura molti anni e spesso è misconosciuto nelle fasi iniziali di esordio, mentre proprio la diagnosi precoce presenterebbe indubbi vantaggi, consentendo di istituire immediatamente le terapie atte a ritardare la progressione della malattia e di programmare la sua corretta gestione sia attraverso il potenziamento delle capacità residue del soggetto, sia con la preparazione della famiglia. Per individuare le fasi precoci della malattia si è cercato di categorizzare i diversi disturbi preclinici.
La fase preclinica può essere distinta in una fase in cui la malattia è diagnosticabile con particolari strumenti di indagine (screening) e una fase in cui non può essere diagnosticata, neppure utilizzando mezzi particolarmente raffinati. Tra l'assetto cognitivo normale e un reale disturbo cognitivo esistono quindi diverse modalità. Negli ultimi anni sono comparse nella letteratura medico-scientifica numerose categorie utilizzate per definire questa fase di transizione tra le quali: smemoratezza benigna senile (BSF, Benign senescent forgetfulness), deficit di memoria associato all'età (AAMI, Age-associated memory impairment), declino cognitivo associato all'invecchiamento (AACD, Ageing-associated cognitive decline), disordine cognitivo lieve (MCD, Mild cognitive disorder) e deficit cognitivo lieve (MCI, Mild cognitive impairment). Attualmente il termine più utilizzato per descrivere la fase preclinica della demenza è MCI.
I soggetti con MCI presentano una perdita di memoria maggiore rispetto a quella che ci si attenderebbe per l'età, ma non hanno una compromissione cognitiva e funzionale tale da poter essere diagnosticati come dementi. I criteri diagnostici più accettati per il MCI sono quelli proposti da Ronald C. Petersen (1999): a) disturbo soggettivo di memoria preferibilmente confermato da una persona diversa dal soggetto; b) presenza di un deficit di memoria documentato da una prestazione a un test di memoria episodica; c) assenza di altri deficit cognitivi; d) normali abilità nelle attività del vivere quotidiano; e) assenza di demenza.
Un recente articolo (Caltagirone-Spalletta 2004) esamina gli studi più importanti sul tasso di conversione da MCI a demenza. La conclusione è che nei soggetti con MCI questo tasso varia tra il 6 e il 25% ed è molto più alto di quello osservato in soggetti anziani, dove oscilla tra lo 0,3% in soggetti tra i 65 e i 69 anni e il 5,3% in soggetti compresi tra gli 85 e gli 89 anni.
La differenza di tassi di conversione da MCI a demenza riportati da vari studi dipende dalla diversa modalità diagnostica utilizzata e da altri fattori di confusione, quali l'età media del campione, le caratteristiche sociodemografiche, ecc.
Il morbo di Parkinson
Il morbo di Parkinson colpisce circa lo 0,3% della popolazione di età superiore a 40 anni e circa il 3% di quella oltre i 65 anni. La prevalenza cresce in maniera esponenziale tra i 65 e i 90 anni. L'età media di insorgenza è di circa 57 anni, ma in alcuni casi l'esordio può avvenire nell'infanzia o nell'adolescenza (parkinsonismo giovanile). L'eziologia è sconosciuta.
Si verifica una degenerazione dei neuroni della substantia nigra, del locus ceruleus e del nucleo dorsale del vago, con presenza di inclusioni citoplasmatiche ialine (corpi di Lewy), che causano complesse alterazioni neurotrasmettitoriali con prevalente compromissione delle vie dopaminergiche. Il difetto biochimico primario è la perdita della dopamina striatale conseguente alla degenerazione delle cellule che la producono nella substantia nigra: l'associata iperattività dei neuroni colinergici nei nuclei caudati contribuisce ai sintomi.
Sintomatologia e diagnosi
Il morbo di Parkinson può presentarsi con sintomi e segni diversi. Le caratteristiche principali sono il tremore, la bradicinesia (lentezza dei movimenti), la rigidità e l'instabilità posturale. Nel 50-80% dei pazienti la malattia esordisce in modo insidioso, con un tremore a riposo di una mano, che diminuisce durante il movimento e scompare con il sonno; aumenta invece con le emozioni e la fatica.
La mancanza di oscillazione nella deambulazione e i cambiamenti nella grafia (micrografia) sono segni precoci della malattia. Successivamente il tremore colpisce maggiormente le mani, le braccia e le gambe, in questo stesso ordine, e possono anche essere interessate la mandibola, la lingua, la fronte e le palpebre. La rigidità è evolutiva, mentre i movimenti rallentano, diminuiscono (ipocinesia) e sono difficili da iniziare (acinesia), causando anche dolore muscolare e sensazione di affaticamento. L'inespressività del volto (amimia) e la bradicinesia possono portare a confondere il morbo di Parkinson con uno stato depressivo. Durante la deambulazione l'andatura è incurvata in modo caratteristico (camptocormia). Il paziente inizia a camminare con difficoltà, si muove prima con passi piccoli ed esitanti, tenendo le braccia flesse, addotte e non ondeggianti e il tronco lievemente piegato in avanti, poi con passi improvvisamente più veloci quasi di corsa per evitare la caduta in avanti (festinazione); inoltre ha difficoltà nel cambiare direzione o nel girare intorno a degli oggetti e può bloccarsi, senza riuscire a riprendere la marcia.
I soggetti colpiti da morbo di Parkinson hanno molta difficoltà a eseguire due attività motorie simultanee ma non associate tra loro, come parlare e deambulare, gettare o prendere qualcosa e deambulare e così via. La voce diventa ipofonica e spesso si accompagna a una caratteristica disartria monotona e balbettante.
In un'ampia percentuale (circa 50%) dei pazienti può manifestarsi demenza, caratterizzata principalmente da un deficit delle funzioni cognitive sottese dall'integrità dei lobi frontali (funzioni esecutive), la cui attività risulta marcatamente ridotta a seguito della modificazione delle proiezioni che originano nei nuclei della base. Progressivamente nelle fasi tardive si associano anche deficit di memoria e disturbi comportamentali. Infine va ricordato come alla malattia di Parkinson spesso si associno forme depressive.
Le nuove strategie mediche hanno prolungato l'indipendenza del paziente e in molti casi hanno permesso la continuazione dell'attività lavorativa fino a fasi moderatamente gravi della malattia.
Terapia
Da un punto di vista terapeutico, i farmaci che stimolano il sistema dopaminergico sono utili nel controllare i sintomi motori caratteristici della malattia. Dal momento che la principale anomalia biochimica della malattia è costituita dalla deplezione di dopamina striatale, il trattamento con levodopa costituisce la forma più naturale di terapia dopaminergica sostitutiva. In assenza di inibitori periferici della dopa-decarbossilasi, la levodopa viene trasformata nel compartimento periferico quasi interamente in dopamina e solo una quantità minima del farmaco può raggiungere l'encefalo. La somministrazione della levodopa insieme all'inibitore della dopa-decarbossilasi limita la conversione extracerebrale in dopamina, aumentando la biodisponibilità della dopa stessa e riducendo gli effetti collaterali periferici. La risposta alla levodopa viene distinta in risposta di breve e di lunga durata.
La risposta di breve durata definisce un miglioramento dei sintomi che dura minuti od ore e si manifesta dopo una singola somministrazione del farmaco.
La risposta di lunga durata si manifesta invece dopo giorni o settimane di trattamento.
Nel corso della terapia cronica è molto frequente l'insorgenza di un'alterata risposta alla terapia dopaminergica dei pazienti parkinsoniani. Si è visto infatti che dopo alcuni anni di trattamento con levodopa la risposta a questa viene a modificarsi, con la comparsa di movimenti involontari che a volte possono essere assai invalidanti per il paziente, rendendone ancora più complessa la gestione.
La gestione clinica del malato si avvantaggia dell'utilizzo di farmaci dopamino-agonisti che agiscono direttamente sui recettori dopaminergici; altre strategie terapeutiche sono rappresentate dall'associazione della levodopa con inibitori delle catecol-O-metiltransferasi (COMT) oppure di amantadina per il controllo delle discinesie. In pazienti selezionati possono essere considerati l'utilizzo dell'apomorfina per via infusionale oppure l'impianto di neurostimolatori.
Per quanto riguarda la gestione dei pazienti che sviluppano demenza, recentemente è stato proposto l'utilizzo di farmaci anticolinesterasici. Test multicentrici hanno dimostrato che tali farmaci possono essere efficaci nel parziale controllo dei deficit cognitivi. Ciò è di particolare rilievo se si considera che la demenza, insieme alla depressione e all'età di esordio, è associata a una maggiore mortalità dei pazienti affetti da morbo di Parkinson.
Conclusioni
Si è detto che l'Alzheimer, il Parkinson e le altre malattie neurodegenerative rappresentano un insieme composito di patologie del sistema nervoso centrale caratterizzato dalla progressiva perdita di tessuto neurale, che non è in grado di rigenerare le cellule morte o danneggiate.
Un grande sforzo è stato compiuto negli ultimi anni per cercare di identificare marcatori biologici neuropatologici in grado di rendere possibile la diagnosi nelle fasi precoci. Biomolecole specifiche per la patologia in esame potrebbero essere utilizzate con successo come indicatori della patologia stessa: consentirebbero la diagnosi precoce e differenziale fra alcune di queste patologie, che spesso hanno sintomatologie sovrapposte e intersecanti, e permetterebbero di seguire l'evoluzione della malattia stessa, ottenendo informazioni preziose sulla risposta alla terapia e contribuendo così in modo sostanziale a un trattamento più efficace. È prevedibile che nei prossimi anni la ricerca biomedica, basandosi su innovativi approcci di genomica e proteomica e avvalendosi di strumenti efficaci come le biotecnologie, riuscirà in questa identificazione delle molecole coinvolte nei processi patogenetici delle malattie neurodegenerative e sarà in grado di generare nuove e interessanti opportunità per il miglioramento della loro diagnosi e cura.
Una menzione a parte va riservata alla prevenzione, che costituisce sempre un validissimo strumento per combattere le patologie. Recenti studi sembrano confermare che campagne di prevenzione analoghe a quelle adottate per contrastare patologie devastanti come il tumore del seno e della prostata o come l'ipertensione e l'infarto del miocardio possano svolgere un ruolo chiave anche per alcune delle malattie neurodegenerative. Merita di essere citato a tal proposito lo studio di E.T. Jansson (2005), secondo cui è possibile prevenire la malattia di Alzheimer nel 50-70% della popolazione statunitense. Dati epidemiologici hanno infatti identificato diversi fattori di rischio prevenibili attraverso strategie correlate a nutrizione, integratori alimentari, controllo delle tossine alimentari e ambientali, stile di vita e, in alcuni casi, medicine, che avrebbero la capacità di ridurre il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer del 50%. Il programma per la prevenzione auspicato da Jansson prevede un'analisi statistica dei fattori di rischio già identificati, che permetterebbe la predizione di fattori di rischio individuali e di gruppo di forza tale da generare corrette indicazioni per ridurre l'incidenza della malattia.
Le altre patologie neurodegenerative
Il morbo di Huntington
Il morbo di Huntington è una patologia ereditaria di tipo autosomico dominante: ciò significa che i figli di una persona affetta hanno il 50% di probabilità di sviluppare a loro volta la malattia, indipendentemente dal sesso. È caratterizzato da presenza di movimenti involontari, deterioramento cognitivo progressivo e modificazioni della personalità. Generalmente insorge nell'età adulta (35-50 anni). La prevalenza in America e nella maggior parte dell'Europa è di circa 5 casi per 100.000 individui, mentre è più bassa in Giappone, Cina, Finlandia e Africa.
La malattia è determinata dalle modificazioni del nucleo caudato, che va incontro a progressiva atrofia. Tale degenerazione si evidenzia in maniera caratteristica alla TAC con l'immagine detta dei 'ventricoli a garage'. Il gene responsabile (IT-15), individuato nel 1993, è localizzato all'estremità del braccio corto del cromosoma 4 e contiene le informazioni per la produzione di una proteina che è stata chiamata huntingtina. Le funzioni normali e anomale di questa proteina sono sconosciute, ma è certo che in qualche modo essa provoca la degenerazione dei neuroni. Nel gene della huntingtina, oltre a numerose altre sequenze, è presente una tripletta di tre basi nucleotidiche (per la precisione citosina-adenosina-guanosina) che può susseguirsi per un certo numero di volte: negli individui normali il gene della huntingtina contiene corte ripetizioni della tripletta, da poche copie fino a circa 30; nelle persone affette da morbo di Huntington la tripletta è invece ripetuta per un numero molto più elevato di volte, da 35-40 fino a più di un centinaio. Queste ripetizioni eccessive della tripletta (dette anche genericamente espansioni e nel caso specifico 'sequenza espansa di glutammato') provocano modificazioni ancora non chiare nella huntingtina e presumibilmente ne alterano la funzione. La presenza di una sola copia alterata del gene (su due che l'uomo possiede) è sufficiente allo sviluppo della malattia.
Sintomatologia e diagnosi
I sintomi della malattia progrediscono in maniera insidiosa e inesorabile. A volte demenza o disturbi psichiatrici, che vanno dall'apatia e l'irritabilità fino a quadri franchi di disturbo maniaco-depressivo o alla schizofrenia, possono precedere i disturbi dei movimenti più tipici oppure svilupparsi durante il loro decorso.
I disturbi psichici si manifestano con stati depressivi o maniacali, aggressività, disturbi del comportamento e, nei casi più gravi, psicosi. Un disturbo cognitivo è in genere evidente sin dalle prime fasi: le persone affette presentano difficoltà a pianificare, sviluppare ed eseguire azioni complesse e a portare a termine impegni lavorativi che in precedenza venivano assolti con facilità. Vengono frequentemente riferiti disturbi dell'attenzione e della concentrazione. Con il progredire del quadro demenziale, le difficoltà aumentano così come l'inabilità a deambulare e a inghiottire.
Le manifestazioni motorie comprendono movimenti a scatto degli arti, andatura cadenzata e impersistenza motoria (incapacità, cioè, di mantenere un atto motorio, come per es. la protrusione della lingua), smorfie, atassia e distonia. I primi sintomi motori sono spesso ambigui e si manifestano in modo più evidente in condizioni di stress psicofisico; talvolta possono sembrare esagerazioni di movimenti volontari, smorfie bizzarre o irregolarità respiratorie. Con il passare del tempo, le attività quotidiane si riducono in maniera sempre più marcata.
Nelle fasi avanzate il paziente perde completamente le capacità psichiche e fisiche e non è più in grado di badare a sé stesso. Allo stadio finale della malattia, la maggior parte dei pazienti, infatti, necessita di ricovero. Tuttavia, in genere, la malattia progredisce molto lentamente e porta a morte 15-20 anni dopo la comparsa dei primi sintomi.
La diagnosi si basa anzitutto sui sintomi neurologici ed è eventualmente rinforzata dalla presenza di altri casi nella storia familiare; tuttavia la diagnosi di certezza avviene grazie all'analisi genetica con cui si può quantificare il numero di triplette presenti nel gene responsabile. Nel 10% dei casi, il morbo di Huntington colpisce prima dei 20 anni di età, soltanto raramente i bambini e gli adolescenti; questa forma viene definita giovanile. In questo caso i sintomi possono essere diversi da quelli della forma classica: inizialmente si possono avere lentezza, rigidità, deambulazione goffa, difficoltà nella parola e in alcuni casi crisi epilettiche. Il decorso della variante giovanile può essere più severo rispetto a quella dell'adulto.
La guarigione non è possibile. La terapia è sintomatica. I movimenti coreici e i comportamenti violenti possono essere controllati, anche se in modo parziale, con la somministrazione di neurolettici.
Tuttavia, è preferibile non utilizzare farmaci di vecchia generazione, come l'aloperidolo, i cui effetti collaterali peggiorano l'evoluzione della sintomatologia nel tempo. Le terapie sperimentali sono volte alla riduzione della neurotrasmissione glutammatergica attraverso il recettore n-metil-d-aspartato e all'incremento della produzione energetica mitocondriale.
La sclerosi laterale amiotrofica
La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia degenerativa progressiva che colpisce selettivamente i motoneuroni, interessando sia quelli superiori (corticali), sia quelli inferiori (troncoencefalici e midollari); si può presentare con quadri clinici diversi: amiotrofia spinale, paralisi bulbare, sclerosi laterale primaria, paralisi pseudobulbare.
La scomparsa dei motoneuroni causa una progressiva atrofia muscolare: i muscoli volontari non ricevono più i comandi provenienti dal cervello e, nel tempo, si atrofizzano portando a una paralisi progressiva dei quattro arti e dei muscoli deputati alla deglutizione e alla parola. La sclerosi laterale amiotrofica è anche chiamata malattia di Charcot (dal nome del neurologo francese che l'ha descritta per la prima volta nel 1860) oppure malattia di Lou Gehrig, dal nome di un famoso giocatore di baseball americano che ne fu colpito.
La prevalenza della malattia varia tra 1,2 e 1,8 casi per 100.000 individui. L'età media di insorgenza è di 55 anni, con maggiore incidenza negli uomini; esiste però anche una forma giovanile che si manifesta nel primo decennio di vita. Nella maggioranza dei casi si tratta di una malattia sporadica (si verifica cioè senza che vi siano stati casi precedenti in famiglia); solo nel 10% dei casi si riconosce un carattere familiare a trasmissione autosomica dominante, di cui si ritiene responsabile un gene localizzato sul cromosoma 21.
La malattia colpisce le funzioni motorie risparmiando generalmente quelle cognitive e quelle sensoriali, che restano intatte fino all'ultimo stadio. La debolezza muscolare, l'atrofia e il quadro clinico, espressione del coinvolgimento delle cellule delle corna anteriori, si notano inizialmente nelle mani e meno spesso nei piedi. La localizzazione dei primi segni è casuale e la progressione asimmetrica. Frequenti sono i crampi che possono precedere la debolezza muscolare; spesso ai segni di compromissione del motoneurone inferiore si accompagnano guizzi muscolari visibili (fascicolazioni), spasticità, aumento dei riflessi tendinei, riflessi plantari in estensione e segni del coinvolgimento del tratto corticospinale. La disartria e la disfagia sono dovute al coinvolgimento dei nuclei e delle vie del tronco. Il sistema sensitivo, la muscolatura volontaria degli occhi e gli sfinteri urinari vengono risparmiati.
Raramente il paziente sopravvive per 30 anni, il 50% muore entro tre anni dall'esordio della malattia, il 20% vive per cinque anni, il 10% per dieci. Poiché, oltre alla mobilità degli arti e del tronco, si perde anche la capacità di parlare e deglutire, il malato necessita nelle fasi terminali di assistenza continua. La morte avviene quasi sempre per cause respiratorie generate dall'atrofia del diaframma, che può portare ad arresto respiratorio, aritmie cardiache per scarsa ossigenazione o infezioni respiratorie.
Le caratteristiche diagnostiche comprendono l'insorgenza in età media o avanzata e un coinvolgimento progressivo generalizzato del sistema motorio, senza compromissione del sistema sensitivo; le velocità di conduzione del nervo sono normali anche nella fase avanzata di malattia; l'elettromiografia rappresenta il test più utile, rilevando le fibrillazioni, le onde positive, le fascicolazioni e le unità motorie giganti anche nell'arto non colpito.
Non esiste un trattamento specifico. Per conservare un certo grado di funzionalità muscolare può essere di aiuto la fisioterapia. I pazienti colpiti da disfagia devono essere alimentati con estrema attenzione e possono necessitare di una gastrostomia. Il baclofen può aiutare a ridurre la spasticità. Negli ultimi anni è stato approvato e viene commercializzato un farmaco specifico per la sclerosi laterale amiotrofica, il riluzolo, che però ha solo l'effetto di prolungare di qualche mese la sopravvivenza.
Numerosi studi sono in corso per comprendere le cause di questa patologia e per cercare di mettere a punto terapie efficaci; gli studi clinici sperimentali effettuati finora non hanno ancora individuato farmaci efficaci, in grado di migliorare la qualità di vita e di prolungare la sopravvivenza dei pazienti. Per quanto riguarda l'uso di cellule staminali per rigenerare il midollo spinale danneggiato si stanno facendo molti tentativi e attualmente sono in corso diverse sperimentazioni. Un recente lavoro (E. Storkebaum, D. Lambrechts, M. Dewerchin et al., Treatment of motoneuron degeneration by intracerebroventricular delivery of VEGF in a rat model of ALS, in "Nature Neurosciences", 2005, 8, pp. 85-92) ha sperimentato la somministrazione diretta di un fattore di crescita chiamato VEGF (Vascular endothelial growth factor), attraverso il liquor, nel sistema nervoso centrale di ratti affetti da un modello sperimentale di sclerosi laterale amiotrofica, ottenendo risultati molto soddisfacenti. Gli autori hanno messo in evidenza che il VEGF, il cui ruolo nella neurogenesi è stato ampiamente indagato, somministrato nel liquido cerebro-spinale si rivelava privo di effetti indesiderati e in grado sia di ritardare di 17 giorni l'insorgenza della paralisi, sia di prolungare la vita degli animali da esperimento di 22 giorni. Questi risultati costituiscono l'effetto terapeutico più promettente tra quelli finora osservati nei modelli animali di sclerosi laterale amiotrofica.
La paralisi sopranucleare progressiva
La paralisi sopranucleare progressiva (PSP, Progressive supranuclear palsy) è stata descritta come entità clinico-patologica nel 1964 da John C. Steele, J. Clifford Richardson e Jerzy Olszewski. Esordisce tipicamente dopo i 40 anni di età con una sindrome acinetico-rigida simmetrica (rigidità soprattutto assiale/prossimale), accompagnata da precoce instabilità posturale, sintomo più invalidante, e frequenti cadute (soprattutto all'indietro). La postura è tipicamente in estensione, spesso con retrocollo, a differenza della postura in anteflessione nel morbo di Parkinson e l'anterocollo nella atrofia multisistemica (AMS). La deambulazione è cauta su base allargata. Un altro aspetto classico della PSP è una sindrome pseudobulbare.
Il segno cardine, che dà il nome alla malattia, è la paralisi sopranucleare dello sguardo verticale, seguita da disturbi dello sguardo orizzontale. Questo segno è presente raramente all'inizio della malattia, manifestandosi solitamente tre o quattro anni più tardi; in casi eccezionali è del tutto assente. Il disturbo inizia con un rallentamento dei movimenti saccadici verticali, progredisce poi con una riduzione dello sguardo verso il basso e porta a una paralisi completa dello sguardo verticale. I problemi più importanti, che compaiono successivamente all'esordio con il disturbo motorio e visivo, sono costituiti da disordini comportamentali ed emozionali (soprattutto depressione), disturbi cognitivi (soprattutto di tipo frontale) e del sonno.
I segni disautonomici, soprattutto urinari (aumentata frequenza minzionale, nicturia, minzione imperiosa e incontinenza), possono essere abbastanza frequenti e marcati e hanno comparsa tardiva. Un interessamento piramidale si trova in circa il 30% dei pazienti, mentre segni cerebellari sono rari. La malattia ha un'evoluzione progressiva, portando i pazienti all'allettamento, con alimentazione parenterale (sondino naso-gastrico) e grave disartria cui segue l'anartria. La morte avviene normalmente dopo 5-6 anni (rari casi, confermati patologicamente, sono sopravvissuti fino a 16 anni). Le cause di morte più comuni sono dovute a broncopolmonite ed embolia polmonare.
Studi condotti negli Stati Uniti hanno riscontrato una prevalenza da 1,4 su 100.000 abitanti (corretta per l'età) a 5,3 nuovi casi/100.000 anni-persona, considerando il gruppo d'età fra 50 e 99 anni. L'incidenza annuale è stata stimata attorno a 3-4 casi/anno/milione di abitanti; tale incidenza, come in altre malattie degenerative, aumenta drasticamente con l'età: 1,7 nel gruppo 50-59 anni e 14,7 nel gruppo 80-99 anni. Tuttavia probabilmente questi dati sono sottostimati dal momento che è necessaria almeno la metà della durata della malattia per giungere alla diagnosi e tanti pazienti muoiono senza che sia stata effettuata. La PSP può essere considerata la forma di parkinsonismo degenerativo più frequente dopo il morbo di Parkinson. Il periodo di sopravvivenza media, in studi con pazienti patologicamente confermati, è di 5,6 anni (range 2-16,6 anni).
Attualmente non esiste terapia sostitutiva per la PSP legata al coinvolgimento di sistemi neuronali multipli. La levodopa migliora la sintomatologia acinetico-rigida solo nel 30% dei casi circa, con un'efficacia ridotta e transitoria che non dura mai più di 1-2 anni. Anche la terapia con i dopaminoagonisti non mostra nessun vantaggio rispetto alla sola levodopa. I pazienti con PSP sono molto resistenti agli effetti collaterali dei farmaci dopaminergici, sia motori sia psichiatrici; per questo dosi fino a 2000 mg di levodopa al giorno sono in genere ben tollerate e dovrebbero essere provate. L'amitriptilina e l'amantadina possono migliorare alcuni sintomi della PSP, però gli effetti anticolinergici ne limitano l'uso, perché possono peggiorare sia l'aspetto cognitivo sia la deambulazione; pertanto il loro impiego è circoscritto ad alcune indicazioni particolari (per es., ipersalivazione). Farmaci ad azione colinergica centrale (incluso donepezil), come anche farmaci noradrenergici (iadoxan, efaroxane), non danno risultati soddisfacenti. Un modesto miglioramento dei sintomi motori è stato riscontrato con l'uso dello zolpidem, un farmaco ad azione gabaergica. Importante è l'approccio fisiatrico, logopedico, ergoterapico e dei gruppi di sostegno. Alcuni pazienti sono stati sottoposti anche a pallidotomia e trapianto di surrenali, senza ottenere alcun beneficio significativo. Per gli studi futuri, farmaci di particolare interesse sono i fattori neurotrofici, scavanger dei radicali liberi, e antinfiammatori.
Demenza frontotemporale
La demenza frontotemporale (FTD, Frontotemporal dementia) è una patologia neurodegenerativa caratterizzata da deficit cognitivi, alterazioni di personalità e modificazioni del linguaggio. Il termine demenza frontotemporale include un eterogeneo gruppo di condizioni come il morbo di Pick, la FTD associata a parkinsonismo correlata al cromosoma 17 (FTDP-17), l'afasia primaria progressiva e la demenza semantica. È la seconda causa più comune di demenza corticale a esordio precoce (⟨65 anni) dopo la malattia di Alzheimer, con una prevalenza stimata in alcune coorti in 15/100.000. La FTD si presenta principalmente tra i 35 e i 75 anni d'età. La malattia colpisce in ugual misura entrambi i sessi e una quota significativa di pazienti (20-40%) ha una storia di familiarità. Il decorso è caratterizzato da un esordio subdolo e da una progressiva compromissione delle funzioni cognitive, con un'evoluzione relativamente rapida. In un recente studio la media di sopravvivenza dall'esordio dei sintomi è stimata attorno ai sei anni.
La FTD è una malattia con patologia eterogenea, caratterizzata da atrofia focale lobare che interessa in particolare la corteccia frontale orbitobasale, la regione del polo temporale e l'amigdala. All'esame autoptico, in una consistente quota di pazienti sono evidenti alterazioni neuropatologiche a carico della proteina Tau e pertanto tali forme sono classificate nell'ambito delle cosiddette taupatie. Altre taupatie correlate alla FTD sono la degenerazione corticobasale (CBD, Corticobasal degeneration) e la paralisi sopranucleare progressiva (PSP). Mutazioni del gene Tau sono infatti responsabili dal 7 al 50% dei casi di FTD a ereditarietà autosomica dominante.
Al momento sono stati definiti quattro sottogruppi di FTD: a) FTD con inclusioni Tau, malattia di Pick, degenerazione corticobasale, paralisi sopranucleare progressiva, FTD familiare con mutazioni del gene Tau; b) FTD senza istopatologia caratteristica; c) FTD con inclusioni tipo-malattia del motoneurone ubiquitina-positiva; d) FTD con inclusioni neurofilamento-positive. Per la caratterizzazione delle inclusioni sono utilizzati gli anticorpi anti-Tau, anti-ubiquitina e anti-neurofilamenti.
Sul piano clinico la FTD è caratterizzata inizialmente da profondi disturbi della personalità con alterazioni del comportamento e/o deficit del linguaggio. I disturbi comportamentali più frequentemente osservati includono disinibizione, apatia, precoce compromissione della condotta sociale, perdita della consapevolezza del sé, stereotipie e perseverazioni, irritabilità, impulsività, rigidità mentale. Sottili modificazioni comportamentali possono avvenire molto tempo prima che la malattia si manifesti.
I deficit progressivi del linguaggio sono invece prevalentemente caratterizzati da problemi di espressione o gravi difficoltà di denominazione e problemi nella comprensione. In particolare nelle forme di demenza semantica si assiste a una progressiva erosione delle conoscenze semantiche e a un graduale impoverimento del contenuto dell'eloquio. In alcune forme il parkinsonismo o una malattia del motoneurone possono complicare il quadro clinico.
Attualmente non sono disponibili farmaci specifici in grado di rallentare l'evoluzione della malattia. Alcuni trial farmacologici hanno dimostrato che gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI, Selective serotonin reuptake inhibitors) possono avere una certa efficacia nel controllo dei sintomi comportamentali.
Demenza a corpi di Lewy
La demenza a corpi di Lewy (LBD, Lewy bodies disease) è la seconda forma di demenza corticale degenerativa nella popolazione anziana, riscontrata nel 10-15% dei casi autoptici. La LBD rientra, insieme al morbo di Parkinson, nelle a-sinucleinopatie, essendo anatomopatologicamente caratterizzata dalla deposizione di aggregati di a-sinucleina, un normale costituente delle vescicole sinaptiche a livello del tronco encefalico, dell'ippocampo, dell'amigdala, dello striato e della corteccia cerebrale. Gli aggregati si possono presentare in diverse forme come i tipici corpi di Lewy (LB, Lewy body), i neuriti di Lewy (LN, Lewy neurite) o gli sferoidi neuroassonali.
Le principali caratteristiche cliniche della LBD sono demenza; disturbo di memoria preminente e persistente, che può non essere presente nelle fasi iniziali ma compare con la progressione della malattia; deficit di attenzione, di abilità frontali sottocorticali e visuospaziali. In particolare la diagnosi si basa sulla presenza di fluttuazione delle funzioni cognitive con importanti variazioni di attenzione e stato di coscienza, allucinazioni visive ricorrenti tipicamente strutturate e dettagliate e caratteristiche motorie di parkinsonismo.
Inoltre possono essere presenti sintomi quali cadute ripetute, sincopi, episodi transitori di perdita di coscienza, esagerata sensibilità ai neurolettici, deliri strutturati, allucinazioni non visive. Il declino cognitivo è il sintomo caratteristico dell'esordio della malattia nella maggior parte dei casi, ma non in tutti. Il disturbo si presenta tipicamente con episodi ricorrenti di confusione su un background di deterioramento cognitivo progressivo.
I deficit attentivi e le disfunzioni fronto-subcorticali e visuospaziali aiutano a differenziare questo disturbo dalla malattia di Alzheimer. I pazienti con LBD, rispetto ai malati di Alzheimer, hanno prestazioni migliori nei test di memoria verbale ma peggiori nei compiti visuospaziali. Le fluttuazioni nelle funzioni cognitive possono variare nell'ambito dei minuti, delle ore e dei giorni.
Le manifestazioni psichiatriche sono comuni, soprattutto allucinazioni visive, deliri, apatia e ansia. Sono generalmente presenti all'inizio della malattia e possono essere il motivo per cui i pazienti vengono condotti dal medico. Inoltre tendono a persistere nel tempo. Le allucinazioni sono simili a quelle riportate nella malattia di Parkinson: vivide, colorate, tridimensionali, rappresentano generalmente immagini mute di oggetti animati. Le allucinazioni visive sono associate a un maggior deficit di acetilcolina e pertanto predittive di migliore risposta alla terapia con inibitori delle colinesterasi.
Nel 25-50% dei pazienti con LBD alla diagnosi si riscontrano segni extrapiramidali, che quasi tutti i pazienti sviluppano nel corso della malattia. Il pattern dei segni extrapiramidali mostra una compromissione assiale, con maggiore instabilità posturale e inespressività facciale ma con una minore tendenza a manifestare tremore, compatibile con un maggiore coinvolgimento dei sistemi motori non dopaminergici. Pertanto il fenotipo del parkinsonismo con instabilità posturale e difficoltà nella deambulazione è più rappresentato nella LBD.
Un'altra caratteristica clinica è la presenza di una parasonnia caratterizzata da sogni vividi e terrifici associati a comportamenti motori semplici e complessi durante il sonno REM (Rapid-eye-movement). Questo disturbo si riscontra frequentemente nelle sinucleinopatie (LBD, parkinsonismo e atrofia multisistemica), raramente nelle amiloidopatie e nelle taupatie. I disturbi del sonno potrebbero contribuire alle fluttuazioni tipiche della LBD e il loro trattamento potrebbe migliorare le fluttuazioni e la qualità della vita.
L'importanza della diagnosi è relativa al peculiare management farmacologico, caratterizzato da buona responsività agli inibitori della colinesterasi accanto a una estrema sensibilità per gli effetti avversi dei neurolettici. Vi è generale consenso sul fatto che quando un farmaco antiparkinsoniano deve essere prescritto, dovrebbe esserne utilizzato il dosaggio più basso possibile in monoterapia. Inoltre, considerato l'aumentato rischio di mortalità con il trattamento con neurolettici, è importante utilizzare antipsicotici atipici che sembrano essere più sicuri. Infine i farmaci anticolinesterasici sembrano avere nei confronti dei sintomi demenziali un'efficacia pari, se non superiore, a quella osservata nel trattamento dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer.