neuropeptidi
Neuropeptidi e patologie nervose
L’azione coordinata di numerosi neurotrasmettitori e neuropeptidi è responsabile della conservazione di particolari complesse funzioni cerebrali come l’analgesia, il consumo di cibo, l’apprendimento, la memoria. Di conseguenza l’eziopatogenesi di disturbi di queste funzioni non si verifica quasi mai per la disregolazione di un singolo neurotrasmettitore ma per un disequilibrio di più sistemi correlati morfologicamente e funzionalmente. In varie patologie centrali, accanto alle disregolazioni nel contenuto di neurotrasmettitori classici – estensivamente studiate –, negli ultimi anni sono state dimostrate varie anomalie nel contenuto di neuropeptidi o dei corrispettivi recettori a livello cerebrale.
Per molti neuropeptidi sono state dimostrate implicazioni fisiopatologiche a livello delle funzioni cerebrali, ma solo per alcuni si è passati dalla sperimentazione animale allo studio clinico nell’uomo, trovando una possibile applicazione in terapia per i loro analoghi di sintesi o i loro antagonisti. Un esempio rappresentativo è costituito dalle tachichinine, implicate in patologie neurodegenerative come la malattia di Parkinson e quella di Alzheimer. La malattia di Parkinson è causata dalla degenerazione dei neuroni dopamminergici nella substantia nigra. Tali neuroni sono ricchi di recettori per le tachichinine e, nel cervello di pazienti malati di Parkinson, è stata riscontrata una diminuzione nel contenuto di sostanza P e del suo precursore. Nel caso della malattia di Alzheimer la sostanza P è correlata alla memoria e all’apprendimento, essendo questo peptide ampiamente distribuito nelle aree cerebrali legate a queste funzioni. In partic., è stato dimostrato che in questa patologia i neuroni contenenti sostanza P nel nucleo di Meynert risultano degenerati e che esiste una notevole diminuzione dell’immunoreattiva relativa al contenuto di sostanza P nei neuroni colinergici di varie aree cerebrali. Il ruolo della sostanza P è stato inoltre studiato nei disordini psichiatrici, basandosi sull’osservazione che i suoi antagonisti possiedono attività antidepressiva negli animali, analoga a quella degli antidepressivi serotoninergici utilizzati in terapia. In partic., studi clinici hanno evidenziato che un antagonista NK1, l’MK-869, possiede attività antidepressiva paragonabile a quella della paroxetina, ma con minori effetti collaterali. Il meccanismo attraverso il quale questo peptide esercita la sua azione non è stato completamente chiarito, ma sembra che la sostanza P sia in stretta correlazione con i neuroni contenenti noradrenalina e serotonina, sui quali agiscono i classici farmaci antidepressivi. Questo studio clinico ha dimostrato per la prima volta la possibilità di trattare per via orale con un antagonista non peptidico un disordine mentale maggiore, agendo a livello di alterazioni che coinvolgono i neuropeptidi. Inoltre, nel 2006 è stato approvato l’utilizzo di questo stesso antagonista della sostanza P nella terapia antiemetica in pazienti sottoposti a chemioterapia, da solo o in combinazione con antagonisti 5-HT3 e cortisonici. Gli antagonisti NK1 sono stati utilizzati nello studio sperimentale dell’emicrania acuta, essendo la sostanza P un mediatore del dolore e dell’infiammazione. Un altro esempio è rappresentato da due peptidi dotati di attività neuroprotettiva, VIP (Vasoactive Intestinal Polypeptide) e PACAP (Pituitary Adenylate Cyclase- Activating Peptide). Questi peptidi hanno infatti la capacità di stimolare la sintesi e la secrezione di nuovi fattori di crescita come l’ADNP (Activity- Dependent Neurotrophic Protein), che si è dimostrato essenziale per la formazione delle strutture cerebrali. Un derivato dell’ADNP, composto da solo 8 amminoacidi, il NAP (Neurotrophic-Activating Peptide), dotato di potente azione neuroprottetiva e della capacità di attraversare la barriera ematoencefalica, è stato selezionato per studi clinici sulla prevenzione del danno neuronale dopo ischemia cerebrale. I neuropeptidi esercitano la loro azione soprattutto quando il cervello si trova in condizione di stress o afflitto da patologie. Secondo Tomas Hokfelt, ciò suggerisce che la comunicazione peptidergica rappresenta un linguaggio fisiologico utilizzato soprattutto dal cervello danneggiato, aprendo la strada alla possibilità di intervenire sul sistema peptidergico per lo sviluppo di sempre nuovi farmaci.
Per chiarire l’entità del coinvolgimento di un neuropeptide in una data patologia sono stati utilizzati animali transgenici che non producono o, al contrario, sovraesprimono i neuropeptidi. Infatti, la delezione di specifici recettori per neuropeptidi è stata impiegata per determinare quali azioni sono specificamente mediate da neuropeptidi e quali da classici neurotrasmettitori. La sovraespressione di un neuropeptide può invece chiarire quali possano essere i possibili effetti, anche collaterali, di un agonista farmacologico per quel recettore. Nello sviluppo di potenziali farmaci in grado di interagire con alterazioni nel sistema peptidergico esistono tre diverse possibilità: l’utilizzo di agonisti, di antagonisti recettoriali o di inibitori della degradazione enzimatica allo scopo di aumentare la biodisponibilità del neuropeptide. Nel caso dell’utilizzo di agonisti peptidici ci sono però dei problemi correlati alla natura strutturale di queste molecole, primo fra tutti il fatto che i peptidi non possono essere somministrati per via orale perché rapidamente inattivati dagli enzimi gastrointestinali. Inoltre, nel caso dei neuropeptidi che agiscono nel sistema nervoso centrale è necessario avere a disposizione composti che possano attraversare efficacemente la barriera ematoencefalica. L’approccio più utilizzato nello sviluppo di potenziali farmaci che interagiscano con il sistema peptidergico è indirizzato allo studio di molecole, sia agonisti sia antagonisti di natura non peptidica, dotate di queste caratteristiche e di elevata selettività recettoriale.