Neuropsicologia del linguaggio
Da circa un secolo e mezzo nell’ambito degli studi scientifici sulla mente si è progressivamente sviluppata l’idea che il linguaggio, come le altre facoltà cognitive, rappresenta il prodotto finale di un ‘organo mentale’ specifico della nostra specie, sostenuto da una struttura fisica dedicata posta all’interno del sistema nervoso centrale. Una struttura non monolitica, ma costituita da più componenti distinte, moduli, che, nel loro insieme, formano un’architettura funzionale e anatomica, la cui natura può essere indagata sperimentalmente.
La ricerca delle basi biologiche del linguaggio non si è limitata a chiarire le modalità secondo le quali le unità astratte che lo compongono sono rappresentate all’interno del sistema nervoso, ma ha consentito di verificare, modificare o infine proporre nuovi modelli teorici sottostanti il linguaggio. Questi risultati sono stati ottenuti sia attraverso lo studio di persone che in seguito a una lesione cerebrale hanno perso una o più componenti del sistema linguistico, divenendo afasiche, sia, più recentemente, attraverso l’uso delle nuove tecnologie di visualizzazione cerebrale in vivo (o neuroimag-ing), come la PET (Positron Emission Tomography) e la fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging).
Anatomia del linguaggio
I primi e per molti versi fondamentali contributi allo sviluppo di modelli neurologici e funzionali di elaborazione del linguaggio sia parlato sia scritto derivano dall’analisi delle correlazioni fra la perdita di una componente del sistema linguistico conseguente a una lesione cerebrale acquisita (afasia) e il riscontro post mortem della lesione cerebrale sottostante.
Si sono così sviluppati, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, modelli di elaborazione del linguaggio che postulavano, da un lato, una separazione fra conoscenze linguistiche e patrimonio intellettivo e, dall’altro, una distinzione anatomica e funzionale fra strutture e processi deputati alla produzione e alla comprensione del linguaggio parlato.
Il modello più conosciuto e ancora oggi più diffuso, specie in ambito clinico, è quello risalente a Karl Wernicke (Der aphasische Symptomenkomplex. Eine psichologische Studie auf anatomischer Basis, 1874). Secondo il famoso neurologo, il linguaggio è separato dal pensiero: persone divenute sorde prima che il linguaggio si sia sviluppato (sordi preverbali) possiedono in genere un normale patrimonio cognitivo; nelle prime fasi di apprendimento del linguaggio il bambino può ripetere parole di cui non conosce il significato.
Per Wernicke le strutture critiche per l’elaborazione del linguaggio parlato sono situate all’interno dell’emisfero sinistro (lo stesso che controlla la preferenza manuale in oltre il 90% della popolazione, ed è definito perciò come dominante): nell’area di Broca (dal nome del neurologo che nel 1861 descrisse il primo caso di perdita della facoltà del linguaggio articolato conseguente a una lesione cerebrale), posta anteriormente all’area motoria corrispondente alla rappresentazione dei muscoli fonoarticolatori e localizzata nella circonvoluzione frontale inferiore sinistra, sono depositati i programmi motori necessari per l’articolazione delle parole. Di conseguenza, una sua messa fuori uso (per una causa vascolare, traumatica o di altro genere) porterà a un disturbo di produzione del linguaggio parlato e scritto, mentre la comprensione linguistica sarà clinicamente nella norma (afasia di Broca). Nell’area di associazione acustica, situata nella parte posteriore della circonvoluzione superiore temporale sinistra, in stretta connessione con l’area acustica primaria, avviene invece il processo di decodificazione del linguaggio, per cui gli stimoli uditivi sono trasformati in unità linguistiche, i fonemi. Una lesione a livello di tale zona si evidenzierà con un deficit selettivo della comprensione del linguaggio, sia parlato sia scritto (afasia sensoriale o di Wernicke). Le due aree sono comunicanti attraverso una connessione corticale diretta a livello del fascicolo arcuato interno. La figura 1 rappresenta il modello di elaborazione del linguaggio creato da un allievo di Wernicke, Ludwig Lichteim (Über Aphasie. Aus der medizinischen Klinik in Bern, «Deutsches Archiv für klinische Medizin», 1885, 36, pp. 206-68; trad. ingl. On aphasia, «Brain», 1885, 7, pp. 433-84): tale modello prevede l’esistenza di un livello inferiore dove vengono elaborate le componenti sensorio-motorie (aree di Broca e Wernicke) e un livello superiore dedicato all’elaborazione semantico-lessicale. Un sistema di fibre permette lo scambio di informazioni fra i centri.
All’interno di questo modello, la comprensione del linguaggio è possibile attraverso l’attivazione dell’immagine acustica della parola che, a sua volta, attiva un insieme distribuito di immagini sensoriali e motorie, responsabili della rappresentazione concettuale specifica per la parola. Di converso, la produzione spontanea inizia dall’attivazione della rappresentazione concettuale che, a sua volta, attiva in parallelo le immagini motorie e sensoriali associate al concetto. La lettura ad alta voce è possibile attraverso una connessione diretta fra il centro delle immagini visive e il centro motorio per l’articolazione delle parole, mediante un processo di transcodificazione grafema-fonema; il processo opposto permette la realizzazione della scrittura.
Nuovi modelli neurologici del linguaggio
L’introduzione nella pratica clinica e nella ricerca dei nuovi metodi di neuroimaging, quali la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) e la RM (Risonanza Magnetica), associata al crescente interesse da parte di psicologi e linguisti per lo studio dei disturbi afasici, ha reso possibile correlare in vivo e con sempre maggiore precisione la lesione cerebrale al deficit linguistico, analizzato alla luce di sofisticati modelli teorici di elaborazione del linguaggio.
Contrariamente al paradigma statico su cui si basa il metodo di correlazione anatomo-clinico, i nuovi metodi di indagine funzionale, PET e fMRI, permettono di indagare, in soggetti sani, le relazioni fra strutture neurali e funzione in maniera diretta, non basandosi sull’impatto della lesione cerebrale sul linguaggio, ma rilevando, con estrema precisione anatomica, gli indici dell’attività neuronale del cervello normale in azione. Per es., Daniela Perani e i suoi collaboratori, in uno studio PET su soggetti normali (Perani, Cappa, Schnur et al. 1999), hanno dimostrato che l’elaborazione di parole di differente classe grammaticale o semantica (nomi, verbi, parole astratte) attiva, all’interno dell’emisfero sinistro, aree diverse.
È stato così possibile non solo confermare la topografia e verificare l’organizzazione interna delle classiche aree del linguaggio (Broca e Wernicke) e la loro integrazione con altre aree corticali e sottocorticali che contribuiscono a formare una rete neurale di larga scala, ma anche fornire un apporto sperimentale a nuovi modelli neurologici sottostanti le abilità linguistiche.
Andrea Moro e i suoi collaboratori (Moro, Tettamanti, Perani et al. 2001), in uno studio PET su soggetti normali, hanno dimostrato un’attivazione dell’area di Broca e dell’area omologa dell’emisfero destro durante compiti di elaborazione morfosintattica. Nello stesso studio, inoltre, si è osservata un’attivazione del nucleo caudato sinistro e dell’insula soltanto durante il compito sintattico.
Darren R. Gitelman e i suoi collaboratori (Gitelman, Nobre, Sonty et al. 2005), in uno studio fMRI, hanno sottoposto un gruppo di soggetti normali a un compito di elaborazione di parole che prevedeva due tipi di presentazione (uditiva e scritta) e tre tipi di analisi (semantica, fonologica e ortografica). Il primo compito consisteva nel decidere se due parole fossero sinonimi (lapis-matita); il secondo se rimassero (attore-colore); il terzo se fossero composte dalle stesse lettere (pera-rape). È stato rilevato un pattern di attivazione neuronale, comune per tutte le prove, nelle aree ventrolaterale frontale, supplementare motoria e temporoccipitoparietale dell’emisfero sinistro, nell’insula e nel lobo destro del cervelletto. Il compito semantico attivava invece le parti più anteriori del lobo frontale di sinistra e la porzione laterale della corteccia temporale, mentre un’attivazione frontale posteriore si verificava nei compiti di analisi fonologica; un’attivazione parietale sinistra era infine evidente nei compiti di analisi ortografica.
Un approccio diverso, non modulare, è stato invece proposto da alcuni autori che postulano un legame fra rappresentazione motoria e percettiva del linguaggio: per es., Friedemann Pulvermüller e i suoi collaboratori (Pulvermüller, Huss, Kherif et al. 2006), in uno studio fMRI su soggetti normali, hanno dimostrato che durante l’ascolto di fonemi occlusivi bilabiali (/p/) e dentali (/t/) si registra un’attivazione contemporanea sia a livello delle aree uditive del lobo temporale sia delle aree motorie precentrali, con un’ulteriore specificazione a seconda del fonema elaborato: in corrispondenza della rappresentazione motoria delle labbra per /p/ e della lingua per /t/.
Tali dati si accordano bene con quelli ricavati dalla scoperta del sistema dei neuroni specchio (Rizzolatti, Sinigaglia 2006): accanto a neuroni visuomotori ‘canonici’ che rispondono alla presentazione di uno stimolo visivo, nella corteccia premotoria frontale (area 5) della scimmia è stata identificata una particolare classe di neuroni che si attivano sia durante l’esecuzione sia durante l’osservazione di azioni compiute da un’altra scimmia o dallo sperimentatore. Successivamente, è stato identificato un sistema specchio più ampio che interessa, oltre alle regioni frontali, anche i lobi parietali, e che si attiva quando si osservano azioni eseguite sia con gli arti sia con i muscoli orofacciali e si ascoltano i suoni corrispondenti. Il sistema dei neuroni specchio potrebbe quindi rappresentare il meccanismo neurofisiologico attraverso il quale il linguaggio si è sviluppato, a partire da un’origine primitivamente gestuale della comunicazione.
Il passo successivo è tentare di definire, in termini sia temporali sia funzionali, il passaggio dal gesto alla comunicazione uditivo-orale. L’ipotesi più plausibile è quella di un passaggio graduale da una modalità all’altra, attraverso mutazioni successive, permettendo la progressiva introduzione a scopo comunicativo di movimenti orofacciali, fino ad arrivare alla vocalizzazione. Ancora oggi, d’altronde, gesti manuali sincronizzati con la parola fanno parte della comunicazione linguistica, come per ricordare una comune origine. È ben evidente una forte somiglianza fra i movimenti facciali eseguiti dall’uomo durante la produzione di fonemi e quelli eseguiti dai primati durante la produzione di suoni, come schiocchi delle labbra o della lingua o battere dei denti: per Michael Studdert-Kennedy (2000), la struttura motoria di base delle sillabe deriva dalla successione dei movimenti di apertura e chiusura della bocca usati nel processo di masticazione e deglutizione del cibo, fino a evolvere successivamente nei gesti tipici della fonazione.
Basi neurologiche della lingua dei segni
Lo studio di pazienti sordi profondi che, in seguito a un ictus cerebrale, hanno perso la capacità di usare la lingua dei segni, ha permesso di dimostrare che le stesse aree che elaborano il linguaggio nella modalità orale-uditiva sono cruciali nell’elaborazione della lingua dei segni. Tali osservazioni cliniche sono state in gran parte confermate dagli studi di neuroimaging. In generale è stata riscontrata un’identità anatomica fra linguaggio parlato e segnato, osservando un’attivazione del giro prefrontale sinistro, all’altezza della regione di Broca, nei compiti sia impliciti sia espliciti di produzione di segni, mentre un’attivazione dell’area di Wernicke è stata rilevata in compiti di percezione della lingua dei segni.
In contrasto con i dati clinici, nei quali l’afasia dei segnanti si è riscontrata solo in seguito a una lesione dell’emisfero sinistro, alcuni studi di neuroimaging funzionale hanno evidenziato, oltre a un’attivazione delle regioni canoniche, una marcata attivazione del lobo parietale sinistro, specializzato nell’analisi visuo-spaziale, soprattutto durante l’elaborazione di frasi che richiedono un uso ‘referenziale’ dello spazio: nel linguaggio dei segni, infatti, alcune strutture linguistiche usano le caratteristiche spaziali dei ruoli semantici e il luogo di produzione in maniera topografica. Alcuni segni (classificatori) distinguono la forma, la consistenza e il numero degli elementi lessicali cui si legano; analogamente, nella produzione di frasi la forma della mano corrispondente ai verbi di moto si accorda con le caratteristiche fisiche degli oggetti (come sono maneggiati, la loro forma o funzione), specificando il percorso e la direzione del movimento del nome cui si riferiscono. Rispetto all’elaborazione di frasi ‘non topografiche’, in cui lo spazio segnato è usato unicamente come la regione per l’esecuzione di segni dove il movimento o la posizione del segno è puramente fonologica (per es., il fiore è rosso), nella produzione di una frase del tipo il professore ha criticato lo studente, il segno corrispondente a professore viene posto in posizione più alta, con il verbo che punta in basso verso studente. Si può quindi ipotizzare che, nei segnanti, il lobo parietale sinistro sia specificamente attivo nell’elaborare, nello spazio, l’esatta configurazione e localizzazione delle mani nel rappresentare oggetti, agenti e azioni.
Il lessico
Il sistema lessicale di una lingua è composto dall’insieme delle singole voci conosciute (circa 50.000 in una persona adulta). L’accesso a tale repertorio, sia in produzione sia in comprensione, è estremamente efficiente e rapido: possiamo, infatti, elaborare 3-4 parole al secondo, indipendentemente dalla scolarità e dalla lingua parlata. Le grammatiche tradizionali propongono una classificazione delle parole secondo criteri di tipo semantico, per cui la classe dei nomi è formata prevalentemente da parole che significano entità o oggetti, mentre la classe dei verbi è costituita soprattutto da parole che designano azioni o processi.
Di grande interesse neuropsicologico è la distinzione fra parole a classe aperta e parole a classe chiusa. La classe aperta, che comprende nomi, verbi, aggettivi e avverbi, è sottoposta a un continuo ricambio. La classe chiusa, formata da articoli, pronomi, preposizioni e congiunzioni, contiene invece un numero finito di membri e non si modifica nel tempo.
Organizzazione del lessico mentale
I modelli correnti di elaborazione lessicale sono in prevalenza di tipo multicomponenziale, e prevedono la presenza di un sistema semantico-concettuale amodale e di quattro lessici, due di entrata, fonologico e ortografico, e due di uscita (fig. 2). I lessici sono collegati con il sistema semantico, che viene attivato in entrata durante i compiti di comprensione uditiva o visiva, mentre il sistema stesso attiva i lessici di uscita fonologico e ortografico nei compiti di produzione. Infine, l’accesso ai lessici di entrata è preceduto da uno stadio di analisi ortografica o fonologica, mentre nel processo di produzione è prevista una connessione con sistemi di interfaccia, i buffer fonologici e ortografici, costituiti essenzialmente da magazzini di memoria a breve termine nei quali l’informazione viene conservata per il tempo necessario ad attivare il piano articolatorio oppure ortografico.
La validità di tale modello è stata per molti anni solo di natura neuropsicologica; soltanto di recente studi di neuroimaging funzionale hanno dimostrato aree differenti di attivazione cerebrale in compiti di elaborazione fonologica oppure semantica di parole presentate per via uditiva o scritta.
In alcuni pazienti è stata riscontrata una dissociazione fra denominazione scritta e orale, con deficit o risparmio selettivo per una modalità, per cui un paziente può scrivere correttamente il nome di un oggetto (sedia) ma, alla successiva richiesta di dirne il nome, ne indica uno errato (tavola). Tali casi sono particolarmente importanti anche nel delineare l’architettura funzionale del linguaggio scritto, in quanto, come verrà specificato successivamente, dimostrano che si può arrivare alla forma ortografica senza una precedente mediazione fonologica.
In altri casi è stato possibile dimostrare un’indipendenza funzionale e anatomica fra i lessici fonologici di input e output: alcuni pazienti (sordi verbali), pur in presenza di un normale udito periferico, non comprendono il linguaggio parlato, mentre la comprensione del linguaggio scritto e la denominazione sia orale sia scritta è nella norma. Infine, le dissociazioni con risparmi o deficit fra evocazione della forma della parola e comprensione della stessa hanno definitivamente contribuito a separare la conoscenza della forma fonologica da quella semantica. Per es., alcuni pazienti dimostrano una difficoltà selettiva nei compiti di denominazione con comprensione conservata, mentre altri cadono sia nei compiti di comprensione sia in quelli di produzione, dimostrando quindi all’interno del sistema lessicale l’esistenza di due componenti indipendenti, una più centrale, attiva sia nei compiti di produzione sia in quelli di comprensione, e una più periferica, costituita dal magazzino delle forme fonologiche e ortografiche.
Categorie semantiche e classi grammaticali
Lo studio di pazienti con deficit ristretti a specifiche categorie semantico-lessicali ha consentito di formulare differenti ipotesi riguardanti l’organizzazione funzionale e il substrato neurologico del sistema lessicale-semantico. In particolare, tre sono state le categorie che hanno dimostrato la maggior specificità in termini di elaborazione sia cognitiva sia neurale: gli esseri viventi (animali e vegetali), gli oggetti inanimati (in particolare gli utensili) e gli oggetti della conoscenza denotati da un nome proprio oppure ‘esemplari unici’ (persone e luoghi geografici). Per quanto riguarda la classe grammaticale, numerosi sono gli studi che hanno cercato di distinguere i meccanismi anatomo-funzionali specifici per i nomi e i verbi.
Esseri viventi e manufatti
Elizabeth K. Warrington e Tim Shallice (1984) hanno effettuato un’analisi dettagliata di quattro pazienti che, in seguito a una lesione temporale bilaterale, dimostravano una difficoltà a denominare o comprendere il significato di parole corrispondenti ad animali, vegetali e cibi, mentre l’elaborazione di parole che definivano oggetti di uso co-mune era nettamente superiore; altri pazienti con le stesse lesioni presentavano una dissociazione inversa.
A livello teorico, due sono stati i modelli proposti per spiegare tali deficit. Secondo una prima interpretazione, di tipo riduzionista, l’organizzazione della conoscenza è determinata dalle caratteristiche percettive o funzionali corrispondenti al significato delle parole: per es., la conoscenza di entità biologiche (animali, piante e frutta) è basata su fattori che riguardano principalmente aspetti percettivi (ha il mantello pezzato o una forma allungata o, nel caso di vegetali, ha un sapore o un colore particolare), mentre quella di manufatti (utensili) è legata al loro uso (serve per tagliare o per battere); ne deriva quindi che una lesione delle aree cerebrali legate all’elaborazione sensoriale (principalmente visiva, ma anche gustativa o olfattiva) o alla rappresentazione del movimento legato allo specifico item porterà alla comparsa di deficit per categorie semantiche differenti.
Per Alfonso Caramazza e Bradford Z. Mahon (2006), invece, la semantica è organizzata in ‘campi’ (domains), sottesi da circuiti neurali specifici, stabilitisi, nel corso dell’evoluzione, in seguito a un processo di selezione naturale. La necessità di poter rapidamente ed efficientemente giudicare la potenziale utilità o pericolosità di esemplari appartenenti a differenti categorie semantiche ha determinato lo sviluppo di circuiti neurali funzionalmente e anatomicamente separati che permettono di distinguere un vegetale commestibile da uno velenoso, se un animale sia un predatore o un oggetto di preda, o, infine, se la persona che abbiamo di fronte sia un amico o una persona sconosciuta di cui non conosciamo le intenzioni. A sostegno di tale ipotesi sono stati descritti pazienti che, all’interno della categoria ‘biologica’, presentavano un deficit concettuale o lessicale ristretto alla categoria degli animali, senza un contemporaneo deficit di elaborazione semantico-lessicale per cibi e strumenti musicali, per la cui identificazione è necessaria un’elaborazione prevalentemente su base percettiva.
Nomi propri
Ogni grammatica distingue i nomi comuni dai nomi propri: questi possono essere definiti come sintagmi nominali che hanno esclusivamente valore ‘referenziale’, usati (come i pronomi personali e i dimostrativi) solo ‘per riferirsi a’, o denominare persone, specifici luoghi geografici o marchi di fabbrica. In genere, in corso di afasia, si osserva un deficit lessicale sia per i nomi propri sia per i nomi comuni, ma sono stati descritti alcuni casi (rari) di risparmio o, più frequentemente, di deficit selettivo dei nomi propri (nomi di persona e termini geografici, oppure solo nomi di persona) rispetto ai nomi comuni. L’anomia per i nomi propri non è sottesa da un meccanismo unico: in alcuni casi è dovuta a un’incapacità selettiva ad accedere, all’interno del lessico di uscita, alla forma fonologica e ortografica corrispondente, simile ai lapsus dei parlanti non cerebrolesi, con conoscenza semantica conservata. In altri casi, invece, il deficit è semantico, per cui il paziente non è in grado di fornire una descrizione concettuale adeguata corrispondente alle persone di cui non ricorda il nome.
Su tale base è stato così possibile delineare, a livello sia teorico sia di implementazione neurologica, un modello specifico di elaborazione dei nomi propri: il primo stadio prevede la presenza di sistemi di riconoscimento specifici per unità singole (nel caso delle persone il viso, la voce, la descrizione verbale). Ottenuta la rappresentazione concettuale, viene attivata la corrispondente forma fonologica, depositata all’interno del lessico di uscita che a sua volta contiene una distinzione fra nomi comuni e nomi propri.
Classe grammaticale
Nell’afasia di Broca, i nomi sono prodotti più facilmente dei verbi. Al contrario, nelle afasie fluenti il deficit è specifico per i nomi, con possibili dissociazioni fra nomi propri e nomi comuni. Tre sono le ipotesi proposte per spiegare la ragione della differenza di elaborazione fra le due classi grammaticali: una prima semantica, una seconda lessicale e una terza sintattica, che inquadra il deficit selettivo per l’elaborazione dei verbi nel complesso dell’agrammatismo.
Secondo la prima ipotesi i verbi, per es. scrivere o camminare, esprimono un’azione, e si associano quindi alla rappresentazione di un movimento, venendosi così a formare associazioni neuronali stabili fra le aree del linguaggio e quelle poste in prossimità della corteccia motoria, deputate all’elaborazione e programmazione dei movimenti corporei. In questa prospettiva, quindi, non è tanto la classe grammaticale quanto la semantica a determinare la differente base funzionale e anatomica fra nomi e verbi.
Una conferma dell’ipotesi semantica alla base della dissociazione nomi-verbi è venuta da uno studio PET eseguito su soggetti normali (Vigliocco, Warren, Siri et al. 2006), in cui si è osservata un’attivazione delle aree motorie dell’emisfero sinistro in compiti di elaborazione visiva di parole legate a un movimento (tuffi, atterraggio, scuote, galoppano), indipendentemente dalla classe grammaticale (nome-verbo). Al contrario, l’elaborazione di parole con caratteristiche simili alle precedenti ma esprimenti qualità sensoriali (solletico, oscurità, annusa, luccicano) ha determinato un’attivazione delle aree temporobasali e frontali inferiori dell’emisfero sinistro, indipendentemente dalla classe grammaticale.
Per Caramazza e Argye E. Hillis (1991a), indipendentemente dalla localizzazione cerebrale, esiste all’interno dei lessici fonologici e ortografici un’organizzazione per classi grammaticali: tale ipotesi è sostenuta dalla prestazione di alcuni pazienti che compiono un numero maggiore di errori semantici in compiti di denominazione di verbi rispetto ai nomi, ma soltanto nella modalità scritta.
L’ipotesi che il deficit selettivo nell’elaborazione dei verbi sia di origine sintattica è stata avanzata da numerosi autori. Per Eleanor M. Saffran e i suoi collaboratori (Saffran, Schwartz, Marin 1980), per es., il deficit nell’elaborazione dei verbi presentato dai pazienti con afasia di Broca si colloca all’interno di un quadro più ampio di danno del sistema morfosintattico, caratterizzato clinicamente da agrammatismo.
In conclusione, è improbabile che solo un unico fattore sia alla base della diversità di elaborazione fra nomi e verbi, e, in una prospettiva neuropsicologica, solo l’analisi accurata delle varie componenti alla base delle due classi lessicali potrà chiarire la natura dei deficit selettivi presentati dai pazienti.
Basi neurologiche del lessico
L’introduzione dei metodi di neuroimaging ha permesso di affinare l’approccio anatomo-clinico allo studio delle basi neurologiche del lessico, dimostrando una partecipazione attiva di zone dell’emisfero sinistro anche al di fuori delle aree di Wernicke e Broca, con parziale segregazione all’interno del lobo temporale sinistro delle basi neurali corrispondenti a singole categorie semantiche: tale sistema comprende la corteccia temporale inferiore, media e posteriore, e alcune aree di associazione frontale. Questo vasto sistema è alla base dell’elaborazione sia degli aspetti sensoriali e motori degli input più ‘periferici’ sia dell’elaborazione semantica vera e propria: in particolare, le aree temporobasali sembrano sostenere la capacità di organizzare la conoscenza in categorie semantiche distinte. In un importante lavoro che combina i dati provenienti dallo studio di pazienti con deficit semantico-lessicali con quelli derivati da uno studio PET su soggetti normali, Hanna Damasio e i suoi collaboratori (Damasio, Tranel, Grabowski et al. 2004) hanno identificato, all’interno dell’emisfero sinistro, aree corticali specifiche per l’elaborazione di differenti categorie semantiche, postulando un’organizzazione in senso anteroposteriore del lobo temporale inferiore, con le aree anteriori dedicate alla semantica di persone, mentre le zone posteriori elaborano la conoscenza di esseri viventi (animali e vegetali).
Per i nomi propri, sia gli studi di neuroimaging sui soggetti normali sia i dati clinici concordano nell’ipotizzare, all’interno dell’emisfero sinistro, un circuito neurale, centrato sul lobo temporale, dedicato ai vari aspetti dell’elaborazione delle specificità semantiche e delle forme lessicali denotate dai nomi propri. Come sopra accennato, tale segregazione funzionale e neuronale potrebbe, in una prospettiva evolutiva, essere particolarmente vantaggiosa, in quanto permette di riconoscere con rapidità e precisione l’identità di conspecifici.
Nella maggioranza dei casi, il deficit lessicale specifico per i verbi è conseguente a una lesione che comprende le aree anteriori del linguaggio, inclusa l’area di Broca, mentre, al contrario, un deficit ristretto alla categoria dei nomi è stato descritto in seguito a una lesione retrorolandica sinistra, centrata sulla corteccia temporale (Daniele, Giustolisi, Silveri et al. 1994). Analogamente, in una serie di studi svolti in soggetti normali mediante l’uso di varie tecniche di indagine si sono evidenziati pattern diversi di attivazione neuronale in compiti di elaborazione di nomi e verbi. È stata riscontrata un’attivazione neuronale in corrispondenza dell’area dorsolaterale frontale e temporo-laterale sinistra in compiti di elaborazione di verbi, mentre l’elaborazione di nomi si accompagnava a un’attivazione emisferica diffusa, prevalente a sinistra (Perani, Cappa, Schnur et al. 1999).
In conclusione, dagli studi clinici e di neuroimaging sembra emergere un quadro di prevalente coinvolgimento delle aree posteriori dell’emisfero sinistro nei compiti di elaborazione dei nomi, mentre l’elaborazione dei verbi, specie se di moto, si accompagna ad attivazione delle aree anteriori, frontoparietali, suggerendo una stretta relazione fra rappresentazione dei verbi e conoscenza spaziale legata all’azione espressa dai verbi.
Basi neurologiche e architettura funzionale del linguaggio scritto
L’apprendimento e l’uso del linguaggio scritto sono sottesi da sistemi funzionali e neurologici che si sono sviluppati adattando e modificando parti del sistema visivo a compiti specifici, quali il riconoscimento di lettere e parole. Tali processi sono in gran parte indipendenti sia da sistemi di riconoscimento per altre classi di stimoli visivi, quali oggetti o facce, sia da quelli per il linguaggio parlato, con possibilità di dissociazioni fra la capacità di leggere e scrivere e quella di parlare e comprendere il linguaggio per via uditiva. Tali sistemi agiscono in maniera rapida, efficiente e automatica, tanto che si può parlare di un ‘istinto della lettura’ che entra in azione indipendentemente dalla volontà.
Sistemi ortografici
A differenza di quanto accade per l’identificazione e denominazione di figure e di alcuni simboli grafici (per es., i segnali stradali), caratterizzati da una corrispondenza diretta fra oggetto (o idea) e simbolo, e i cui primi esempi risalgono alla preistoria, la scrittura è caratterizzata da un processo di trasformazione di ogni suono con valore linguistico (fonema, sillaba o parola) nella corrispondente unità scritta. Attualmente nel mondo vengono usati più sistemi ortografici: quello ideografico (kanji), usato in Cina e in parte in Giappone, in cui a ogni singolo segno corrispondono suono e significato di una parola; quello sillabico (per es., la scrittura giapponese kana), in cui vengono rappresentate graficamente le sillabe; quello alfabetico, in cui a ogni segno (grafema, composto da uno o più lettere) corrisponde un suono (fonema). Nelle lingue che usano il sistema alfabetico, il grado di corrispondenza fra fonemi e grafemi è variabile: in alcune lingue, come il serbo-croato, l’applicazione delle regole di transcodificazione scritto-suono permette di ricavare la fonologia o l’ortografia di qualsiasi grafema o fonema (ortografie trasparenti). Per altre lingue invece, come il francese o l’inglese, la corrispondenza fra grafema e fonema può non essere univoca. In francese può succedere che diversi grafemi corrispondano a un solo fonema (per es., i cinque grafemi au, aux, eau, eaux e o corrispondono tutti al suono /o/). Ancora più complicato è il caso dell’inglese, in cui non solo esistono, come in francese, differenti grafemi che rappresentano lo stesso suono, ma la pronuncia di un grafema può spesso dipendere dai grafemi precedenti della stessa parola. In tali sistemi ortografici (ortografie opache) esistono parole regolari, la cui ortografia e pronuncia sono ricavabili dall’applicazione di meccanismi sublessicali di conversione grafema-fonema, e parole irregolari, spesso ad alta frequenza d’uso, la cui lettura e scrittura è sottesa da operazioni non predicibili sulla base di regole. Un altro sistema ortografico è rappresentato dalla scrittura dell’arabo e dell’ebraico: le lettere che compongono una parola sono per lo più consonanti, mentre la maggior parte delle vocali è omessa.
L’ortografia dell’italiano, comunemente considerata del tipo trasparente, presenta invece alcune eccezioni: per es., la consonante occlusiva velare sorda /k/ è realizzata in tre modi differenti, come in cane, quasi, chiodo; viceversa, il grafema gl viene pronunciato /gl/ in glicerina ma /λ/ in aglio o luglio. Esistono poi parole ad alta frequenza prese a prestito da lingue straniere, la cui lettura e scrittura non possono essere ricavate adottando le regole specifiche per l’italiano scritto. Inoltre, la posizione dell’accento in una parola scritta non è sempre determinabile su basi esclusivamente fonologiche: in italiano non vi è, infatti, una regola costante che permetta di prevedere dove comparirà l’accento; in molti casi solo la precedente conoscenza del suono o il contesto permettono di comprenderlo (per es., nella parola scritta ancora, che potrà essere pronunciata /'ankora/ o /an'kora/).
Per una nuova anatomia della lettura
Il primo modello per l’elaborazione del linguaggio scritto, di tipo associazionistico, fu proposto dal neurologo Jules Déjerine (Contribution à l’étude anatomo-pathologique et clinique des différentes variétés de cécité verbale, «Comptes rendus hebdomadaires des séances et mémoires de la Société de biologie», 1892, 4, pp. 61-90), sulla base dell’osservazione anatomo-clinica di due pazienti con disturbi isolati della lettura (alessia) e della scrittura (agrafia) conseguenti a danno cerebrale. Secondo Déjerine il riconoscimento delle singole lettere che compongono una parola scritta si attua nei centri visivi occipitali; le informazioni così elaborate vengono quindi trasmesse al centro della memoria visiva delle parole, a sua volta connesso con il centro della memoria uditiva, ove si realizza la com-prensione. La lettura ad alta voce è possibile invece attraverso la connessione tra il centro della memoria visiva delle parole e il centro motorio dell’articolazione della parola. Nella scrittura su dettato si realizza il processo opposto: i centri della memoria uditiva e/o della memoria articolatoria attivano i centri della memoria visiva delle parole, e quindi i corrispondenti programmi motori per la realizzazione grafica.
Ambedue i processi avvengono quindi attraverso un meccanismo sublessicale: nella lettura, le lettere che compongono le singole parole sono elaborate singolarmente, in modo seriale, trasformando ogni lettera in un fonema, quindi assemblate per essere convertite in parole udite. Il processo opposto avviene nella scrittura, in cui le parole, scomposte nei fonemi costituenti, sono trasformate in stringhe di lettere.
La possibilità di evidenziare sperimentalmente, attraverso gli strumenti di neuroimaging funzionale, il substrato neurologico attivo durante i vari stadi di elaborazione di tale linguaggio ha permesso di dettagliare ulteriormente il modello anatomico di elaborazione del linguaggio scritto.
Dopo una prima analisi percettiva a livello della corteccia visiva primaria, la successiva elaborazione degli stimoli grafici è sottesa dalle aree di associazione visiva dei due emisferi, specie nelle porzioni ventromediali. Durante la presentazione all’emicampo visivo sia destro sia sinistro di stringhe di lettere corrispondenti a parole, studi di neuroimaging (Cohen, Dehaene 2004) hanno rilevato un’attivazione del giro fusiforme posto alla base del lobo temporale (area per la forma visiva delle parole).
Di particolare importanza è stato infine il riscontro di differenti attivazioni neurali in lingue che adottano diversi sistemi ortografici: Eraldo Paulesu e i suoi collaboratori (Paulesu, McCrory, Fazio et al. 2000) hanno dimostrato che studenti italiani leggono più velocemente parole italiane di quanto studenti inglesi leggano parole inglesi. Gli stessi autori, in due studi PET, hanno riscontrato che la lettura di parole inglesi, a ortografia opaca, attiva soprattutto la circonvoluzione temporale posteroinferiore sinistra e il giro frontale inferiore, in funzione durante l’elaborazione lessicale, mentre la lettura di parole italiane attiva il giro temporale superiore sinistro, in funzione durante l’elaborazione dei fonemi.
Modelli cognitivi di lettura
Il modello di Déjerine non tiene conto di alcune peculiarità della lingua scritta, in particolare l’esistenza di alcuni sistemi ortografici nei quali, come detto sopra, non sempre l’ortografia o la pronuncia corretta di una parola scritta sono ricavabili dalla stretta applicazione di regole sublessicali.
John C. Marshall e Freda Newcombe (1973) hanno scardinato la convinzione che l’elaborazione del linguaggio scritto avvenga unicamente per via sublessicale. Essi hanno descritto infatti due forme distinte di dislessia acquisita, la dislessia profonda e la dislessia di superficie. La prima è caratterizzata da un’incapacità di leggere le ‘non parole’ (stringhe di lettere prive di significato) e da errori semantici nella lettura delle parole (paralessie semantiche, per cui una parola, per es. verde, viene letta rosso). Nella dislessia di superficie, il paziente, pur essendo in grado di leggere sia le non parole sia le parole regolari, compie errori di ‘regolarizzazione’ nella lettura di parole irregolari, che sono lette applicando le regole di conversione scritto-suono.
A un’analisi più puntuale della prestazione dei pazienti furono inoltre rilevati importanti effetti di classe sia grammaticale sia lessicale: da parte di molti pazienti dislessici le parole a classe aperta (nomi, aggettivi, verbi) vengono lette e scritte più accuratamente rispetto alle parole a classe chiusa (articoli, preposizioni, pronomi e congiunzioni), indipendentemente dalla complessità grafemica, così come le parole concrete rispetto a quelle astratte.
Marshall e Newcombe hanno proposto quindi un’interpretazione teorica delle dislessie, riferendosi a un modello esplicito sottostante i meccanismi cognitivi della lettura. Il modello è espresso in forma diagrammatica, ed è composto di ‘scatole’ e ‘frecce’ (fig. 3). La lettura di parole conosciute avviene attraverso l’attivazione della via lessico-semantica: nel lessico di entrata visivo la parola viene riconosciuta; l’attribuzione del significato avviene nel sistema semantico, e da lì si ha l’attivazione del suono corrispondente nel lessico di uscita fonologico. È possibile tuttavia leggere correttamente le parole conosciute, pur senza comprenderne il significato, attraverso la via lessicale-fonologica (in rosso nella figura) che prevede un collegamento diretto tra il lessico di entrata visivo e quello di uscita fonologico. Al contrario, la via non lessicale (in blu) è utilizzata quando occorre leggere parole mai viste o non parole. In questo caso, le lettere che costituiscono lo stimolo scritto vengono convertite, attraverso un sistema di regole, nei fonemi corrispondenti. Una volta ottenuta una rappresentazione fonologica astratta, attraverso sia la via lessicale sia quella non lessicale, l’informazione passa in un magazzino di memoria a breve termine (buffer fonologico), che la mantiene per il tempo necessario a pianificare i processi di articolazione per la produzione ad alta voce.
Se, in seguito a un danno cerebrale, la via lessicale non è percorribile, si verificheranno errori nella lettura di parole irregolari, che saranno regolarizzate (per es., un soggetto di madrelingua francese leggerà la parola femme come /'fem/ e non /'fam/), mentre le parole regolari e le non parole saranno lette correttamente (dislessia di superficie). In italiano anche una parola regolare potrà essere letta scorrettamente per mancata conoscenza della posizione dell’accento tonico.
Al contrario, in caso di danno alla via fonologica, la lettura sarà possibile attraverso una via lessicale, attivando una rappresentazione semantica che media il passaggio tra la forma stampata e la realizzazione sonora: in altre parole, una volta riconosciuta la stringa grafemica, ne viene attivato il significato e successivamente la forma fonologica. Ovviamente non sarà possibile la lettura di non parole, prive di rappresentazione semantica (dislessia fonologica).
Le paralessie semantiche hanno origine, secondo l’interpretazione originale di Marshall e Newcombe, da un deficit parziale della via semantica-lessicale, privata dell’appoggio sublessicale, che porta a una difficoltà a recuperare la rappresentazione semantica o fonologica della parola scritta.
Modelli cognitivi di scrittura
In analogia con i modelli di lettura, i modelli attuali di scrittura favoriscono un modello a due vie, per cui la corretta ortografia può essere ottenuta attraverso due meccanismi, sostanzialmente autonomi, il primo sublessicale, basato sul processo di conversione fonema-grafema, e il secondo di tipo semantico-lessicale.
È possibile scrivere correttamente sotto dettatura una parola conosciuta attraverso un meccanismo che prevede il riconoscimento della stringa di fonemi nel lessico di entrata uditivo. Successivamente si attiva il significato e infine è possibile l’attivazione della rappresentazione ortografica corrispondente, immagazzinata nel lessico grafemico di uscita. Al contrario, qualora si debba scrivere una parola che non è mai stata udita prima, si convertiranno i fonemi costituenti nei corrispettivi grafemi. Il prodotto finale di questo processo verrà inviato al buffer grafemico, dove verrà trattenuto fino al completamento della forma grafica.
La procedura di tipo sublessicale, che forzatamente esige tempi maggiori della procedura lessicale, è valida per ottenere una corretta ortografia delle parole regolari, caratterizzate da una costante corrispondenza fonema-grafema. Tuttavia, come sopra specificato, esistono molte parole la cui ortografia non può essere correttamente ottenuta solo attraverso l’applicazione di regole di conversione sublessicale: in italiano, per es., dato che uno stesso suono può essere realizzato con lettere differenti, si potranno ottenere delle non parole omofone e pseudomografe, per es. quore o cuadro. Per tali ragioni è stato proposto che l’ortografia delle parole ad alta frequenza e/o con ortografia irregolare sia immagazzinata in un lessico ortografico di uscita. Il recupero di tali entrate ortografiche è mediato dal sistema semantico. La rappresentazione ortografica astratta così ottenuta sarà inviata al buffer ortografico per la scrittura o per lo spelling («compitazione») ad alta voce.
La necessità di postulare l’esistenza di una rappresentazione ortografica autonoma da quella fonologica è sostenuta sia dall’esistenza nel lessico di parole irregolari sia, e soprattutto, dall’evidenza neuropsicologica. Sono stati infatti descritti, come detto sopra, pazienti che compivano errori semantici in una sola modalità di output: per es., i pazienti di Caramazza e Hillis (1991b) producevano errori semantici solo nella denominazione orale.
Struttura della forma ortografica
Una volta ottenuta una rappresentazione ortografica astratta, è necessario che questa sia mantenuta in un sistema di memoria a breve termine per il tempo necessario alla sua realizzazione fisica (spelling scritto e orale). Le prime ipotesi, derivate essenzialmente dallo studio dei lapsus calami nei soggetti normali e caratterizzati da sostituzioni, omissioni, inserzioni o trasposizioni di lettere, ipotizzavano che la rappresentazione ortografica fosse rappresentata come una sequenza di grafemi, definita dall’identità e dalla posizione dei singoli grafemi nella sequenza. L’accurata analisi degli errori compiuti da alcuni pazienti con danno al buffer grafemico (Miceli, Capasso 2006) è invece in favore di una rappresentazione basata su più variabili, che specifica cioè sia l’ordine seriale, sia lo status vocale consonante, sia l’identità del grafema e la presenza di geminate all’interno della stringa.
Il passo successivo è rappresentato dalla selezione della forma allografica: i grafemi, infatti, possono essere realizzati in diverse varianti (allografi), caratterizzate da forme percettivamente diverse (A, a, A, a). La selezione dell’allografo avviene sulla base sia della posizione del grafema all’interno della parola sia della classe di appartenenza (per es., sono scritti con l’iniziale in maiuscolo sia i nomi propri sia le prime parole di ogni frase).
Una volta recuperato l’allografo, lo stadio successivo consiste nell’attivazione del corretto programma grafomotorio: qui sono specificate la direzione, la dimensione e la forma relativa dei tratti che compongono le varie lettere, che possono essere realizzate da strumenti diversi (penna, bomboletta spray, piede nel caso di scrittura sulla sabbia ) e sono in grado di influire sulle caratteristiche individuali della scrittura. Lo stadio finale infine specifica i dettagli grafici in specifiche istruzioni neuromuscolari.
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