Neuroscienze. Coscienza
La coscienza si può definire in modo intuitivo come ciò che scompare quando dormiamo un sonno senza sogni, oppure quando siamo sottoposti a un'anestesia generale e, come si è soliti dire, perdiamo coscienza. La coscienza è dunque tutto ciò di cui abbiamo esperienza: immagini, forme, colori, suoni, pensieri, emozioni e desideri. Quando essa scompare, per quanto ci riguarda, scompare l'universo intero. Il medico crotonese Alcmenone riconobbe già nel VI sec. a.C. che la coscienza è prodotta dal cervello, ma come esso generi l'esperienza soggettiva del mondo e di noi stessi è un interrogativo che lascia ancora perplessi gli scienziati del XXI secolo.
Negli ultimi anni, le neuroscienze hanno fatto notevoli progressi nel localizzare i cosiddetti 'correlati neurali della coscienza': per studiare quelli collegati all'esperienza del colore blu, per esempio, occorre identificare, nel mare di cellule nervose nel nostro cervello, quei particolari neuroni la cui attività segue queste esperienze; essi devono attivarsi ogniqualvolta percepiamo il blu (sia da svegli sia in sogno, e persino se lo immaginiamo), e rimanere silenti se non lo percepiamo. Va poi dimostrato che la stimolazione (elettrica o magnetica) di questi stessi neuroni può produrre un'esperienza di blu, ed è necessario che la lesione o inattivazione di queste cellule elimini la possibilità di percepire tale colore. Soddisfare tutti e tre i criteri non è facile, ma non è neppure impossibile, e per alcuni aspetti della percezione visiva cominciamo ad avere un'idea piuttosto precisa delle aree cerebrali e dei gruppi neuronali implicati.
Eppure, sono in molti a ritenere che il problema coscienza sia e rimarrà comunque al di fuori della portata della scienza. La ragione è che, se anche riuscissimo a localizzare con precisione i correlati neurali di questa o di quella percezione, non saremmo in alcun modo più vicini a una vera spiegazione scientifica di come il cervello possa generare l'esperienza soggettiva. Per quel che ne sappiamo infatti, il cervello non è altro che una macchina biologica molto sofisticata, costituita da un gran numero di circuiti, i cui componenti sono i neuroni e le sinapsi tra i neuroni, e non si comprende come questi, anche se organizzati in circuiti complessi, possano far scaturire l'esperienza soggettiva. Per fare un esempio, abbiamo un'idea abbastanza chiara di come circuiti nervosi appropriatamente organizzati siano in grado ‒ partendo dai coni retinici e raggiungendo aree specializzate della corteccia visiva ‒ di discriminare efficacemente superfici che riflettono la luce in maniera dissimile (diversa riflettanza). Infatti, non è troppo difficile far replicare questa capacità discriminativa a una macchina artificiale fatta di circuiti integrati. Ciò che sembra difficile è spiegare come e perché tale discriminazione sia accompagnata dall'esperienza soggettiva del colore. Quale ingrediente misterioso fa sì che, quando certi circuiti nervosi effettuano la discriminazione tra riflettanze diverse, vi sia contemporaneamente un soggetto cosciente il quale 'vede', in modo vivido e immediato, due colori brillanti, per esempio il rosso e il blu? Sembra davvero che gli strumenti a disposizione della neurofisiologia siano irrimediabilmente inadeguati per affrontare questo genere di domande.
La ragione di tale inadeguatezza è che una spiegazione scientifica della coscienza implica la soluzione teorica di due problemi. Il primo richiede di identificare le condizioni che determinano il verificarsi o meno dell'esperienza cosciente. Per esempio, perché la coscienza è abolita da lesioni del cervello ma non del cervelletto, essendo quest'ultimo una struttura nervosa altrettanto ricca di neuroni e altrettanto complessa? E perché siamo coscienti quando siamo svegli e quando sogniamo, e lo siamo invece molto meno durante le fasi profonde del sonno a onde lente, se le cellule nervose sono in ogni caso attive? Il secondo problema concerne le condizioni che determinano il tipo di esperienza che si verifica. Che cosa determina le qualità specifiche e fondamentali delle diverse modalità (per es., vista e udito), sottomodalità (per es., colore e movimento) e dimensioni (per es., blu o rosso) che caratterizzano la nostra esperienza cosciente? Perché i colori ci appaiono in un dato modo, diverso da quello in cui percepiamo una melodia oppure uno stimolo doloroso? Risolvere il primo problema significa determinare il livello (o quantità) di coscienza che un sistema fisico può generare; risolvere il secondo vuol dire determinare il tipo (o qualità) di questa coscienza.
Partendo dall'osservazione delle proprietà fondamentali dell'esperienza cosciente, la teoria che viene detta 'dell'informazione integrata' cerca di fornire una visione sistematica del rapporto tra coscienza e cervello, e di proporre, almeno in linea di principio, una soluzione ai due problemi della coscienza. Essa sostiene, in breve, che un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione. Questa definizione, apparentemente astratta, prende origine proprio dalla fenomenologia della coscienza, ovvero dall'osservazione delle due caratteristiche fondamentali dell'esperienza soggettiva: (a) l'esperienza cosciente è straordinariamente informativa, nel senso che il repertorio potenziale di stati di coscienza diversi è estremamente grande; (b) l'esperienza cosciente è integrata, ovvero ogni stato di coscienza è esperito come una singola entità. Ricchezza di informazione e integrazione sono due caratteristiche talmente necessarie e connaturate al fluire della nostra esperienza quotidiana che fatichiamo a riconoscerle: per comprenderne l'importanza è utile ricorrere a due esperimenti immaginari.
Immaginiamo di trovarci di fronte a uno schermo omogeneo che cambia ogni pochi secondi da acceso a spento, e di doverne comunicare lo stato dicendo 'chiaro' o 'scuro'. Di fronte allo schermo c'è anche un fotodiodo, un semplicissimo congegno elettronico che sa indicare la presenza/assenza di luce. Il primo problema della coscienza si riduce a questo: quando distinguiamo tra acceso e spento, ciascuno di noi vede uno schermo chiaro o scuro, ha un'esperienza soggettiva di chiaro o di scuro. Il fotodiodo sa distinguere altrettanto bene tra chiaro e scuro, ma presumibilmente non ha alcuna esperienza soggettiva. Qual è la differenza fondamentale che rende noi coscienti e il fotodiodo no? Secondo la teoria è la seguente: quando il fotodiodo indica chiaro, distingue solamente tra chiaro e scuro; quando noi diciamo chiaro, distinguiamo in realtà non solo tra chiaro e scuro, ma tra chiaro e miliardi di miliardi di alternative. Per esempio, lo schermo potrebbe inaspettatamente mostrare, anziché una superficie omogenea chiara o scura, un qualunque fotogramma tratto da un qualsiasi film. Ci sono milioni di film e milioni di fotogrammi, eppure, senza alcuno sforzo e nel giro di una frazione di secondo, ciascuno di essi indurrebbe in noi un'esperienza cosciente diversa. Il fotodiodo, invece, non potrebbe far altro che continuare a indicare chiaro o scuro. Questo esperimento immaginario suggerisce che la differenza fondamentale tra noi e il fotodiodo sia nella quantità di informazione a disposizione. L'informazione, classicamente, è una misura di quanto sia grande il repertorio di alternative: maggiore è il numero di alternative, maggiore è il numero di bit di informazione. Per noi, la visione di uno schermo chiaro esclude un numero straordinariamente grande di alternative, ed è pertanto oltremodo informativa (anche se, tipicamente, non ci facciamo caso). Per il fotodiodo, invece, uno schermo chiaro esclude soltanto uno schermo scuro, e l'informazione è pari a un solo bit. L'informatività, sostiene la teoria, è una proprietà fondamentale dell'esperienza cosciente ‒ lo è tanto che la diamo per scontata.
L'informatività, tuttavia, non basta a spiegare la coscienza se non va di pari passo con l'integrazione. Consideriamo, infatti, un'ipotetica macchina fotografica digitale che possieda un sensore costituito da un milione di fotodiodi. Sembrerebbe che, con un gran numero di fotodiodi, sia possibile distinguere tra un enorme numero di alternative: basta puntare l'obiettivo in direzioni diverse e il sensore è in grado di rispondere in modo differente a miliardi di scene diverse. L'informazione a disposizione del milione di fotodiodi è enormemente maggiore di quella a disposizione di un singolo fotodiodo, eppure nessuno penserebbe che la macchina fotografica veda coscientemente. Qual è, allora, la differenza fondamentale tra lei e noi? La risposta è che il sensore della macchina non è che una collezione di un milione di fotodiodi indipendenti, ciascuno in grado di distinguere tra chiaro e scuro, e non un sistema integrato capace di discriminare tra miliardi di immagini. Questo perché tra i fotodiodi non è possibile alcuna interazione causale, ovvero alcuno scambio di informazione. Infatti, se il sensore venisse tagliato longitudinalmente in due parti (o in un milione di parti), il funzionamento della macchina fotografica non cambierebbe. Non è così nel nostro caso: se le cellule del cervello fossero mantenute in grado di funzionare ma venissero disconnesse le une dalle altre, non c'è dubbio che la coscienza scomparirebbe.
Basta pensare a ciò che accade quando si divide il cervello in due parti tagliando il , ovvero il cospicuo tratto di fibre nervose (più di 200 milioni) che congiunge i due emisferi cerebrali. Ciò che accade è, né più né meno, che si divide in due anche la coscienza, col risultato che due coscienze indipendenti finiscono per condividere lo stesso cranio. Per esempio, come si può facilmente dimostrare in laboratorio, un emisfero è cosciente di ciò che avviene nella parte destra dello schermo ma non ha la minima idea di ciò che accade a sinistra, mentre per l'altro emisfero è vero l'opposto: un emisfero (e una coscienza) vede, supponiamo, la scritta 'so', mentre l'altro emisfero (e rispettiva coscienza) vede la scritta 'no', ciascuno all'insaputa dell'altro. Un cervello intatto, e una coscienza integrata, vedono invece la parola 'sono'; anzi, proprio perché l'esperienza cosciente è integrata, un cervello intatto non riuscirà mai, per quanto si sforzi, a vedere la parte destra e quella sinistra del campo visivo indipendentemente. In breve, secondo la teoria, la coscienza presuppone un sistema che abbia a disposizione un enorme repertorio di stati diversi, ma che sia nel contempo integrato. Se il repertorio di stati è minimo (come nel caso del singolo fotodiodo), o se il sistema non è integrato (come il sensore della macchina fotografica), non vi è coscienza degna di questo nome.
Riconoscere che la capacità di integrare informazione è alla base della coscienza è essenziale ma non sufficiente. Per arrivare a una teoria scientifica della coscienza occorre definire precisamente che cosa si intende per informazione, che cosa si intende per integrazione, in quali casi l'informazione può essere definita integrata, e come la si può misurare. La teoria dell'integrazione dell'informazione è stata sviluppata proprio con questo obiettivo. Essa introduce una misura dell'informazione integrata, chiamata φ (la barra verticale della lettera greca sta per informazione, il cerchio per integrazione), che si basa sul concetto di informazione effettiva (ovvero sulle cosiddette 'differenze cha fanno una differenza' in un sistema di elementi). Insiemi di elementi (per es., cellule nervose) capaci di integrare informazione sono chiamati 'complessi', e ciascuno di essi ha un certo ammontare di φ. La teoria offre un metodo preciso per identificare i complessi e per misurarne la capacità di integrare informazione: in sostanza, esso consiste nello stimolare in molti modi diversi vari sottoinsiemi di un sistema di elementi e nell'osservare quanto è grande il repertorio di risposte indotte nel resto del sistema. Complessi di elementi in cui, indipendentemente da come li si suddivide, stimoli diversi producono un gran numero di risposte differenti, hanno una capacità elevata di integrare informazione. Sistemi che si possono scomporre in molti sottosistemi indipendenti o quasi, o sistemi integrati che però presentano un repertorio di risposte scarso, integrano poca informazione.
Disponendo di una definizione precisa di integrazione dell'informazione, e di un modo per misurarla, diventa possibile mettere la teoria alla prova dei fatti, soprattutto di quei fatti fondamentali ma paradossali che hanno sinora eluso qualunque spiegazione scientifica. Perché, per esempio, la coscienza scompare se si asporta la corteccia cerebrale ma non se si asporta il , che possiede un numero di neuroni persino maggiore? E perché siamo coscienti durante la veglia ma lo siamo molto meno durante il sonno senza sogni, visto che il nostro cervello è più o meno altrettanto attivo? Armati della teoria, e aiutati da simulazioni al calcolatore di circuiti nervosi semplificati, ciò che sembrava difficile da comprendere diviene invece chiaro e semplice non appena lo si affronta in termini di capacità di integrare informazione.
Un gran numero di dati clinici e sperimentali indica, senza ombra di dubbio, che la coscienza dipende strettamente dal funzionamento del sistema talamocorticale. Lesioni acute che coinvolgono, direttamente o indirettamente, ampi settori della sua sostanza grigia (cellule nervose, sinapsi e fibre nervose locali) o bianca (fibre nervose interregionali) esitano invariabilmente nel coma. Il paziente giace a occhi chiusi, in uno stato di immobilità che appare simile al sonno profondo, non risponde agli stimoli e non può essere risvegliato. Il coma può essere secondario a particolari condizioni metaboliche, oppure ad avvelenamenti da farmaci o tossine che causano un malfunzionamento diffuso del sistema talamocorticale; più spesso la causa va ricercata in un trauma cranico, in un'emorragia o in un'ipossia di origine cardiovascolare, che danneggiano in modo esteso il funzionamento dello stesso sistema. Se il coma perdura, la respirazione autonoma e le altre funzioni neurovegetative in genere si ristabiliscono, e riemerge il ritmo sonno-veglia: durante il giorno il paziente apre gli occhi e appare sveglio, ma continua a non rispondere agli stimoli. Si parla allora di . Questi pazienti possono mostrare frammenti di atti motori stereotipati e anche emettere vocalizzazioni, ma non producono alcun comportamento finalizzato. Il fenomeno sembra suggerire la persistenza di isole di tessuto cerebrale funzionante nel contesto di un sistema talamocorticale silente.
L'anatomia patologica rivela che, nello stato vegetativo, la perdita duratura di coscienza è associata a lesioni diffuse della sostanza grigia della corteccia e del talamo, a lesioni diffuse della sostanza bianca cerebrale, o a lesioni talamiche bilaterali, specialmente dei nuclei vicini alla linea mediana che rappresentano un importante crocevia delle connessioni tra le aree corticali associative. In tutti e tre i casi, l'effetto finale della lesione che sottende lo stato vegetativo è una netta riduzione della capacità interattiva di molteplici aree corticali. Viceversa, lesioni limitate a una parte della corteccia cerebrale non determinano uno stato di incoscienza globale, bensì deficit focali, come per esempio la perdita della percezione del colore o del movimento: nessuna area in particolare sembra possedere la chiave della coscienza in quanto tale. Analogamente, studi di elettrofisiologia e imaging cerebrale mostrano come l'attività nervosa che correla con l'esperienza cosciente non sia localizzata, bensì diffusa a una rete di circuiti che tocca numerose regioni del sistema talamocorticale. In particolare, registrazioni elettroencefalografiche e magnetoencefalografiche hanno messo in evidenza alcuni fenomeni elettrici che correlano significativamente con la presenza di percezione cosciente. Il più riproducibile è l'aumento transitorio della sincronizzazione tra le oscillazioni registrate da sensori posti su aree corticali anche molto distanti tra loro: esso coinvolge soprattutto i ritmi elettroencefalografici veloci (da 30 a 80 Hz) e si instaura circa 100-200 msec dopo la presentazione dello stimolo. Questo fenomeno indica che, con tutta probabilità, quando percepiamo coscientemente uno stimolo, moltissimi gruppi neuronali del sistema talamocorticale stanno interagendo efficacemente tra loro, sia a breve sia a lunga distanza.
Nel complesso, i dati indicano chiaramente che il substrato della coscienza è costituito da una rete talamocorticale di elementi e circuiti fittamente interconnessi. Che cosa rende speciale il sistema talamocorticale? Se ne prendiamo in considerazione la neuroanatomia funzionale, diviene ovvio che l'architettura delle sue connessioni è in effetti straordinariamente adatta a integrare informazione. Sul versante dell'informazione, il sistema talamocorticale è composto da un gran numero di elementi altamente differenziati, ossia specializzati funzionalmente: i diversi sistemi (visivo, somatosensoriale, ecc.) si suddividono in aree specializzate (forma, colore, ecc.) che, a loro volta, contengono gruppi di neuroni specializzati (direzione, movimento, ecc.). Sul versante dell'integrazione, gli elementi specializzati del sistema talamocorticale sono inseriti in una rete di connessioni, sia a breve sia a lungo raggio, che permette un'interazione rapida ed efficace tra le diverse aree corticali. Un'organizzazione di questo genere, caratterizzata dalla coesistenza di specializzazione e integrazione funzionale, come confermato da simulazioni al calcolatore, risponde esattamente ai requisiti necessari perché un sistema fisico sia in grado di integrare una notevole quantità di informazione.
Il cervelletto possiede più neuroni del resto del cervello (50 miliardi, contro i 30 miliardi della corteccia cerebrale), altrettanti connessioni sinaptiche e neurotrasmettitori, e tuttavia non ha nulla o quasi a che fare con la coscienza. I pazienti ai quali è stato completamente asportato sono poco coordinati, possono anche presentare qualche sottile deficit cognitivo, ma sono sicuramente coscienti. Perché l'asportazione del cervelletto nulla toglie alla coscienza, mentre una lesione diffusa del sistema talamocorticale precipita lo stato vegetativo? Secondo la teoria dell'integrazione dell'informazione, la ragione va ricercata ancora una volta nell'architettura delle connessioni. La corteccia cerebellare sembra essere costituita da tanti circuiti in parallelo: i moduli stereotipati che la costituiscono comunicano scarsamente l'uno con l'altro e sono progettati per lavorare indipendentemente e velocemente su piccoli blocchi di segnali nervosi. Ciò rende il cervelletto una macchina efficiente e veloce dal punto di vista computazionale, a discapito tuttavia della capacità di integrare informazione. L'architettura della corteccia cerebellare, priva di connessioni laterali a breve e lunga distanza, fatta di molti piccoli complessi isolati ciascuno dei quali integra poca informazione, si avvicina a quella del sensore della macchina fotografica.
In ogni istante della nostra vita cosciente vediamo oggetti appropriatamente collocati nello spazio e li riconosciamo, udiamo parole ben distinte l'una dall'altra e ne cogliamo il significato, e facciamo tutto questo in modo apparentemente semplice e immediato, senza che ci sia richiesto alcuno sforzo. Eppure gli studi neurofisiologici dimostrano chiaramente che ciò che vediamo e udiamo è il risultato di una sofisticata eleborazione di segnali nervosi riguardanti la percezione della prospettiva, il riconoscimento degli oggetti e l'analisi del linguaggio. Molti di questi processi hanno luogo nel sistema talamocorticale e in vari circuiti sottocorticali a esso connessi. Analogamente, registrazioni magnetoencefalografiche dimostrano che anche uno stimolo che rimane inconscio può evocare risposte in molte aree del cervello, inclusa la corteccia frontale. Come mai non siamo minimamente consapevoli di tutto questo incessante lavorio?
La stessa domanda si pone a proposito del versante esecutivo della coscienza. Quando pianifichiamo o diciamo qualcosa, infatti, siamo soltanto vagamente coscienti di ciò che vogliamo fare. Le nostre vaghe intezioni vengono però tradotte quasi miracolosamente nelle parole appropriate, ordinate nella giusta sequenza, a formare una frase sintatticamente corretta che esprime esattamente ciò che volevamo dire. Anche in questo caso, non siamo affatto coscienti delle complicatissime computazioni che i neuroni corticali eseguono per realizzare le nostre intenzioni. Qual è la spiegazione di questo fenomeno? La più plausibile è che questi processi cognitivi siano svolti da circuiti nervosi che, per quanto sofisticati, e per quanto collegati in ingresso e in uscita a circuiti talamocorticali responsabili della generazione della coscienza, rimangono essenzialmente isolati dal punto di vista informazionale. Per esempio, molti circuiti sottocorticali ‒ in particolar modo quelli che coinvolgono i cosiddetti ‒ sono organizzati in parallelo, con scarse possibilità di interazione reciproca. Ciascuno di essi rappresenta una sorta di 'linea privata' di elaborazione dei dati a disposizione di singoli elementi talamocorticali, che invece comunicano liberamente tra loro. I circuiti dei gangli della base potrebbero pertanto rappresentare il substrato neuronale per molti di quei processi che, per quanto inconsci, influenzano la coscienza e ne sono a loro volta influenzati.
È probabile che alcuni di questi circuiti, isolati dal punto di vista dell'informazione, si vengano a formare progressivamente nel corso dell'apprendimento di nuove sequenze motorie o cognitive. Per esempio, è esperienza comune che quando ci cimentiamo in un nuovo esercizio siamo consapevoli di ogni dettaglio, commettiamo errori, siamo lenti nell'esecuzione e ci è richiesto un certo sforzo. Una volta che abbiamo imparato a eseguirlo, invece, sappiamo farlo con precisione, velocità, scioltezza e, soprattutto, ne siamo sempre meno consapevoli. Gli studi di neurofisiologia funzionale indicano che quando eseguiamo un esercizio per la prima volta si attiva un gran numero di aree corticali, e che man mano che impariamo l'attivazione si riduce o si sposta, coinvolgendo circuiti differenti, perlopiù sottocorticali. Dunque, se all'inizio lo svolgimento del compito sembra coinvolgere numerose regioni di un vasto complesso talamocorticale, in seguito, con l'apprendimento, alcuni aspetti vengono a quanto pare delegati a circuiti nervosi sottocorticali che, essendo isolati dal punto di vista dell'informazione, non contribuiscono direttamente alla coscienza. È probabile che le cose non stiano diversamente per numerosi circuiti nervosi, contenuti all'interno della corteccia cerebrale, che si occupano di computazioni locali.
Se l'organizzazione anatomica sembra essere cruciale per l'integrazione dell'informazione e dunque per la coscienza, alcuni parametri neurofisiologici non sono da meno. Un esempio tipico è fornito dal sonno, la più familiare tra le alterazioni della coscienza e allo stesso tempo una delle più radicali. Quando ci risvegliamo da un sonno senza sogni, abbiamo la particolarissima sensazione di non essere esistiti, almeno per un certo tempo: né noi, né il mondo che ci circonda. Quest'esperienza, peraltro quotidiana, ci suggerisce in maniera assai vivida che la coscienza può fluttuare, espandersi e collassare. Tanto è vero che, senza le periodiche interruzioni del sonno senza sogni, ci risulterebbe difficile immaginare che la condizione cosciente non è perenne e inevitabile ma dipende invece, e in modo assai delicato, dal funzionamento del cervello. La perdita di coscienza che si verifica tra l'addormentamento e il risveglio è peraltro più relativa che assoluta: come si può facilmente dimostrare risvegliando un soggetto in corrispondenza di diversi stadi del sonno, un certo livello di coscienza viene mantenuto durante buona parte della notte. Molti risvegli, specialmente quelli che avvengono durante la fase REM (Rapid eye movements), sono seguiti dal racconto di un sogno, che talvolta è persino più vivido e coinvolgente della veglia. Stati di coscienza simili al sogno compaiono anche in alcune fasi del sonno a onde lente, specialmente durante l'addormentamento e nell'ultima parte della notte. Sono tuttavia numerosi i risvegli in occasione dei quali il soggetto non sembra avere alcunché da riferire, e ciò suggerisce una netta riduzione nel livello di coscienza. Questi risvegli 'vuoti' avvengono tipicamente in corrispondenza degli stadi di sonno più profondo (stadi 3 e 4), specialmente durante la prima metà della notte.
Quali parametri neurofisiologici sono responsabili dei notevoli cambiamenti della quantità e della qualità della coscienza durante il sonno? Sappiamo per certo che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il cervello non si spegne affatto quando dormiamo. Per esempio, durante il sonno REM la frequenza di scarica dei neuroni è simile a quella registrata durante la veglia, se non più alta, e l'elettroencefalogramma mostra un tracciato ad alta frequenza e a bassa ampiezza. Questo tipo di tracciato, comune alla veglia e al sonno REM, è definito 'attivato', perché i neuroni corticali, depolarizzati e vicini alla soglia di scarica, sono pronti a rispondere agli stimoli. Considerata la somiglianza tra l'elettrofisiologia della veglia e quella del sonno REM, non è del tutto sorprendente che la coscienza sia presente in entrambe le condizioni. Ciò tuttavia non esclude che nei due casi la qualità della coscienza sia diversa, in relazione all'attivazione differenziale di aree cerebrali specifiche.
Anche durante il sonno a onde lente la scarica media dei neuroni corticali non è dissimile da quella che si può registrare durante la veglia quieta. Tuttavia, a causa della variazione nel livello di alcuni neuromodulatori, quasi tutti i neuroni del mantello corticale sono coinvolti in un'oscillazione lenta, con un periodo attorno al secondo, che si riflette nelle tipiche onde registrate dall'elettroencefalogramma. L'oscillazione lenta è costituita dall'alternanza di due fasi: una fase di depolarizzazione, durante la quale il potenziale di membrana dei neuroni corticali è vicino alla soglia e la frequenza di scarica è simile a quella della veglia, e una fase di iperpolarizzazione, durante la quale il potenziale di membrana è fortemente negativo e i neuroni sono silenti. È probabile che, durante la seconda fase, i neuroni corticali siano assai meno pronti a rispondere, qualunque stimolo ricevano. Ciò provocherebbe una caduta, per quanto intermittente, della capacità di integrare informazione, e pertanto del livello di coscienza. Sarebbe un po' come se ci trovassimo a guardare un film spezzettato in frammenti brevissimi, inframezzati da intervalli vuoti durante i quali non possiamo vedere, pensare o ricordare nulla: non stupirebbe affatto se, in queste condizioni, vi fosse ben poco di cui riferire. Uno stato simile, anch'esso caratterizzato da una risposta ridotta dei neuroni corticali e da un ridotto livello di coscienza, è costituito dall'anestesia profonda.
Oltre che richiedere una speciale architettura anatomica, nonché parametri neurofisiologici adeguati, è evidente che l'esperienza cosciente si svolge con tempi caratteristici. Come dimostrato da studi di psicofisiologia, ci vogliono almeno 100-200 msec per arrivare a una percezione sensoriale compiuta. L'affiorare di una percezione visiva è simile, in un certo qual modo, al processo di sviluppo di una pellicola fotografica: prima vi è soltanto la sensazione che qualcosa sia cambiato, che sia comparso un che di visivo piuttosto che, per esempio, uditivo; poi è la volta di alcune caratteristiche elementari, come il movimento, la collocazione nello spazio e le dimensioni approssimative; quindi emergono la forma e i colori, seguiti infine dalla formazione e dal riconoscimento dell'intero oggetto. Si noti che questa sequenza corrisponde alla progressione da una percezione indifferenziata e aspecifica a una differenziata e specifica. Parallelamente, registrazioni dell'attività della corteccia visiva primaria della scimmia suggeriscono che la scarica dei neuroni correla con la presenza o meno della percezione cosciente di uno stimolo soltanto dopo 80-100 msec. Perché ci vuole tanto per generare un'esperienza cosciente? Perché l'attività di un neurone sembra contribuire alla coscienza soltanto in determinati intervalli temporali? In termini di integrazione dell'informazione, non è difficile comprendere che i requisiti temporali dell'esperienza cosciente dipendono dal tempo che è necessario per consentire interazioni causali efficaci tra gli elementi del sistema. Considerando i tempi di propagazione dell'impulso lungo le fibre nervose, se dovessimo misurare la risposta generata all'interno del sistema talamocorticale dalla stimolazione di un qualsiasi gruppo neuronale dopo appena un millisecondo, l'effetto sarebbe nullo. Tuttavia, dopo qualche decina di millisecondi gli elementi del sistema cominciano a interagire efficacemente, portando all'emergenza di una risposta specifica. In breve, la scala temporale delle interazioni neurofisiologiche necessarie per integrare informazione tra le aree corticali risulta corrispondere ai tempi della coscienza osservati sperimentalmente.
La corrispondenza tra coscienza e capacità di integrare informazione consente di affrontare in maniera coerente non solo il problema di quanto un sistema fisico sia cosciente, ma anche di quale tipo di coscienza sia dotato (il secondo problema della coscienza). La nostra coscienza, è costituita da diverse modalità (per es., vista e udito), ciascuna suddivisa in sottomodalità (per es., forma e colore), a loro volta suddivise in numerose dimensioni. Che cosa è responsabile del fatto che i colori hanno quella particolare qualità soggettiva, la quale è diversa dal suono di un'orchestra o dal dolore causato da una ferita? E perché non riusciamo nemmeno a immaginare che cosa si proverebbe ad avere un 'sesto senso'? Si pensi a esseri sufficientemente diversi da noi, come i pipistrelli: assumendo che siano coscienti, che esperienze hanno? Quando scandagliano lo spazio con l'eco, il mondo appare loro in maniera similvisiva o similacustica, o in un modo ancora diverso?
Sebbene anche questi interrogativi possano sembrare difficilmente suscettibili di una risposta scientifica, sappiamo che, come la quantità, anche la qualità della coscienza dipende dal funzionamento di certe parti della corteccia cerebrale e del talamo. Per esempio, l'affinamento delle percezioni che avviene quando, nel corso del tempo, si impara ad apprezzare ogni sfumatura di un vino, dipende da modificazioni delle connessioni tra cellule cerebrali. Non solo, ma è ormai chiaro anche che aree diverse della corteccia forniscono qualità diverse alla coscienza. Per esempio, i pazienti con una particolare lesione cerebrale perdono la capacità di discriminare coscientemente i colori, mentre chi ha lesioni in un'altra sede percepisce ogni sfumatura di colore ma non è in grado di percepire il movimento. Evidentemente, un qualche aspetto dell'organizzazione di queste aree corticali è responsabile della diversa qualità delle esperienze coscienti che ne derivano. Ma qual è quest'aspetto cruciale? La teoria dell'integrazione dell'informazione suggerisce al problema della qualità della coscienza una risposta che rappresenta un'estensione naturale di quella relativa al problema della quantità di coscienza. In estrema sintesi, l'idea è che, come la quantità di coscienza è data dalla capacità di un sistema di integrare informazione, così le qualità specifiche dei cosiddetti , del blu e del rosso per esempio, sono dovute al tipo di relazioni informazionali che legano gli elementi di un complesso, mentre il tipo di relazioni informazionali è determinato in larga parte dall'anatomia delle connessioni nervose che si trovano all'interno di ciascuna e tra le diverse aree corticali che costituiscono il complesso in cui l'informazione viene integrata.
Come abbiamo visto, è possibile ‒ almeno in linea di principio ‒ offrire una caratterizzazione teorica delle proprietà fenomenologiche fondamentali dell'esperienza cosciente: essa implica una straordinaria capacità di integrare informazione. È anche possibile sviluppare una vera e propria misura della coscienza (φ), allo stesso modo in cui si è potuto farlo per quantità fisiche fondamentali quali l'entropia o la temperatura (nel senso di energia cinetica media). Soprattutto, alla luce della teoria, è possibile rendere conto in maniera coerente di un gran numero di osservazioni sperimentali e cliniche relative alla neurobiologia della coscienza. Secondo la teoria, infatti, le molteplici manifestazioni della coscienza, e i loro misteriosi legami con l'organizzazione e il funzionamento di certe parti del nostro cervello, sono riconducibili alle modalità di integrazione dell'informazione: laddove cambia la capacità di integrare informazione cambia anche il livello di coscienza, e viceversa; analogamente a come, secondo la meccanica statistica, laddove cambia l'energia cinetica media delle molecole cambia anche la loro temperatura.
Arrivare a una comprensione adeguata della coscienza in tutti i suoi aspetti richiederà ben altri sviluppi, sia teorici sia sperimentali. Per esempio, non abbiamo potuto prendere in considerazione distinzioni importanti come quella tra coscienza primaria e autocoscienza, né i rapporti assai stretti tra coscienza e memoria e tra coscienza e linguaggio. Non abbiamo nemmeno accennato alle grandi difficoltà pratiche che ostacolano la misurazione della capacità di integrare informazione di un cervello vivente. Né è possibile, in questa sede, discutere le numerose implicazioni del postulare l'equivalenza tra coscienza e capacità di integrare informazione. Non è certo difficile, tuttavia, intuirne alcune: da un lato, se la teoria è corretta, qualunque sistema in grado di integrare informazione dev'essere in qualche misura cosciente, non importa se già adulto o ancora no, se umano o animale, se biologico o artificiale; dall'altro, se si considerano i risultati sinora ottenuti misurando l'informazione integrata in sistemi simulati al calcolatore, non sembra affatto facile imbattersi in un'organizzazione che riesca a superare, in quanto a integrazione dell'informazione, il sistema talamocorticale dell'uomo adulto.
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