Neuroscienze cognitive
L'espressione neuroscienze cognitive risale alla fine degli anni Settanta del 20° sec., quando, in seguito allo sviluppo di una serie di tecniche volte a visualizzare il funzionamento della corteccia e dei nuclei cerebrali, si chiarì come il cervello rende possibile la cognizione e, più in generale, come funziona la mente in rapporto ad attività quali la memoria, l'apprendimento, l'emozione, i processi inconsci. Al progresso delle n. c. contribuirono sia psicologi cognitivi come G.A. Miller e S.M. Kosslyn sia neuroscienziati come A. Damasio e J. LeDoux, che proposero nuove teorie della mente con particolare riferimento all'intreccio tra fattori emotivi e cognitivi. Tuttavia le n. c. affondano le loro radici in un cambiamento di ottica nei confronti del ruolo dei fattori biologici. Il comportamentismo sostenuto da J.B. Watson e in seguito da B.F. Skinner entrò infatti in un progressivo declino in seguito alla diffusione delle posizioni del linguista N. Chomsky (il quale affermò che la teoria dell'apprendimento sostenuta da Skinner non poteva spiegare come emerge il linguaggio, considerato da Chomsky una facoltà con una larga base innata) e in seguito alle originali teorie proposte dal neuroscienziato D. Marr, che propose una teoria della mente basata su processi computazionali. Pur nella loro diversità, questi approcci naturalistici concorsero allo sviluppo delle n. c., che sono accomunate da un'ottica fortemente radicata nella biologia.
La naturalizzazione dell'emozione
Negli anni Settanta conobbe notevole successo la teoria dell'emozione di P. MacLean (1973), secondo la quale le strutture più recenti in termini evolutivi, vale a dire la corteccia, sono prevalentemente implicate nelle attività cognitive, mentre le strutture sottocorticali, e in particolare il sistema limbico, sarebbero responsabili di comportamenti specie-specifici, i cosiddetti istinti. Questi sono connotati da una coloritura emotiva, a differenza di comportamenti più stereotipati come i riflessi spinali, privi di componenti emotive e, ovviamente, cognitive. Secondo MacLean le attività sottocorticali, governate dal cosiddetto paleoencefalo o 'cervello antico' in termini evolutivi, sono in buona parte predeterminate, frutto di un lungo processo di selezione naturale che ha fatto sì che le emozioni siano legate a regole naturali, iscritte nel patrimonio genetico. L'idea che le emozioni siano in gran parte determinate dalle loro radici biologiche e in qualche modo 'automatiche' si è affermata in seguito a una serie di ricerche sperimentali condotte a partire dagli anni Trenta dal neurofisiologo W.R. Hess, che aveva notato come la stimolazione di alcuni siti dell'ipotalamo inducesse una serie di reazioni emotive anche violente: per es., nel gatto la stimolazione elettrica dell'ipotalamo ventrale si traduceva in reazioni di rabbia, anche in assenza di un qualche oggetto che potesse innescare tali reazioni. Hess definì questo comportamento, caratterizzato da espressioni facciali aggressive, da segni di attivazione del sistema autonomo (erezione dei peli), da posture somatiche tipiche dell'attacco, come 'falsa rabbia'. Le ricerche di Hess sembravano dunque convalidare la tesi cartesiana che assimila gli organismi viventi a macchine, sia pure particolari, in quanto alcune condotte, come appunto le emozioni, possono essere scatenate a piacimento attraverso la stimolazione di nuclei e strutture nervose come l'ipotalamo o parti del sistema limbico.
A partire dagli anni Novanta del 20° sec. i sostenitori di questa tesi hanno trovato ulteriori conferme nei risultati di diversi esperimenti effettuati sul sistema limbico e sullo striato, un insieme di centri nervosi coinvolti nell'organizzazione di risposte motorie. I risultati delle ricerche svolte da LeDoux (1996) indicano un forte coinvolgimento nelle risposte di paura dell'amigdala, un nucleo del sistema limbico formato da neuroni che in prevalenza utilizzano il neurotrasmettitore noradrenalina. LeDoux ha sottoposto alcuni animali al cosiddetto fear conditioning (condizionamento alla paura). In questa situazione sperimentale gli animali ricevono una punizione o sono costretti a fronteggiare una circostanza ansiogena in un ambiente particolare, vale a dire in un contesto ben connotato e quindi facilmente riconoscibile: in seguito, questo stesso ambiente susciterà reazioni di paura anche in assenza di punizioni o stimoli ansiogeni, in quanto l'animale ha associato la punizione a quel contesto ambientale. LeDoux ha dimostrato che uno stimolo ansiogeno viene convogliato verso il talamo e da qui verso la corteccia sensoriale (che lo connota nei suoi dettagli) e verso l'ippocampo, una struttura del sistema limbico che gioca un ruolo critico nella memorizzazione di molte esperienze. Queste tre strutture inviano proiezioni nervose verso il nucleo laterale dell'amigdala che, a sua volta, proietta verso tre diverse regioni cerebrali, ognuna delle quali è coinvolta in un differente aspetto dell'emozione: in particolare l'amigdala stimola l'ipotalamo che è responsabile di diverse risposte somatiche e vegetative tipiche di alcune emozioni. Pertanto, emozioni come la paura sono gestite secondo LeDoux da alcuni nuclei nervosi che ne coordinano le diverse componenti motorie, vegetative, cognitive: anziché originare nella corteccia, sede di gran parte delle esperienze e apprendimenti, le emozioni originerebbero nelle strutture sottocorticali. Pur essendo dunque improntate a programmi e automatismi, conferiscono una dimensione fondamentale alla nostra mente e alla nostra coscienza. Cartesio quindi, avrebbe commesso l'errore di sottovalutare la 'macchina' cerebrale e di guardare a una mente ideale, immateriale, non connotata da quei 'meccanismi', come le emozioni, che invece svolgono un ruolo fondamentale nella genesi della mente e della coscienza.
Molti aspetti dell'emozione indicano una predisposizione del nostro cervello, regole scritte nei circuiti degli emisferi cerebrali, per influenzare numerosi aspetti delle funzioni mentali. Gli studi sulle basi nervose delle emozioni provengono da tre filoni di ricerca rispettivamente legati ad alcuni disturbi del linguaggio (le aprosodie), all'epilessia temporale (un attacco convulsivo che origina nel lobo temporale) e a dati clinici che si riferiscono a pazienti con attacchi di panico acuti.
Per quanto riguarda le aprosodie, nel 1940 il neurologo G.H. Monrad-Krohn aveva seguito il caso di una paziente norvegese che, dopo aver subito una lesione cerebrale provocata da una scheggia di granata, aveva modificato il suo modo di parlare. La paziente parlava ora con un accento duro, staccando le parole, con scarse pause e senza enfatizzare i punti rilevanti del discorso. Quasi mezzo secolo dopo, lo strano caso della paziente norvegese venne esaminato alla luce di un'ampia casistica clinica di lesioni cerebrali. Si arrivò così alla conclusione che l'emisfero destro fosse responsabile degli aspetti affettivi del linguaggio: l'area temporale destra (omologa all'area di Wernicke, situata a sinistra e responsabile della comprensione del linguaggio) controlla la comprensione degli aspetti emotivi del linguaggio, mentre l'area frontale destra (omologa a quella di Broca, situata a sinistra e responsabile della produzione linguistica) controlla gli aspetti espressivi. È un fatto ormai consolidato che le aprosodie, ossia l'incapacità di comprendere o di imprimere una carica affettiva al linguaggio, dipendono da disturbi dell'emisfero destro.
Un altro aspetto dei rapporti tra emotività e strutture corticali riguarda le reazioni emotive che accompagnano i cosiddetti attacchi di panico. Utilizzando la tecnica della PET (Positron Emission Tomography) - con cui è possibile visualizzare l'attività metabolica di quelle parti del sistema nervoso che sono più attive delle altre - è stato dimostrato che il lobo temporale (insieme ad altre strutture del sistema limbico) è coinvolto negli attacchi di panico, un disturbo dell'emotività caratterizzato da improvvisi episodi di ansia e terrore e da altre fluttuazioni emotive. L'attacco è preceduto e accompagnato da un aumento del flusso sanguigno e del metabolismo a livello del lobo temporale, in particolare quello dell'emisfero destro, il che sottolinea ancora una volta come l'emozione scaturisca da particolari ambiti del cervello, abbia 'sedi' ben individuabili.
Una conferma del ruolo esercitato da alcune aree della corteccia nelle funzioni emotive deriva dagli studi svolti da R.J. Davidson (Davidson, Sutton 1995) i quali indicano che il sentirsi felici, o per lo meno il provare emozioni positive, si accompagna a un'attivazione della corteccia frontale. Per es., è stato notato che nei soggetti che contemplano immagini rilassanti o in grado di suscitare emozioni positive si verifica un'attivazione della corteccia prefrontale (la parte anteriore di quella frontale), in particolare quella dell'emisfero sinistro.
La dimostrazione del coinvolgimento della corteccia frontale nell'emozione, e in particolare nelle emozioni positive, non implica però una spiegazione piattamente meccanicistica, come indicano alcune ricerche empiriche sul rapporto tra contesto e sensazione di benessere. Per es., se una persona trova una moneta di scarso valore (20 centesimi appositamente disposte dallo sperimentatore), il suo umore migliora per circa 20 minuti per poi ritornare allo stato iniziale. Questo cambiamento dell'umore è però più duraturo nelle persone ottimiste, che prestano più attenzione ai segnali positivi che provengono dall'ambiente che li circonda piuttosto che a quelli negativi. Le persone 'positive' sono tali in quanto danno maggior valore ai 'rinforzi', sia a quelli concreti (come la monetina da 20 centesimi) sia a quelli astratti. Gli psicobiologi hanno dimostrato che alcune strutture dei gangli della base esercitano un ruolo importante nella motivazione e, di conseguenza, negli stati umorali: noi valutiamo la situazione in cui ci troviamo, i messaggi che provengono dal nostro corpo, le aspettative, i rapporti sociali, e via dicendo, in quanto i gangli della base 'attaccano' una serie di 'cartellini' motivazionali che vengono poi valutati dalla corteccia prefrontale. Sono questi 'cartellini' a definire una situazione in termini positivi o negativi: una volta che sono stati 'attaccati', la nostra memoria ne tiene conto e determina le nostre aspettative. Di conseguenza la scarsa felicità, secondo questa teoria, dipenderebbe dal fatto che i 'cartellini' non inducono attese positive, in grado di attivare la corteccia prefrontale.
Le basi nervose del rinforzo e del piacere
Ma cosa fa sì che un 'cartellino' possa essere positivo, vale a dire che proviamo piacere in rapporto a una particolare situazione? Negli anni Cinquanta lo psicologo statunitense J. Olds (Olds, Milner 1954), studiando la memoria e l'apprendimento, ritenne che la stimolazione elettrica di alcuni nuclei profondi del cervello potesse migliorare la memorizzazione di alcune esperienze: la memoria, infatti, dipende nella sua fase iniziale da modifiche elettriche delle sinapsi che codificano in modo transitorio le esperienze recenti. La stimolazione elettrica, che veniva effettuata alla fine della seduta di apprendimento, non esercitava in realtà alcun effetto sulla memoria, ma gli animali presentavano uno strano comportamento: il giorno dopo si recavano nella parte della gabbia dove avevano ricevuto gli stimoli intracerebrali, come se ricercassero una situazione analoga. Era possibile che la stimolazione elettrica del cervello fosse incentivante? Per verificare questa tesi si diede agli animali la possibilità di 'autostimolarsi', vale a dire di far sì che una lievissima corrente elettrica stimolasse il loro cervello ogni qual volta premevano una leva: utilizzando questa strategia si vide che in effetti gli animali si stimolavano a ritmi sempre più intensi e sviluppavano una vera e propria dipendenza dall'autostimolazione. Se infatti si impediva loro di premere una leva o si saltava una giornata, le cavie si stimolavano in eccesso, come se dovessero recuperare le stimolazioni perdute. Olds ritenne, quindi, di aver individuato dei 'centri del piacere', vale a dire delle strutture nervose associate a una situazione di benessere, il che fu ben evidente quando vennero intrapresi alcuni esperimenti su esseri umani che oggi sarebbe sicuramente impossibile effettuare per motivi etici.
I risultati di questi esperimenti sono stati in seguito valutati in termini di 'sistemi di rinforzo': nel nostro cervello esiste infatti un meccanismo che dà una coloritura positiva, vale a dire associata al piacere, a numerose situazioni, anche se molto diverse tra loro. Per es., situazioni come il soddisfacimento sessuale, l'assunzione di droghe, una vincita al gioco d'azzardo, hanno qualcosa che le accomuna, nel senso che comportano un intenso piacere. Si tratta di forme di piacere diverse, variabili da individuo a individuo, ma indicative dell'esistenza di un sistema che serve a 'rinforzare', con diverse gradazioni, tanti aspetti del nostro comportamento. Questo sistema è formato da neuroni 'dopaminergici', basati cioè sulla dopamina, uno dei vari mediatori nervosi che agiscono nel sistema nervoso. Se il sistema non funziona si verifica una condizione nota come anedonia, una pervasiva mancanza di piacere e di interesse alle cose che costituisce una delle componenti della depressione.
Dall'emozione alla razionalità
I rapporti tra emozione, comportamenti motivati e scelte razionali sono stati oggetto di numerosi studi intrapresi a seguito di un'originale interpretazione di un caso clinico che ha per oggetto la lesione cerebrale subita da un minatore, Ph. Gage, nel 1848. Gage, che aveva 25 anni, lavorava con altri operai alla costruzione di una ferrovia nel New England. La strada ferrata doveva attraversare una regione rocciosa ed era necessario fare dei lavori di sbancamento per livellare il terreno. Si trattava di trapanare la roccia, riempire i buchi con polvere pirica, versarvi sopra della sabbia, comprimere il tutto con una bacchetta di ferro e infine fare esplodere la carica attraverso una miccia. Un giorno di settembre del 1848 Gage si distrasse e compresse la polvere pirica con la bacchetta di ferro prima che vi fosse stata versata della sabbia; la polvere esplose, scagliò la bacchetta in alto e questa, dopo aver colpito la faccia del giovane sotto lo zigomo, penetrò nel cervello, trapassò la volta cranica del minatore per atterrare a un centinaio di metri di distanza. Dopo qualche momento di stordimento Gage si allontanò con le sue gambe dal luogo dell'incidente e lo descrisse ai suoi compagni. Ovviamente dovette ricorrere alla cure di un medico, J. Harlow, che descrisse dettagliatamente il rapido recupero della vittima e il suo ritorno alla 'normale vita di lavoro'. Tuttavia, Gage dimostrò ben presto di non essere più lo stesso di prima: benché non presentasse deficit del linguaggio, dei movimenti o dell'apprendimento - fatto insolito visto che era stata lesa una vasta parte della sua corteccia frontale che può essere responsabile di queste funzioni - il giovane cominciò ad avere dei problemi sul lavoro. Dopo l'incidente, come notarono i suoi stessi compagni, 'Gage non era più Gage': era diventato irriverente, capriccioso, blasfemo; soprattutto non si poteva fare più affidamento su di lui perché non prestava fede ai suoi impegni. I suoi datori di lavoro lo licenziarono e, dopo una vita errabonda, Gage tornò dalla sua famiglia, in California, a San Francisco, dove morì tredici anni dopo; i medici non ritennero di dover fare un'autopsia, malgrado numerosi neurologi avessero discusso del suo celebre caso.
Il caso Gage suscitò ancora qualche polemica tra gli studiosi del cervello, tra cui i celebri neurologi e studiosi del linguaggio P. Broca e C. Wernicke, ma poi la vicenda si spense e il cranio del minatore venne affidato al museo anatomico dell'Harvard University. Intorno alla fine del Novecento il 'caso Gage' è tornato nuovamente agli onori delle cronache scientifiche in quanto, a distanza di oltre un secolo, è stato riesaminato da H. Damasio e dai suoi collaboratori che, sulla base dei fori d'entrata e d'uscita nel cranio, perfettamente visibili e conservati, hanno simulato al computer il percorso della bacchetta di ferro, individuando l'area della corteccia frontale lesa. Si è così riusciti a chiarire i motivi del bizzarro comportamento del giovane minatore in seguito all'incidente: i neurologi statunitensi sono arrivati alla conclusione che la lesione cerebrale di Gage aveva interessato quella parte della corteccia frontale che media gli aspetti emotivi con quelli cognitivi del comportamento, traducendosi, dal punto di vista sociale, nelle cosiddette scelte razionali.
Memoria: consolidamento e riconsolidamento
A partire dagli anni Sessanta del 20° sec., una serie di ricerche empiriche ha comprovato la tesi formulata da D.O. Hebb alla fine degli anni Quaranta (1949): secondo il modello hebbiano, un'esperienza altera un circuito nervoso responsabile di una codificazione a breve termine (cioè della durata di pochi secondi o minuti), basata su modifiche dell'attività elettrica di alcuni neuroni in grado di codificare l'informazione in forma precaria, instabile. A questo tipo di codificazione ne subentra una stabile, la memoria a lungo termine (della durata di mesi o anni), legata a modifiche durature della struttura dei neuroni oppure dei circuiti nervosi (consolidamento della memoria). Nell'ipotesi di Hebb i due tipi di memoria fanno perciò capo a modifiche funzionali delle sinapsi nervose (memoria a breve termine), e a modifiche strutturali o permanenti sia a carico delle sinapsi nervose sia dei neuroni (memoria a lungo termine). Ciò implica che i neuroni siano plastici, in grado di andare incontro ad alterazioni della loro funzione o struttura, tali da comportare ristrutturazioni delle reti nervose.
Una delle più importanti ricadute del modello hebbiano riguarda le ricerche sulle basi neurobiologiche della memoria, in gran parte basate sull'analisi delle alterazioni dell'attività elettrica dei neuroni e delle sinapsi, e in particolare del cosiddetto potenziamento a lungo termine (LTP, Long Term Potentiation) dell'attività elettrica delle sinapsi nervose. Nel corso della LTP, in seguito a uno stimolo che si ripeta nel tempo o che sia particolarmente intenso, una sinapsi si porta a un livello superiore di risposta (attività potenziata), cosicché la sua efficienza aumenta fino a due volte e mezzo. Questo incremento dell'attività elettrica sinaptica si sviluppa entro pochi minuti dallo stimolo iniziale e rimane relativamente stabile per lungo tempo, in alcune condizioni per varie settimane. In sostanza, quando uno stimolo di un qualche rilievo viene recepito da un neurone, come avviene nel caso degli stimoli che si susseguono ripetutamente nel corso dell'assuefazione o del condizionamento, si può verificare un aumento dell'efficienza delle sue sinapsi. Con il tempo, si possono formare sinapsi nuove che contribuiscono a connettere tra di loro i neuroni in un nuovo circuito, il cosiddetto circuito locale, responsabile della codificazione di una specifica esperienza o memoria. Da un'iniziale alterazione di tipo funzionale (l'attività elettrica legata a modifiche degli ioni tra cui il calcio) i neuroni vanno così incontro a modifiche di tipo strutturale provocate da alterazioni di alcuni enzimi e dalla sintesi di proteine che alterano lo scheletro dei neuroni e stimolano la formazione di sinapsi e la loro interconnessione. Le variazioni delle caratteristiche del circuito nervoso permettono così di registrare l'informazione all'interno di reti neurali. La ristrutturazione delle reti in seguito all'esperienza è alla base di una teoria della mente - o del cervello - nota con il nome di connessionismo. Secondo questa teoria, la mente dipende dall'esistenza di reti in grado di autoorganizzarsi; ciò avviene in quanto ogni unità della rete (nel cervello i neuroni) è caratterizzata da un livello numerico di attività che cambia nel tempo in funzione dell'attività delle unità cui è connessa e della forza delle connessioni o nodi. Da questi cambiamenti della rete neurale deriva l'apprendimento. Per i fautori del cosiddetto connessionismo, la rete (o circuito locale) rappresenta la strategia attraverso cui il cervello si adatta all'ambiente, ossia ne rispecchia le caratteristiche salienti grazie a variazioni di tipo sinaptico.
Dal punto di vista empirico, il neuroscienziato E. Kandel (Kandel, Schwartz, Jessell 1995) ha dimostrato che negli invertebrati (ma anche nei vertebrati superiori) la registrazione di un'esperienza fa capo ai meccanismi della LTP e della formazione di sinapsi. Gran parte delle ricerche di Kandel sono state svolte sulla lumaca marina Aplysia californica, che reagisce a uno stimolo tattile - un sottile getto d'acqua che la colpisce - con un comportamento autoprotettivo, ritraendo la branchia. Se però i getti d'acqua continuano con la stessa cadenza, l'Aplysia si abitua e non reagisce più. Kandel ha notato che il comportamento di assuefazione dell'Aplysia perdura nel tempo (memoria a lungo termine) in quanto si sono verificati cambiamenti a livello dei circuiti nervosi: le sinapsi tra il neurone sensitivo (che reagisce allo stimolo tattile) e quello motorio (che attiva i muscoli della branchia) diventano più stabili e comunicano più facilmente a mezzo dei messaggeri nervosi in quanto l'esperienza è stata consolidata. In seguito a questi esperimenti, varie ricerche hanno indicato che il consolidamento di un'esperienza si basa su meccanismi abbastanza simili anche in altre specie animali: nei mammiferi le esperienze vengono consolidate grazie a modifiche bioelettriche che coinvolgono l'ippocampo, una struttura del sistema limbico che va incontro a LTP in diverse fasi della memorizzazione ed è funzionalmente connesso alla corteccia temporale.
Il ruolo dell'ippocampo nella memoria e nell'amnesia è emerso dallo studio di un celebre caso clinico, quello di un paziente noto con le sue iniziali, H.M., descritto da W. Scoville e B. Milner (1957). H.M. soffriva sin dalla nascita di una grave forma di epilessia che rendeva la sua vita molto penosa. Per eliminare il tessuto nervoso alterato, che nel suo cervello causava le convulsioni, venne sottoposto a un intervento chirurgico. In seguito all'intervento la sua capacità di percepire gli eventi, di ragionare, di parlare e di ricordare i fatti più recenti era normale, la sua memoria semantica era dunque in parte salvaguardata; ciò che invece risultava alterata era la sua capacità di ricordare ciò che si era verificato prima dell'operazione e, purtroppo, anche tutto quello che si riferiva al periodo successivo: la sua amnesia di tipo episodico era quindi sia retrograda (il passato) sia anterograda (le esperienze successive). La situazione di H.M. era però strana. Il vuoto di memoria non riguardava l'intero arco della sua vita: gli 'anni scomparsi' erano all'incirca una decina, quelli più recenti. L'amnesia era invece molto meno grave quando il giovane cercava di rievocare gli anni dell'infanzia o della prima adolescenza. Queste caratteristiche dell'amnesia di H.M. fecero riflettere i numerosi neuropsicologi che hanno studiato questo e altri casi clinici: la regione temporale media, che era stata asportata dal cervello di H.M., non doveva essere, evidentemente, la sede della memoria, altrimenti accanto al blocco della formazione di nuovi ricordi sarebbero dovuti scomparire anche tutti i ricordi del passato. H.M. conservava invece i ricordi più antichi, quelli consolidati e che vengono distribuiti nei circuiti nervosi della corteccia, dopo un periodo di ore, mesi o anche anni in cui la regione temporale media (ippocampo, amigdala e corteccia temporale) codifica le esperienze, le scompone in categorie, le connota sulla base del loro significato e le distribuisce infine nelle varie regioni della corteccia cerebrale.
In seguito agli studi compiuti su H.M. e sui rapporti tra ippocampo, lobo temporale e memoria, le ricerche in questo settore hanno preso in considerazione le diverse strutture nervose coinvolte nella memoria che, se danneggiate, si traducono nell'amnesia. Questi studi hanno dimostrato che la regione temporale è connessa con il sistema limbico (amigdala e ippocampo) e quest'ultimo con il diencefalo (talamo) tramite il fornice: regione temporale, sistema limbico e talamo formano una specie di circuito della memoria di cui, ovviamente, fa parte tutta la corteccia cerebrale che è connessa con quella temporale. Tutte queste strutture nervose svolgono il loro ruolo nella cosiddetta memoria esplicita che implica un riconoscimento cosciente delle esperienze che si sono vissute.
Sensazioni o esperienze, per essere trasformate in memorie esplicite, devono passare attraverso una sorta di imbuto, la regione temporale: da questa, passando attraverso l'ippocampo e l'amigdala (in cui vengono connotate per caratteristiche spaziali, emotive ecc.), devono raggiungere il diencefalo (talamo), dove le esperienze vengono assemblate e registrate sotto forma di memorie stabili nei circuiti del cervello. È il circuito della memoria 'corteccia temporale-ippocampo-diencefalo' che consente di connettere tra di loro le diverse esperienze della vita quotidiana (sensazioni, immagini mentali, emozioni, valutazioni della realtà) per trasformarle quindi in memoria episodica, in eventi della nostra storia individuale.
Come è stato notato, una delle caratteristiche delle memorie è di andare incontro all'oblio, evolvere nel tempo, ristrutturarsi ed essere contaminate da altre esperienze e ricordi. Memoria e oblio sono due processi conflittuali e complementari al tempo stesso: se è vero che la memoria è una funzione presente in tutto il regno animale in quanto conferisce un vantaggio e ha un valore che sembra essere in opposizione al ruolo negativo dell'oblio, è anche vero che se non dimenticassimo, o perlomeno se non fossimo in grado di contrastare precedenti memorie e apprendimenti, non potremmo apprendere qualcosa di nuovo e correggere i nostri errori. Se non dimenticassimo, inoltre, o se la memoria non andasse verso un continuo processo di ristrutturazione, la nostra mente sarebbe affollata di ricordi in conflitto l'uno con l'altro. Ma oltre all'oblio, l'instabilità delle memorie dipende da un continuo processo di ristrutturazione.
La mutevolezza dei ricordi nel tempo appare da due ordini di ricerche, sperimentali e cliniche. Il primo approccio si basa su ricerche condotte dallo psicologo L.R. Squire sugli effetti dell'elettroshock (Squire, Oliverio 1991): questo trattamento ha un effetto negativo sulla memoria umana e animale. Se viene somministrato subito dopo un'esperienza, prima cioè che avvenga il consolidamento della memoria a breve termine nella forma a lungo termine, si verifica un'amnesia retrograda, viene cioè cancellato il ricordo di quell'esperienza in quanto l'elettroshock disturba i fenomeni elettrici che caratterizzano la memoria a breve termine e questa non si consolida. Squire ha però indicato come l'elettroshock non agisca soltanto sul processo di consolidamento della memoria, ossia sulla trasformazione da memoria breve a memoria lunga, ma anche sulle memorie già consolidate. Ciò contraddice in qualche misura un vecchio dogma sul consolidamento della traccia della memoria: infatti, alla luce delle teorie hebbiane, gli psicobiologi ritenevano che, una volta consolidata, la memoria non potesse essere più turbata da quei trattamenti, come l'elettroshock, che provocano un dissesto dei fenomeni elettrici che sono alla base della memoria breve e da cui si passa alla memoria a lungo termine. Il fatto che l'elettroshock agisca anche a distanza di mesi sia su memorie di tipo associativo sia su vere e proprie memorie di tipo cognitivo, cancellando parte dei ricordi già registrati, indica che la memoria è suscettibile di rimaneggiamenti e rielaborazioni.
Un secondo approccio è più recente e si riferisce soprattutto alle memorie emotive, ossia alle esperienze caratterizzate da una forte connotazione emozionale. Nei classici esperimenti sul blocco del consolidamento della memoria da una fase labile a una stabile, gli animali ricevevano un'iniezione intracerebrale di un antibiotico al termine della seduta di apprendimento: quando l'inibitore della sintesi proteica veniva somministrato immediatamente dopo l'esperienza questa non veniva consolidata: la somministrazione dell'antibiotico era invece inefficace quando essa avveniva alcune ore dopo, ovvero quando aveva avuto già luogo il processo di consolidamento. K. Nader e LeDoux hanno invece dimostrato che se gli animali, dopo aver consolidato una particolare esperienza o stimolo, sono sottoposti a una breve esperienza simile a quella precedente e subito dopo viene iniettato loro dell'antibiotico, il ricordo è in buona parte cancellato: in altre parole la loro memoria da stabile diventa instabile quando essi rivivono la prima esperienza. Il termine riconsolidamento sta perciò a indicare che l'atto di ricordare qualcosa rende la traccia mnemonica flessibile, soggetta a rimanipolazioni e ristrutturazioni. La memoria, quindi, anziché essere stabile, è dinamica, il che avrebbe implicazioni terapeutiche: alcuni psichiatri sostengono infatti che focalizzarsi su determinate esperienze traumatiche è essenziale per poterle modificare, per riconsolidarle in forma accettabile. Negli esseri umani la terapia della parola ristrutturerebbe le esperienze rivissute, così come avviene per la memoria degli animali, suscettibile di cambiamenti quando essi rivivono un'esperienza già nota.
La componente inconscia delle attività cognitive
Resta infine da considerare come le n. c. abbiano indicato il fatto che l'io non abbia consapevolezza di numerose esperienze e funzioni cognitive.
La componente inconscia di numerosi processi cognitivi, memoria e apprendimento in particolare, è al centro di numerose ricerche ed è ormai ben chiaro che si può rintracciare e utilizzare un'esperienza del passato senza avere coscienza di far uso di memorie preesistenti. Un caso ben evidente sono le cosiddette memorie implicite, tra cui la memoria procedurale, che è legata piuttosto al 'saper fare' anziché al 'saper descrivere' della memoria semantica. Ma oltre alla memoria procedurale, che ci permette di andare in bicicletta, allacciarci le scarpe, guidare l'automobile, esistono altri aspetti della memoria implicita che, anziché influenzare le nostre azioni, il 'fare', influenzano il nostro modo di pensare. Questi aspetti della memoria sono stati studiati soprattutto da L. Weiskrantz (1988) in persone affette da amnesia. Il neuropsicologo inglese ha chiesto a un gruppo di volontari normali e a un gruppo di pazienti amnesici di studiare una lista in cui erano comprese parole come tavolo, giardino, automobile. Dopo alcuni minuti, esse venivano mostrate insieme ad altre parole nuove: i pazienti amnesici non erano in grado di ricordare di averle viste, mentre i volontari non avevano difficoltà a riconoscerle. Questo semplice esperimento confermava quanto era già ben noto nel campo dell'amnesia, ossia l'incapacità di ricordare un'esperienza a distanza di poco tempo. Ma ciò non significava necessariamente che la mente non trattenesse nulla delle esperienze vissute. I pazienti amnesici vennero sottoposti a un test 'facilitato': adesso dovevano riconoscere le parole della lista che avevano studiato sulla base di un indizio, le prime tre lettere che formano quella parola. Per es., dovevano completare le lettere tav..., gia..., aut...: in questo caso i pazienti completarono le parole con prestazioni decisamente superiori rispetto a quelle dimostrate nei confronti di parole che non avevano visto in precedenza: le loro prestazioni erano appena inferiori, ma in molti casi assolutamente identiche, a quelle dei volontari normali.
Secondo Weiskrantz questi risultati dipendono dal fatto che il 'suggerimento', le prime tre lettere di una parola da completare, serve per ridurre la confusione mentale che deriva da tutte quelle memorie irrilevanti che balzano alla mente dei pazienti amnesici e interferiscono con la risposta corretta. Paradossalmente, il cervello dei pazienti amnesici lavora di più rispetto a quello delle persone normali in quanto analizza migliaia e migliaia di possibilità, come un calcolatore impazzito che non sa concentrasi su una parte più circoscritta di un compito. Ma se questa è la spiegazione delle scarse capacità della memoria di riconoscimento dei pazienti amnesici, esiste anche un altro singolare aspetto della loro memoria: le persone studiate da Weiskrantz sapevano completare le lettere mancanti delle parole che avevano studiato prima ma non ricordavano assolutamente di averle viste. Ritenevano di essere state brave a indovinare, non di essere state influenzate dalla precedente esperienza. Pur dimostrando di aver 'memorizzato' le parole studiate in precedenza, non ricordavano nel senso usuale. In altre parole, avevano una 'memoria senza ricordo', o una memoria inconscia che viene comunemente definita come memoria implicita.
La 'memoria senza ricordo' presenta numerosi punti di contatto con la cosiddetta visione cieca, sempre studiata da Weiskrantz. Nei casi di danni localizzati alla corteccia visiva primaria, i soggetti non 'vedono' la realtà che li circonda, ossia non sono consapevoli della sua esistenza, ma sono in grado di svolgere compiti basati sul riconoscimento visivo. Nell'esperimento compiuto da Weiskrantz veniva utilizzato uno stimolo luminoso puntiforme: il paziente lo riconosceva quando esso corrispondeva alle parti sane della sua corteccia occipitale, mentre non era in grado di riconoscerlo quando coincideva con la sede della lesione. Tuttavia, se lo sperimentatore chiedeva al paziente di provare a indovinare la localizzazione dello stimolo visivo, questi non sbagliava mai: dal punto di vista dei meccanismi consci era cieco, cioè non si rendeva conto della presenza e della posizione del punto luminoso, mentre dal punto di vista inconscio era in grado di percepirlo e quindi di rispondere.
I casi della visione cieca, della mente senza coscienza o della memoria senza ricordo, indicano quindi che si può accedere all'informazione 'eseguendo' particolari programmi senza che ne esista una rappresentazione mentale.
bibliografia
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