Neurologia delle emozioni
L’emozione tra biologia e fenomenologia
Riguardo alla natura delle emozioni, esistono due posizioni prevalenti: quella naturalistica e quella fenomenologica. I fautori della prima sostengono che le emozioni dipendono da alcune caratteristiche intrinseche del cervello cui noi conferiamo significati. Dall’altro lato, vi sono invece i sostenitori di una natura ‘immateriale’ delle emozioni, fenomeni legati essenzialmente all’esperienza dell’individuo e, come tali, non riducibili alle loro possibili basi biologiche. In parole ancora più semplici, vi è chi sostiene che le diverse emozioni dipendono da meccanismi nervosi che rispondono a regole determinate dall’evoluzione e chi invece afferma che la biologia non potrà mai spiegarne il significato o comunque ridurle a semplici formule biologiche. Oggi, però, lo sviluppo delle tecniche di studio del sistema nervoso indica con crescente insistenza che la paura, la tristezza o la stessa felicità hanno specifici correlati cerebrali.
Quanti sostengono che l’emozione sia completamente o in massima parte svincolata dalla biologia (si veda, per es., S. Moravia, L’enigma della mente, 1986) mettono in rilievo un concetto già sottolineato dal filosofo Franz Brentano (1838-1917) e posto in evidenza nel 1939 da Jean-Paul Sartre, secondo cui «certe modificazioni quantitative e, perciò stesso, quasi continue nelle funzioni vegetative, come possono corrispondere a una serie qualitativa di stati fra loro irriducibili? Per esempio, le modifiche fisiologiche che corrispondono alla collera non differiscono per intensità da quelle che corrispondono alla gioia: e tuttavia la collera non è una gioia più intensa, è ben altro» (Esquisse d’une théorie des émotions, 1939; trad. it. 1962, p. 13). Quanti invece propongono una ‘naturalizzazione’ delle emozioni, cioè una loro lettura alla luce della biologia, adottano una posizione di tipo evolutivo e inquadrano perciò l’emozione alla luce del suo significato darwiniano, cioè della sua utilità per l’economia dell’organismo e della sua capacità di comunicare ad altri individui pericoli o situazioni positive. Secondo questa posizione, le diverse emozioni sarebbero iscritte nei circuiti del cervello, pronte a entrare in funzione quando l’ambiente, la situazione o l’interpretazione che ne dà la mente, ci sollecitano con alcuni stimoli che innescano reazioni quasi automatiche, pacchetti di informazione custoditi in alcune strutture cerebrali. A particolari situazioni sono quindi correlate alcune espressioni facciali, risposte del sistema nervoso autonomo e ormonali tra loro integrate: per es., una situazione di pericolo può scatenare l’emozione della paura che è caratterizzata da particolari espressioni facciali e risposte di fuga o di blocco. Si potrebbe per questo sostenere che l’emozione non sia altro che uno stato dell’organismo in cui un programma innato scatena una serie di reazioni stereotipate.
La selezione naturale avrebbe quindi forgiato le emozioni sulla base dei vantaggi adattivi che esse conferiscono in un particolare contesto ambientale, il che implica che ogni componente di un’emozione derivi da una diversa pressione selettiva che, per es., farebbe sì che nella tristezza le palpebre si abbassino, la fronte si corrughi, le lacrime siano pronte a sgorgare. Questa tesi è legata al pensiero di Charles Darwin, il quale in The expression of the emotions in man and animals (1872) sostiene che alcuni stimoli sarebbero in grado di attivare il sistema nervoso e indurre espressioni facciali e modifiche somatiche stereotipate che accomunano i diversi membri di una stessa specie o specie apparentate. Secondo Darwin, le modifiche dell’espressione facciale e della fisiologia dell’organismo avrebbero una specifica funzione, per es. detergere i globi oculari con la lacrimazione, favorire l’accesso di aria nei polmoni, di sangue nei muscoli e così via. L’espressione facciale delle emozioni consentirebbe inoltre di comunicare agli altri membri della specie situazioni a rischio, benessere, minaccia o empatia. È per questa sua capacità di veicolare messaggi fondamentali per la sopravvivenza della specie che l’espressione facciale avrebbe un carattere transculturale, essendo facilmente decifrabile indipendentemente dalle diverse etnie e culture che caratterizzano la specie umana. Questo aspetto è stato sottolineato anche da quegli etologi, come Irenäus Eibl-Eibesfeldt (n. 1928), che ispirandosi alle teorie darwiniane hanno compiuto studi sul campo dimostrando che alcune espressioni facciali veicolano messaggi simili in culture diverse.
La corporeità dell’emozione e i rapporti con la cognizione
Nel corso degli ultimi anni l’emozione non è stata considerata come una funzione indipendente dalla cognizione, ma come uno dei canali in grado di informare il sistema nervoso su importanti aspetti della realtà esterna e dei rapporti tra organismo e ambiente. Da un punto di vista evolutivo nel cervello dei primati si sono sviluppati due diversi circuiti nervosi, ognuno dei quali è specializzato nel trattamento di un diverso tipo di informazione, rispettivamente cognitiva ed emotiva. Malgrado l’esistenza di sovrapposizioni tra questi due sistemi di informazione, essi comportano due diverse reti neurali: dopo che l’informazione è transitata per i nuclei del talamo, il contenuto dell’informazione di tipo emotivo viene inizialmente elaborato dai nuclei del sistema limbico, come l’amigdala, e in seguito dalle strutture della corteccia cingolata e dalla corteccia prefrontale ventromediale.
Per quanto riguarda il sistema cognitivo, l’informazione transita per i nuclei talamici (similmente a quanto avviene per le informazioni emozionali) per poi raggiungere uno specifico nucleo del sistema limbico, l’ippocampo, e da qui le cortecce temporo-occipitale e parietale. Questo circuito ha il compito di trattenere l’informazione nel magazzino della memoria a lungo termine. L’integrazione tra le informazioni di tipo emotivo e quelle di tipo cognitivo si basa sulla loro convergenza nella corteccia prefrontale dorsolaterale, come ha indicato in più esperimenti il neurofisiologo Joaquín M. Fuster (The prefrontal cortex of the primate. A synopsis, «Psychobiology», 2000, 28, 2, pp. 125-31). Quest’area corticale è al centro dei processi esecutivi (prestare attenzione, tenere in memoria un’informazione, perseguire un piano, attendersi conseguenze da un’azione ecc.) e integra l’informazione così da rendere possibili le funzioni cognitive più elevate, come il pensiero astratto, la flessibilità cognitiva, la pianificazione e la presa di decisioni, l’autocoscienza.
L’assenza di una separazione netta tra emozione e cognizione è stata quindi sostenuta da numerosi studiosi, in primo luogo dal neurologo portoghese Antonio R. Damasio (2000 e 2007) che, partendo da un celebre caso clinico, quello di Phineas Gage, ha sottolineato come i cosiddetti marcatori somatici – le alterazioni corporee indotte dal sistema nervoso autonomo che accompagnano le emozioni, come sudorazione, modifiche del ritmo cardiaco, tensione muscolare ecc. – rappresentino un elemento centrale dei fenomeni cognitivi. Gage era un giovane minatore che nel 1848 lavorava con altri operai alla costruzione di una ferrovia nel New England. Nel corso di un’esplosione, la bacchetta di ferro con cui veniva compresso l’esplosivo nei buchi trapanati nella roccia penetrò nel cervello del minatore provocando una grave lesione. Gage si riebbe dall’incidente ma dimostrò ben presto di non essere più lo stesso di prima: benché non presentasse deficit del linguaggio, dei movimenti o dell’apprendimento, il giovane cominciò ad avere alcuni problemi comportamentali. Il caso Gage suscitò discussioni tra gli studiosi del cervello, tra cui i celebri neurologi e studiosi del linguaggio Pierre-Paul Broca (1824-1880) e Karl Wernicke (1848-1905), ma poi la vicenda perse importanza e il cranio del minatore venne affidato al museo anatomico dell’Harvard university. Intorno alla fine del Novecento il caso Gage è tornato nuovamente agli onori delle cronache scientifiche in quanto è stato riesaminato da Damasio e dai suoi collaboratori che, sulla base dei fori d’entrata e d’uscita nel cranio, perfettamente visibili e conservati, hanno simulato al computer il percorso della bacchetta di ferro, individuando l’area della corteccia frontale lesa, un’area che media gli aspetti emotivi e quelli cognitivi del comportamento. Le ricerche condotte da Damasio e dal suo gruppo sono all’origine di una teoria sull’influenza dell’emozione sui processi decisionali. Secondo il neurologo, che nega la dicotomia emozione-ragione, la ragione è guidata dalla valutazione emotiva delle conseguenze dell’azione e la separazione tra mente e corpo è insensata e irrealistica: la mente è un prodotto evolutivo, finalizzato al soddisfacimento delle nostre necessità fisiche e psichiche, e per raggiungere questo obiettivo deve disporre di informazioni derivanti da quelle strutture nervose che elaborano le risposte affettivo-emotive emerse dalle esperienze e dai contenuti della memoria.
Ogni decisione, secondo Damasio, richiede una valutazione dei costi e benefici delle diverse opzioni, che a mano a mano prendono corpo nella memoria di lavoro. Aver incontrato una stessa o simile situazione nel passato implica che emergano le stesse componenti emotive allora suscitate da conseguenze positive o negative. Ciò comporta che la coloritura emotiva caratterizzante una decisione allo stato nascente ci informi delle sue possibili conseguenze, che affiorano dalle memorie emotive di esperienze pregresse. Questo meccanismo è stato chiamato da Damasio marcatore somatico: i meccanismi fisiologici scatenati da un’emozione grazie all’attivazione del sistema nervoso autonomo (il sudore, l’accelerazione cardiaca, la contrazione muscolare, le contrazioni gastrointestinali) sono quindi marcatori che illuminano le nostre decisioni ‘razionali’. Per provare questa sua teoria, il neurologo ha studiato il comportamento e le reazioni fisiologiche di persone che hanno subito danni alla corteccia orbitofrontale e ha notato che esse non mostrano quelle reazioni del sistema nervoso autonomo che normalmente si accompagnano a un’attivazione emotiva. Per es., al cospetto di immagini dal contenuto traumatizzante, queste persone non andavano incontro a quell’insensibile aumento della sudorazione cutanea (rivelabile attraverso la risposta di conduttanza cutanea o GSR, Galvanic Skin Resistance) che è invece evidente in persone dal cervello integro. Per valutare l’opportunità e utilità delle nostre azioni, vale a dire per prendere una decisione, la corteccia orbitofrontale deve servirsi di informazioni apprese sulla qualità emotiva dei diversi stimoli: le connessioni tra corteccia orbitofrontale e amigdala, una struttura coinvolta in emozioni primarie come la paura, fanno parte di un circuito atto a tener conto di diversi tipi di memorie emotive.
La paura e l’amigdala
Per quanto riguarda i rapporti tra amigdala ed emozione, le ricerche svolte da Joseph L. LeDoux (2007) indicano un forte coinvolgimento dell’amigdala nelle risposte di paura. L’amigdala è un nucleo del sistema limbico formato da neuroni che in prevalenza utilizzano il neurotrasmettitore noradrenalina, tipico del sistema nervoso simpatico. LeDoux ha sottoposto alcuni animali al cosiddetto condizionamento alla paura, una situazione sperimentale in cui gli animali ricevono una punizione o devono fronteggiare una situazione ansiogena in un ambiente particolare, ben connotato e quindi facilmente riconoscibile: in seguito al condizionamento (associazione tra uno stimolo doloroso e un suono) l’ambiente in cui si verifica l’associazione condizionata suscita reazioni di paura anche in assenza di punizioni, in quanto l’animale associa la punizione al contesto ambientale. Nel caso in cui l’amigdala sia stata lesa, gli animali non sono invece più condizionabili. Allargando questo approccio a livello umano, è stato anche accertato che l’amigdala si attiva in tutte le situazioni ansiogene o quando una persona osserva l’immagine fotografica di un volto che manifesta paura: ciò è stato interpretato come una prova che questo nucleo nervoso risponde a un programma genetico che governa vari aspetti di un’emozione primaria così importante. Va precisato che l’amigdala non si attiva quando si osserva un volto che esprime calma oppure un’emozione positiva come la gioia o lo stupore, ma soltanto quando il volto ha un’espressione di paura o terrore. Per contro, LeDoux ha anche osservato che nelle persone che hanno subito lesioni più o meno vaste dell’amigdala, queste reazioni di paura non si manifestano, così come sono assenti risposte a situazioni ambientali che comportano un pericolo.
Lo studio delle risposte emozionali di paura ha indicato come queste facciano capo a complessi meccanismi cerebrali. Secondo le descrizioni ‘classiche’, uno stimolo ansiogeno verrebbe convogliato verso il talamo e da qui verso la corteccia sensoriale (che lo connota nei suoi dettagli); dalla corteccia l’informazione verrebbe inviata all’amigdala che, a sua volta, attiva diverse regioni cerebrali coinvolte in diversi aspetti dell’emozione. In altre parole il percorso dell’emozione sarebbe: talamo → corteccia → amigdala. L’informazione verrebbe prima riconosciuta e poi inviata al sistema limbico (amigdala) per un’appropriata risposta emotiva: per definire la situazione in termini positivi o negativi la corteccia avrebbe pertanto necessità di ricorrere all’amigdala. Di recente, però, è stato accertato che esiste una via nervosa diretta tra il talamo e l’amigdala: quest’ultima risponderebbe quindi in modo emotivo agli stimoli e situazioni prima che la corteccia interpreti la circostanza, secondo il seguente schema: talamo → amigdala → corteccia. Per es., in risposta a uno stimolo minaccioso, l’amigdala produrrebbe reazioni del sistema vegetativo accelerando il ritmo cardiaco, determinando un aumento pressorio e attivando il tono muscolare in modo da preparare l’organismo all’attacco o alla fuga. L’amigdala, inoltre, attraverso l’ipotalamo, stimola l’ipofisi che produce gli ormoni tipici delle situazioni di stress. Per essere ansiogeno – cioè per generare paura – uno stimolo deve avere alcune caratteristiche, in parte innate (che l’amigdala decodifica ‘istintivamente’, senza aver bisogno di esperienze precedenti), in parte apprese, cioè legate a esperienze precedenti e quindi a un contesto particolare.
Alcune emozioni conferiscono quindi una dimensione fondamentale alla nostra mente e alla nostra coscienza. Per es., in seguito alle reazioni emotive più semplici, come quelle indotte da un rumore improvviso, da uno stimolo che minaccia la nostra incolumità, da una gioia inattesa, la corteccia valuta ciò che succede nel suo corpo e prende coscienza, sia pure con qualche ritardo, delle reazioni che sconvolgono, in positivo come in negativo, la nostra psiche. In altri casi, l’emozione nasce prima nella nostra mente e viene poi comunicata al corpo. Non è tuttavia essenziale stabilire cosa venga prima e dopo nella catena di eventi che caratterizzano l’emozione, ossia se la sequenza sia questa:
stimolo → reazione cerebrale → reazione del corpo → valutazione cognitiva → ulteriore reazione del corpo,
cioè una sequenza che privilegia una iniziale risposta ‘istintiva’ e automatica e una successiva valutazione cognitiva, oppure questa:
valutazione cognitiva → reazione cerebrale → reazione del corpo → ulteriore valutazione cognitiva,
in cui, a seguito di una valutazione cognitiva, viene innescata una reazione cerebrale che induce a sua volta reazioni corporee di cui la mente prende atto, valutando ulteriormente il significato del ‘fenomeno’. Ciò che è importante è che nel nostro cervello esistono meccanismi che comportano una cascata di eventi, attivazioni di circuiti nervosi che pongono in allerta corpo e mente e che comportano reazioni abbastanza stereotipate.
Tenendo presenti queste premesse, si comprende quindi come Damasio consideri i deficit emotivo-comportamentali in termini di un danno al sistema di marcatura somatica che comporta una vera e propria forma di sociopatologia. I cosiddetti marcatori somatici aiutano pertanto il soggetto nel prendere decisioni, collegando alle rappresentazioni interne determinati stati del sistema nervoso autonomo. In questo modo una persona, nel fronteggiare una situazione, è in grado di selezionare il comportamento appropriato in base alla sensazione soggettiva di malessere o benessere. Quando un marcatore somatico negativo è associato a un particolare esito nel futuro, la combinazione funziona come un campanello d’allarme; quando invece interviene un marcatore positivo, esso diviene un incentivo. In breve, i marcatori somatici vengono acquisiti attraverso l’esperienza, sotto il controllo di un sistema di preferenze interne e l’influenza di un insieme di circostanze che si estende a includere convenzioni sociali e norme etiche: ma nel caso dei danni della corteccia frontale e del circuito corteccia frontale-gangli della base-corteccia frontale, l’assenza di marcatori fa sì che le valutazioni morali siano carenti.
Emozione e cognizione: un sottile intreccio tra corpo e mente
Giunti a questo punto, come risolvere le contraddizioni tra quelle teorie che guardano all’emozione alla luce di interpretazioni prevalentemente meccanicistiche e deterministiche e quelle teorie che sottovalutano le componenti biologiche dell’emozione per considerarle essenzialmente dal punto di vista delle esperienze individuali, cioè come fatti privati, non codificabili? Un primo aspetto da considerare è che, se si inquadrano le emozioni da un punto di vista prevalentemente biologico, il modello è più complesso di quello secondo il quale uno stimolo particolare induce una particolare risposta emotiva: per es., James P. Flynn (Patterning mechanisms, patterned reflexes, and attack behavior in cats, «Nebraska symposium on motivation», 1972, 20, pp. 125-53) ha indicato che gli «schemi motori» che caratterizzano un’emozione (le espressioni facciali, le posture corporee ecc.) non sono risposte basate su puri e semplici riflessi ma eventi «stato dipendenti» nel senso che alcuni stimoli possono scatenare complessi programmi motori nel caso in cui lo stato interno dell’organismo sia adeguato. Per es., lo stato di attivazione del sistema nervoso vegetativo, che può variare in base a numerosi fattori, da quelli umorali a quelli legati all’azione di droghe a quelli cognitivi, può far sì che un particolare stimolo induca una particolare risposta emotiva invece di un’altra. Si spiegano così i risultati di diversi esperimenti in linea con quelli condotti anni or sono da Stanley Schachter e Jerome E. Singer (Cognitive, social and physiological determinants of emotional state, «Psycho-logical review», 1962, 69, pp. 379-99), che indicano come l’alterazione dello stato interno di una persona, ottenuta iniettandole una sostanza come l’adrenalina o l’amfetamina che modifichi il suo stato vegetativo, induca un tipo di reazione, per es. la paura, se gli input ambientali sono di tipo ansiogeno, ma possa indurre un’altra emozione, per es. aggressività o esaltazione, se gli input sono di altro tipo. L’emozione e le sue componenti espressive e motorie dipenderebbero quindi da un intreccio tra stato interno e stimoli che agiscono sull’organismo e questi ultimi richiedono una interpretazione ‘corretta’, pena risposte emotive incongrue.
Questo tipo di spiegazione può chiarire i risultati dei primi esperimenti di stimolazione ipotalamica effettuati a partire dagli anni Trenta del 20° sec. da Walter R. Hess (1881-1973), che erano stati definiti in termini di puri automatismi. Attraverso la stimolazione di alcuni nuclei dell’ipotalamo Hess induceva infatti risposte emotive nell’animale sperimentale e, in particolare, comportamenti di attacco immotivato noti come falsa rabbia. L’animale stimolato, generalmente un gatto, digrignava i denti, si apprestava ad attaccare senza motivo altri animali o lo sperimentatore e manifestava reazioni di attivazione del sistema nervoso vegetativo come dilatazione della pupilla, orripilazione e così via. In realtà, come hanno indicato successive ricerche in numerosi casi, la stimolazione dell’ipotalamo o del sistema limbico – e probabilmente della stessa sostanza nera – fa sì che uno stimolo esterno venga male interpretato o che la soglia di reazione agli stimoli si abbassi in quanto viene a mancare un freno inibitorio, un meccanismo di blocco che inibisce l’attivazione di uno schema motorio precostituito. Sulla base di questa interpretazione, la stimolazione dell’ipotalamo o di altre strutture avrebbe essenzialmente un effetto disinibitorio, rimuoverebbe cioè un blocco o uno stato di ‘soppressione tonica’ facendo in modo che alcuni stimoli agiscano su un centro che controlla la motricità da cui partono ‘output’ motori, sequenze organizzate di azioni muscolari che si traducono in espressioni facciali e posture somatiche. La selezione naturale avrebbe prescelto una serie di sequenze motorie corrispondenti a espressioni facciali tipiche di una particolare emozione ed esse si troverebbero in una situazione di blocco che viene rimosso dalla presenza di alcuni stimoli, come avviene nel caso della stimolazione ipotalamica. In altri esperimenti è stato appurato che alcune sequenze motorie possono manifestarsi in assenza di un appropriato contesto cognitivo: si tratta però di sequenze motorie che non sono integrate in un’emozione organizzata, come si verifica in situazioni più reali. In sostanza, nella falsa rabbia del gatto di cui venga stimolato l’ipotalamo o nell’espressione di tristezza di pazienti in cui viene stimolata la sostanza nera, una struttura dei gangli della base (B.-P. Bejjani, Ph. Damier, I. Arnulf et al., Transient acute depression induced by high-frequency deep-brain stimulation, «New England journal of medicine», 1999, 340, 19, pp. 1476-80), si verifica una dissociazione tra espressione facciale ed emozione reale. In una simile direzione si pongono i risultati di esperimenti effettuati da Paul Ekman (Emotion in the human face, 1982) in un contesto ‘neutro’, vale a dire privo di valenze emotive: in questa situazione, il semplice atteggiare il volto a un’espressione facciale di gioia o tristezza può indurre alterazioni somatiche (ritmo cardiaco, attivazione di strutture cerebrali, modifiche della pressione arteriosa) tipiche di quella particolare emozione. In questo caso l’espressione facciale recitata, cioè la tensione o il rilassamento dei diversi muscoli responsabili di una particolare maschera emotiva, si traduce in segnali che, arrivando al cervello, convincono la mente che il corpo sta vivendo una situazione di gioia o tristezza, e questo, incidentalmente, indica che non è soltanto il centro, cioè il cervello-mente, a influenzare la periferia, cioè il corpo e i suoi muscoli, ma che si verifica anche il contrario.
Una teoria dell’emozione che concili le posizioni di tipo naturalistico con quelle più aperte alle connotazioni individuali delle esperienze deve tenere conto sia delle radici biologiche, e quindi delle componenti stereotipate dei diversi stati emotivi, sia delle componenti individuali delle singole esperienze. Le prime, tipicamente le espressioni facciali, le alterazioni umorali e somatiche, sono il risultato di un processo selettivo che ha conferito loro una valenza transculturale: esse sono legate a componenti vegetative e a programmi motori iscritti nel nostro cervello. Gli studiosi delle basi neurofisiologiche dell’emozione ritengono che gli automatismi motori dipendano in gran parte da schemi o ‘memorie’ che codificano l’espressione delle singole emozioni e che sono modulate dai gangli della base, le strutture nervose che hanno un ruolo critico in vari tipi di memorie procedurali ed esperienze ricorrenti. I gangli della base, tra cui l’accumbens, sono coinvolti in diversi aspetti della motivazione – comportamenti collegati a rinforzi positivi e negativi –, memorie motorie legate a contesti specifici: queste strutture nervose codificano quei programmi che si ripetono nel tempo, memorie motorie ricorrenti, espressioni stereotipate, schemi comportamentali associati a rinforzi che provengono dall’ambiente esterno, quali premi o disincentivazioni, e dall’ambiente interno, quali situazioni di benessere o malessere. La componente individuale dell’emozione non ha invece un carattere meccanico e stereotipato in quanto rimanda ai significati dell’esperienza emotiva, all’esistenza di schemi e concezioni generali che conferiscono unitarietà al fenomeno dell’esperienza e la inseriscono nell’ambito di un più vasto schema o visione del mondo: questa componente personale dell’emozione dipende dalla corteccia cerebrale e in particolare da quella frontale. In sostanza, come avviene per altri aspetti del comportamento, i gangli della base potenziano e richiamano regole innate ed esperienze precedenti basate su particolari contesti ambientali e storie di rinforzi, mentre la corteccia frontale entra in funzione quando vengono apprese nuove regole ed esperienze, e/o vengono scartate le precedenti.
Emozione e scelte morali
L’aumento delle conoscenze in campo neuroscientifico e la possibilità di visualizzare con tecniche di brain imaging come la PET (Positron Emission To-mography) o la RMF (Risonanza Magnetica Funzionale) le aree coinvolte in dinamiche emotive e motivazionali (sistemi di rinforzo cerebrali) hanno portato negli ultimi anni allo sviluppo di ricerche nel campo dell’etica e dell’economia. Per quanto riguarda quest’ultimo settore, i risultati di numerose ricerche indicano che alcune aree del cervello coinvolte nella segnalazione di un rinforzo concreto o della sua anticipazione entrano in gioco quando viene valutato il possibile vantaggio economico di un’azione: queste aree esistono persino nelle scimmie e si attivano quando gli animali calcolano il beneficio che può derivare da una particolare ricompensa. Se, per es., si manipola la procedura attraverso cui uno scimpanzé ottiene un premio, i neuroni dell’animale sono più o meno attivi a seconda dell’entità della ricompensa attesa: maggiore è il premio previsto, maggiore l’attività dei neuroni. Questo meccanismo è fondamentalmente identico a quello che ci induce a valutare quale sarà il guadagno di un possibile investimento e quindi a guidarci in una presa di decisione che comporta anche componenti emotive e non soltanto cognitive, come sostenevano i classici modelli normativi dell’economia basati sulla massimizzazione del profitto. Ma è probabilmente nel campo dell’etica che le implicazioni tra emozione e condotte morali hanno avuto il maggiore impatto, anche in quanto pongono in discussione alcuni aspetti tradizionali del libero arbitrio.
Uno degli esperimenti che hanno suscitato maggior clamore per le correlazioni che sono state tracciate tra giudizi morali e funzionamento del cervello è quello effettuato da due psicologi cognitivi, Joshua Greene e Jonathan Haidt (2002). Si immagini che un pesante carrello senza freni stia per investire, e presumibilmente uccidere, un gruppo di cinque persone e che si abbia la possibilità di azionare uno scambio e fare in modo che il carrello venga deviato su un binario dove ucciderà una sola persona. È giusto azionare quello scambio? Ora si immagini che il solo modo per salvare quelle cinque persone consista nello spingere un uomo di grosse dimensioni sotto il carrello uccidendolo ma salvando gli altri: è giusto compiere questa azione? La maggior parte delle persone approva la prima scelta e disapprova la seconda: un conto è deviare il corso del carrello impazzito, un altro è spingere con le proprie mani un individuo e provocarne la morte. Questo test metterebbe in campo due tipi di ragionamento morale, uno personale e l’altro impersonale: secondo i due autori – alla luce delle posizioni di Thomas Nagel (Mortal questions, 1979; trad. it. 1986) – sono di tipo personale quelle violazioni che causano un danno fisico grave, lo causano a una particolare persona e non si limitano a deviare una minaccia nei confronti di un gruppo di persone. Una violazione morale è invece impersonale quando non soddisfa questi tre criteri. Un danno personale può essere definito in termini di ‘io danneggio te’ e sottende violazioni che anche uno scimpanzé può comprendere: così ‘danneggiare’ implica assalire un altro (piuttosto che evadere il fisco), ‘te’ comporta poter rappresentare la vittima come un individuo, ‘io’ sottende la nozione di agente, ossia il concetto che una particolare azione dipende dalla volontà di un agente piuttosto che da una sua correzione. Spingere qualcuno sotto un carrello soddisfa tutti e tre i criteri ed è quindi un’azione personale, tale da generare un senso di colpa.
Come si vede, i giudizi morali vengono inquadrati in un’ottica evolutiva o naturalistica: questo approccio tuttavia non è soltanto teorico, ma si basa su dati empirici ottenuti grazie a studi di brain imaging che visualizzano le aree del cervello attive in una particolare situazione. Diverse ricerche e analisi indicano infatti che il cervello reagisce in modo differente alle situazioni che comportano un dilemma personale o impersonale: nel primo caso si attivano quelle aree che sono normalmente coinvolte in tutti i processi di tipo sociale ed emotivo, come il giro frontale mediale, quello cingolato posteriore e quello angolare. Nel caso dei giudizi impersonali si attivano quelle aree, prefrontale e parietali, che sono implicate nella memoria di lavoro e quindi nei giudizi di tipo analitico. Ma c’è di più: le persone impiegano pochissimo tempo per condannare le violazioni morali di tipo personale, ne impiegano molto di più per approvare o disapprovare quelle di tipo impersonale. Questi dati sono stati suffragati da studi condotti da Jorge Moll e dai suoi collaboratori (J. Moll, R. de Oliveira-Souza, I.E. Bramati, J. Grafman, Functional networks in emotional moral and nonmoral social judgments, «Neuroimage», 2002, 16, 3, pp. 696-703) che indicano come nei giudizi morali venga attivata una rete che include la corteccia orbitofrontale mediale e il solco temporale superiore dell’emisfero sinistro; al contrario, i giudizi che coinvolgono emozioni ma che non sono di ordine morale coinvolgono l’amigdala, il giro linguale e il giro orbitale laterale.
Esiste anche un altro aspetto della ‘naturalità’ dei giudizi etici personali: la rapidità con cui si giunge a una scelta di tipo emotivo rispetto a un giudizio impersonale dipende, sulla base di un’interpretazione di tipo evolutivo, dal fatto che noi esseri umani, e i nostri antenati primati, siamo vissuti in piccoli gruppi dove la violenza si verificava solo in forma personale e ravvicinata, colpendo, strangolando, usando pietre o bastoni. Questo esercizio della violenza è stato associato, sin da tempi remoti, all’emozione ed è per questa ragione che il pensiero di arrecare direttamente danno a qualcuno suscita emozione e serve da marcatore somatico – secondo la terminologia di Damasio – per contrassegnare ogni tipo di violenza diretta. Le ricerche svolte da Greene e Haidt (2002) ci aiutano a prendere atto delle nostre intuizioni morali, senza che necessariamente esse siano valide: anzi, questi studi potrebbero essere considerati sotto una luce diversa e dirci che il nostro intuito sbaglia.
L’emozione, attraverso le strutture cui fa capo, ci guiderebbe quindi nei giudizi interpersonali o sociali. Tuttavia, gli studi di brain imaging che sembrano convalidare questa tesi lasciano aperto qualche interrogativo: le aree cerebrali implicate nei giudizi di tipo personale hanno un ruolo primario, cioè sono ‘naturalmente’ la sede di quei giudizi morali che hanno una valenza emotiva, oppure implicano un processo di marcatura emotiva che si svolge a posteriori? In altre parole, i giudizi morali personali sono avvalorati da quei processi emotivi che conferiscono loro una coloritura ‘calda’? Una recente ricerca a opera del gruppo di Damasio (Koenigs, Young, Adolphs et al. 2007), svolta su pazienti con una lesione ventromediale della corteccia prefrontale, indica che in assenza della risposta emotiva mediata da quest’area della corteccia vengono effettuate scelte utilitaristiche in quanto, come nota Matteo Motterlini, queste persone «non hanno conflitto tra affetti e cognizione da risolvere, nessuna negoziazione tra intuizione e ragione da operare» (La morale, che passione!, «Il Sole-24 ore», 25 marzo 2007, p. 38). Perciò, se gli esseri umani rifiutano l’utilitarismo, come commenta Damasio, ciò sarebbe legato al dispiegarsi delle emozioni sociali. Nel corso dell’evoluzione si sarebbe pertanto accumulata una saggezza che premia una forma ibrida di giudizio morale in cui si uniscono ragione ed emozione.
Resta però il fatto che queste ricerche, e in particolar modo quelle svolte da Greene e Haidt, non ci spiegano perché e come si verifichino violazioni alle norme morali e come siano tra loro conciliabili diverse teorie dei valori. In merito a questo punto, in un differente contesto di problemi e fuori dall’ambito delle ricerche neurologiche, si è espressa la filosofa Roberta De Monticelli (L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, 2003), che considera il cuore una particolare struttura interna alla vita affettiva di ciascun individuo, lo «strato del sentire personale». Questo strato è sede di sentimenti, cioè di risposte affettive, ed è il fondamento dell’etica, in quanto sono queste risposte affettive a creare degli ordini di priorità. Il cuore è così a mezza via tra l’essere di una persona e il suo agire e conoscere morale: cuore è quel che io sono intimamente, ed è il principio che orienta le mie scelte, predilezioni, avversioni. Poiché gli esseri umani sentono affettivamente e sensibilmente (percepiscono, soffrono, gioiscono ecc.), elaborano di conseguenza gerarchie e strutture di valore che orientano il loro agire e la loro valutazione dell’agire altrui. In qualche modo questa interpretazione concilia l’approccio naturalistico, vale a dire il significato evolutivo e la matrice psicobiologica, con le teorie dell’emozione centrate sulla persona e su un approccio fenomenologico.
Gli enormi progressi che sono stati compiuti dalle neuroscienze, e in particolare la loro capacità di visualizzare quelle parti dell’encefalo che sono coinvolte in una specifica funzione, non legittimano ogni forma di facile riduzionismo per cui ogni singolo evento mentale coincide con la parte di cervello in cui esso ha sede e può essere chiarito analizzando quella specifica struttura nervosa che ne caratterizza la realizzazione: non si può infatti prescindere da categorie psicologiche quali scopi, intenzioni e credenze, anche se ben difficilmente queste categorie possono essere affrontate nell’ambito di un’ottica prettamente biologica. È inoltre indubbio, come è stato indicato in precedenza, che oggi l’emozione non possa essere considerata totalmente scissa o in opposizione alle funzioni cognitive: non esiste infatti funzione esecutiva (prestare attenzione, tenere in memoria un’informazione, perseguire un piano, attendersi conseguenze da un’azione ecc.) priva di risvolti emozionali, come non esiste emozione che non tenga conto di fattori esperienziali.
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