Neuroscienze e fenomenologia
Premessa
Uno degli obiettivi principali della ricerca contemporanea delle neuroscienze cognitive, cioè di quella branca delle neuroscienze che ha come oggetto di studio gli aspetti più sofisticati del nostro comportamento intelligente, è il progetto di naturalizzazione della cognizione o intelligenza sociale, consistente nella comprensione della natura dei processi neurali che regolano le relazioni interpersonali, l’intersoggettività. Il problema consiste nel capire quali sono i meccanismi nervosi che ci consentono di entrare in comunicazione con i nostri simili, di trasmettere loro i nostri desideri, le nostre credenze, le nostre intenzioni, e, contemporaneamente, comprendere ciò che gli altri fanno e perché lo fanno. Il fine ultimo di questo progetto è quello di chiarire la connessione tra i meccanismi di funzionamento del cervello e le nostre competenze cognitive sociali. Potremmo dire che uno degli interrogativi fondamentali cui Edmund Husserl (1859-1938), padre della fenomenologia, aveva cercato di dare una risposta, oggi può essere fatto proprio dalle neuroscienze cognitive: com’è possibile studiare la soggettività, l’approccio in prima persona alla realtà, in modo da poterla descrivere scientificamente senza limitarsi a comprenderla nel modo ineffabile dell’introspezione, che non consente la comunicazione oggettiva tipica della scienza?
Uno degli aspetti principali della corrente filosofica inaugurata da Husserl, e poi proseguita (Costa, Franzini, Spinicci 2002) secondo varie e differenti declinazioni – spesso in conflitto tra loro – da filosofi come Martin Heidegger, Maurice Merleau-Ponty, Paul Ricœur, Emmanuel Lévinas e Jan Patočka, consiste nell’indagare le modalità con cui si costituisce l’esperienza che facciamo del mondo, cercando di capire da dove traggano la propria validità e legittimità gli oggetti di tale esperienza, a partire da quelli più semplici, come le cose che popolano la nostra vita quotidiana (per es., tazze di caffè, lavagne ecc.), sino a quelli più complessi, come gli enti matematici, i principi della logica, le leggi scientifiche, ma anche e soprattutto gli altri soggetti.
Fino a che punto il pensiero fenomenologico può aiutare l’indagine neuroscientifica? E in che modo i risultati della ricerca neuroscientifica possono aiutare a riformulare l’approccio fenomenologico? È possibile oggi ‘naturalizzare’ la fenomenologia? Il presente contributo cerca di evidenziare, da un lato, come aspetti importanti della riflessione fenomenologica trovino attualmente evidenti riscontri nei risultati dell’indagine neuroscientifica, e, dall’altro, come i risultati della ricerca empirica condotta dalle neuroscienze cognitive possano fornire un valido contributo a una nuova formulazione, se non a una risoluzione, di svariati problemi di natura filosofica che per decenni sono stati e che tuttora sono al centro della ricerca fenomenologica.
Naturalizzare la fenomenologia o fenomenologizzare le neuroscienze?
Il tentativo di fare interagire neuroscienze e fenomenologia ha preso corpo in origine come progetto di naturalizzazione della ricerca fenomenologica (Naturalizing phenomenology, 1999), cui ha contribuito negli ultimi decenni, tra gli altri, Francisco Varela. Lo scienziato cileno acquisì notorietà internazionale per avere introdotto, assieme a Humberto Maturana, il concetto di autopoiesi, mediante il quale si sottolineava l’intrinseco nesso tra funzione e struttura, tipico di ogni forma vivente. Varela approfondì durante tutta la sua carriera il ruolo dell’interazione corpo-ambiente nei processi cognitivi, approdando infine alla formulazione programmatica di un nuovo approccio allo studio della coscienza e dei processi cognitivi definito neurofenomenologia. Secondo Varela (1996), la neurofenomenologia costituisce un approccio interdisciplinare allo studio del problema della coscienza capace di coniugare la metodologia empirica delle neuroscienze con l’analisi in prima persona propria della fenomenologia. In questo modo, secondo Varela, si può superare il dualismo corpo/mente, mettendo al centro dell’indagine empirica il Leib, cioè il corpo nel vivo dell’esperienza, che può essere considerato tanto dal punto vista di un’analisi filosofica trascendentale quanto dal punto di vista dello studio empirico dei processi nervosi che lo sottendono.
Questa impostazione, tuttavia, può risultare assai problematica, se non addirittura paradossale, soprattutto se si tiene presente che a partire dai suoi esordi la fenomenologia si è programmaticamente contrapposta all’atteggiamento naturalistico della scienza psicologica, nonché, secondo molti, delle attuali neuroscienze.
Già prima di Husserl, Franz Brentano e Wilhelm Dilthey avevano posto al centro delle proprie riflessioni l’indagine dei vissuti (Erlebnisse) di coscienza. Il progetto originale della fenomenologia messo a punto da Husserl consisteva nel raffinare tale indagine nel tentativo di fare emergere la dimensione costitutiva dell’esperienza. Un tale progetto si proponeva come alternativo alle strategie epistemiche della coeva psicologia naturale, in particolare di quella fisiologica, incapaci di cogliere, a detta di Husserl, l’effettiva esperienza dello psichico ridotto a mera cosa tra le cose.
Queste polemiche non appartengono però solo al passato. La frattura suggerita da Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito continua ad alimentare il dibattito contemporaneo nella filosofia della mente e all’interno delle scienze cognitive. Le stesse critiche mosse da Husserl al naturalismo, in nome dell’analisi fenomenologica della dimensione psichica e dei processi che sottendono il nostro avere a che fare con le cose del mondo (altri soggetti inclusi), possono in qualche misura essere applicate anche all’approccio neuroscientifico allo studio della natura umana.
Ciò è tanto più vero dopo lo sviluppo delle potenti tecniche di visualizzazione per immagini dell’attività cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale o fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging). Tali tecniche ci hanno messo in grado di osservare direttamente ciò che accade nel nostro cervello quando siamo impegnati in una varietà di compiti percettivi, esecutivi e cognitivi. Dovremmo, tuttavia, essere consapevoli dei rischi derivanti dall’affidarsi ciecamente al solo potere euristico di queste tecniche correlative, se non supportate da un’analisi fenomenologica dei processi (percettivi, esecutivi e cognitivi) indagati, nonché dai dati neurofisiologici derivanti dallo studio diretto dell’attività dei singoli neuroni (per ora in gran parte esclusivamente possibile nel modello animale). I rischi di un mero approccio correlativo aumentano ulteriormente se i dati ottenuti con tali tecniche sono acriticamente utilizzati in modo strumentale per convalidare modelli e nozioni concernenti la natura della mente umana e il suo funzionamento ritenuti veri a priori.
Queste problematiche sono particolarmente evidenti nello studio della cognizione sociale. Trasferire automaticamente nel cervello un modello della mente umana quale quello proprio delle scienze cognitive classiche, che appiattisce ed esaurisce la cognizione sociale a una mera utilizzazione degli atteggiamenti proposizionali della psicologia ingenua – credenze, desideri, intenzioni –, può condurci a risultati errati. È indubbio che nella vita quotidiana descriviamo il comportamento altrui utilizzando il vocabolario della psicologia ingenua. In questo modo possiamo, per es., dire che gli altri fanno certe cose sulla base di una data intenzione di farlo, a sua volta finalizzata al soddisfacimento di un desiderio, dato un certo sistema di credenze. Tuttavia, il linguaggio può ingannarci per via della sua ‘costitutività’, vale a dire per la sua capacità di fornire un apparente statuto ontologico ai concetti-parole che la psicologia ingenua normalmente impiega per descrivere le competenze mentalistiche che pensiamo di utilizzare ogni volta che vogliamo spiegare il comportamento altrui. Queste definizioni linguistiche non si traducono necessariamente in entità reali nel cervello.
Come ci insegna la fenomenologia, la cognizione sociale non è soltanto ‘metacognizione sociale’, cioè il pensare esplicitamente al contenuto della mente altrui per mezzo di simboli o di altre rappresentazioni in un formato proposizionale. Le possibilità di trovare nel nostro cervello aree contenenti i correlati neurali di credenze, desideri e intenzioni come tali sono probabilmente vicine allo zero. Una simile ricerca, dal vago sapore neofrenologico, costituisce una forma degenere di riduzionismo che non porterà da nessuna parte.
L’approccio standard delle neuroscienze cognitive alla cognizione sociale si trova a dovere fronteggiare un altro problema, quello della ‘fallacia mereologica’ (Bennett, Hacker 2003), vale a dire il problema di attribuire alle parti di un organismo caratteri che sono proprietà dell’intero. La mentalizzazione, il modo con cui spieghiamo il comportamento altrui attribuendo un ruolo causale a stati mentali interni, comporta un livello di competenza personale, e, per questo motivo, la mentalizzazione non può essere interamente ridotta all’attività subpersonale di gruppi di neuroni nelle aree della corteccia cerebrale, ipoteticamente specializzate nella ‘lettura della mente’. I neuroni, infatti, non sono agenti epistemici, non sono soggetti di conoscenza. I neuroni ‘conoscono’ solo il passaggio degli ioni attraverso le loro membrane. Il mentalizzare ha bisogno di una persona, che potremmo definire come un sistema d’interconnessione tra cervello e corpo che interagisce in modo situato con uno specifico ambiente popolato da altri sistemi cervello-corpo.
Ciò detto, resta da sottolineare come la via d’uscita al problema della fallacia mereologica non può consistere in un olismo indifferenziato in cui, per parafrasare il celebre detto hegeliano, tutte le parti sono ‘nere’. Piuttosto, è proprio attraverso l’analisi dei differenti meccanismi subpersonali che emergono quei diversi strati dell’esperienza che, pur non esaurendola in toto, consentono di descriverne progressivamente sia la genesi sia la struttura.
Da questo punto di vista, anziché naturalizzare la fenomenologia sembra più promettente fenomenologizzare le neuroscienze cognitive, utilizzando le sollecitazioni che provengono dalla riflessione fenomenologica, in particolare dalle analisi (husserliane, ma non solo) sul corpo vivo (Leib) e sul ruolo che esso ha nella costituzione della nostra esperienza nei confronti delle cose del mondo e degli altri. Ciò può consentire uno studio empirico della dimensione soggettiva e di quella intersoggettiva compiuto su basi nuove rispetto a quelle fin qui in gran parte adottate dalle neuroscienze cognitive. Soprattutto, senza sacrificare o eliminare gli aspetti in prima persona dell’esperienza che quotidianamente facciamo del mondo degli oggetti come di quello popolato da altri esseri umani. E senza minimizzare gli aspetti preteoretici e pragmatici della nostra relazione con il mondo.
Vale la pena di notare come, nell’ambito delle neuroscienze cognitive, si stiano cominciando a indagare i correlati neurali delle componenti ‘incarnate’ dell’esperienza del mondo, lasciandosi alle spalle l’equazione ‘mente uguale theoria’, già criticata, seppure in modi diversi, da Husserl e da Heidegger (Costa 1999, 2003; Leoni 2008). Stiamo cioè assistendo allo sviluppo di un approccio neuroscientifico che mette al centro della propria indagine il corpo vivo e i suoi correlati neurali sensorio-motori.
Azione, percezione e processi cognitivi
Il nostro rapporto con la realtà è in prima istanza mediato dai sensi, canali privilegiati d’accesso al mondo che ci circonda. Comunemente si crede che esista un mondo oggettivo cui siamo costantemente legati, ma da cui al contempo ci distinguiamo, in quanto soggetti di esperienze relative a quello stesso mondo. La nozione di soggettività diviene così una linea di demarcazione, una sorta di definizione per contrasto, da cui traiamo il nostro ubi consistam, il solido fondamento della nostra individualità personale.
Al pari del cognitivismo classico, le neuroscienze cognitive, fino a non molti anni fa, hanno privilegiato un modello secondo il quale funzioni come sensazione, percezione e controllo motorio sarebbero ‘localizzate’ in aree corticali diverse. Le sensazioni prevarrebbero all’interno delle aree sensoriali primarie; la percezione sarebbe il prodotto di aree ‘associative’, prevalentemente temporo-parietali, mentre i movimenti verrebbero controllati dalle aree motorie e premotorie localizzate nella porzione posteriore del lobo frontale, conosciuta anche come corteccia frontale agranulare. L’analisi del mondo esterno si configurerebbe così come un flusso di informazioni che procedono unidirezionalmente a partire dalle aree corticali posteriori (sensoriali e associative) per giungere poi alle aree motorie frontali dove si integrerebbero con il prodotto dell’elaborazione della corteccia prefrontale, sede dei processi decisionali e, più in generale, degli aspetti più sofisticati della nostra intelligenza.
I dati sperimentali acquisiti nel corso degli ultimi venti anni ci consegnano, tuttavia, un quadro completamente diverso. La corteccia motoria del lobo frontale, così come quella parietale posteriore, sono costituite da un mosaico di aree distinte sul piano anatomo-funzionale che contraggono rapporti di connessione reciproca per costituire distinti circuiti cortico-corticali (Rizzolatti, Sinigaglia 2006; Gallese 2007b). Ognuno di questi circuiti parieto-premotori integra informazioni sensoriali e motorie relative a una certa parte corporea e ne assicura il controllo all’interno di distinti sistemi di coordinate spaziali di riferimento. Si assiste, in altre parole, a una molteplicità di ‘rappresentazioni corticali’ di distinti effettori che assolvono a funzioni diverse. Il concetto di rappresentazione va però ovviamente interpretato in modo del tutto diverso da una semplice equivalenza simbolica tra un’entità reale del mondo, oggettivamente data, e un codice computazionale, in potenza molteplicemente realizzabile in qualsivoglia diverso supporto. L’espressione «la rappresentazione corticale di…» va intesa in quello che potremmo suggerire essere il suo significato primigenio, vale a dire quello di «modello di controllo interattivo organismo-mondo». La radice del concetto di rappresentazione deve essere spogliata delle sue pur presenti connotazioni astratte – caratteristiche della concezione computazionale e simbolico-rappresentazionale della mente, propria del cognitivismo classico – e ricondotta invece nell’alveo di una nozione fenomenologicamente e biologicamente fondata, tesa a metterne in luce la natura preconcettuale e prelinguistica.
Che cosa significa esattamente proporre una definizione di rappresentazione in termini di modelli di controllo delle svariate interazioni organismo-mondo? Significa metterne in luce i connotati relazionali e intenzionali. Se adottiamo questa prospettiva, rappresentazioni e modelli di controllo relazionali ci appaiono come due facce della stessa medaglia.
Partiamo da uno dei più semplici tipi di relazione che possiamo intrattenere con il mondo: compiere un’azione. Ogni azione, qualunque essa sia, è caratterizzata dalla presenza di uno scopo. Gli stessi movimenti, come flettere le dita di una mano, possono essere eseguiti per conseguire fini diversi (afferrare un bicchiere, grattarsi il capo, semplicemente giocherellare con le dita ecc). La presenza di scopi diversi fa di quegli stessi movimenti degli atti motori diversi. Quale relazione esiste tra il sistema motorio, i movimenti e gli atti motori? Fino a non molti anni fa il sistema motorio era concepito come un semplice controllore di movimenti. Recenti risultati sperimentali neurofisiologici ci inducono a pensare che il sistema motorio sia invece deputato al controllo degli atti motori, avendo cioè alla base della propria organizzazione funzionale la nozione teleologica di scopo.
Una serie di esperimenti di registrazione di singoli neuroni dalla corteccia premotoria di scimmia condotta agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso da Giacomo Rizzolatti e dal suo gruppo di ricerca, portarono alla scoperta nell’area F5 di neuroni motori che vengono attivati non durante l’esecuzione di semplici movimenti, ma di atti motori, cioè di movimenti finalizzati al raggiungimento di uno scopo (Rizzolatti, Fogassi, Gallese 20002; Rizzolatti, Sinigaglia 2006). Nel caso specifico, si trattava di neuroni che scaricavano ogni volta che la scimmia afferrava un oggetto, indipendentemente dal fatto che lo facesse con la mano destra, sinistra, oppure con la bocca. Il movimento di ognuna di queste diverse parti corporee è controllato da gruppi muscolari del tutto diversi. Né muscoli né movimenti possono quindi costituire il comune denominatore alla base dell’attivazione di questa popolazione neuronale. Il comune denominatore è costituito dallo scopo di quegli atti motori. Un gruppo di neuroni premotori, tradizionalmente considerati parte della via finale comune mediante cui l’agente risponde a stimoli esterni o autogenerati eseguendo movimenti, si rivela pertanto correlato con il livello più astratto di descrizione del movimento: il suo finalismo.
Tale correlazione emerge ancora più chiaramente da una serie di esperimenti recenti (Umiltà, Escola, Intskirveli et al. 2008) in cui gli stessi neuroni premotori dell’area F5 sono stati registrati mentre la scimmia afferrava oggetti con una pinza che, per la sua particolare conformazione, la obbligava a eseguire movimenti della mano opposti a quelli normalmente impiegati per afferrare un pezzo di cibo; i neuroni per l’afferramento continuavano a scaricare durante l’afferramento del cibo con la pinza, anche se il conseguimento dello scopo era raggiunto impiegando movimenti del tutto opposti a quelli naturali. Questi risultati dimostrano che ciò che tali neuroni rappresentano/controllano è lo scopo dell’atto motorio e non i mezzi, cioè i movimenti, richiesti per conseguirlo. Tali scoperte permettono di chiarire empiricamente che cosa faccia di un movimento un’azione. Prima della concettualizzazione della nozione di scopo vi è un correlato pragmatico, un elemento portante del modo con cui il nostro sistema cervello-corpo struttura e organizza la nostra interazione con il mondo.
I neuroni canonici e il mondo a ‘portata di mano’
In un’altra serie di esperimenti, il cui scopo originario era quello di indagare i meccanismi di integrazione visuo-motoria che presiedono ai movimenti finalizzati della mano quando afferra oggetti, si è scoperto che una parte dei neuroni premotori che codificano lo scopo di particolari atti motori, come afferrare o manipolare oggetti, è attivata anche dall’osservazione degli stessi oggetti, pur in assenza di qualsiasi movimento attivo dell’animale. Questi neuroni (neuroni canonici) rispondono all’osservazione di oggetti le cui intrinseche caratteristiche fisiche (forma, grandezza) sono intimamente correlate con il tipo d’azione ‘codificato’ da quegli stessi neuroni (Rizzolatti, Fogassi, Gallese 20002; Rizzolatti, Sinigaglia 2006). L’aspetto più interessante dei neuroni canonici è costituito dal fatto che in una considerevole percentuale di essi è stata osservata una congruenza fra l’elevata selettività motoria per un particolare tipo di prensione (per es., opponendo il pollice al dito indice per afferrare oggetti piccoli) e la selettività ‘visiva’ dimostrata per oggetti di piccole dimensioni che, sebbene differenti per la forma (per es., cubo, cono e sfera), tuttavia, per essere afferrati, richiedono egualmente lo stesso tipo di prensione codificato da un punto di vista motorio dagli stessi neuroni. Queste risposte ‘visive’ non preparano né preludono ad alcuna azione verso gli oggetti che la scimmia si limita a osservare. Neuroni visuo-motori per l’afferramento di oggetti con la mano, con caratteristiche simili, sono stati descritti anche in un’area della corteccia parietale (area AIP, Anterior IntraParietal) reciprocamente connessa con l’area premotoria F5. Studi successivi hanno dimostrato che anche nel cervello umano l’osservazione di oggetti manipolabili determina l’attivazione delle cortecce premotorie e parietali posteriori.Quale interpretazione dare di queste risposte visive riscontrate in neuroni motori? È estremamente difficile interpretare queste risposte in termini esclusivamente sensoriali o motori. Gli oggetti la cui osservazione determina la risposta dei neuroni canonici vengono da essi analizzati in termini relazionali. L’osservazione di un oggetto, pur in un contesto che con esso non prevede alcuna interazione attiva, determina l’attivazione del programma motorio che si impiegherebbe se si volesse interagire con l’oggetto. Vedere l’oggetto significa simulare automaticamente cosa faremmo con quell’oggetto; significa simulare un’azione potenziale. In altre parole, gli oggetti non sono unicamente identificati, differenziati e categorizzati in virtù della propria mera ‘apparenza’ fisica, bensì anche in relazione agli effetti dell’interazione con un agente potenziale.
Secondo questa prospettiva, l’oggetto acquista così una valenza significativa solo in virtù della propria relazione dinamica con il soggetto/agente fruitore di questa relazione. Questa relazione dinamica è molteplice, come molteplici sono i modi con cui possiamo interagire con il mondo muovendoci in esso. La vicinanza con la prospettiva heideggeriana è qui palese. Secondo Heidegger, infatti, l’uomo è sempre contemporaneamente fuori di sé, presso le cose, e, in quanto trascendente a sé stesso, solo all’uomo si dischiude un mondo come progetto delle proprie azioni (Costa 2003). Siamo aperti al mondo e contemporaneamente siamo nel mondo perché nel mondo identifichiamo non esclusivamente qualche cosa che ci sta dinanzi, che sta davanti alla nostra mano (vor-handen), ma che è contemporaneamente a portata di mano (zu-handen). I risultati della ricerca neuroscientifica mostrano come anche parte del mondo animale, segnatamente i primati non umani, condividano, almeno parzialmente con la nostra specie, questa caratteristica.
Rappresentazione come modello relazionale
Abbiamo fin qui parlato di azioni di afferramento che, tuttavia, non esauriscono la gamma delle possibilità di interazione con il mondo degli oggetti. Possiamo avvicinarci a un oggetto, allontanarcene, guardarlo da diversi angoli visuali girandogli attorno, oppure possiamo esplorarlo con il movimento dei nostri occhi. Tutte queste differenti modalità d’interazione sono accomunate da una stessa valenza relazionale. L’oggetto cessa di esistere per sé stesso, ed è per noi solo in quanto si trova a essere in un rapporto di relazione intenzionale, cioè pragmatica, con un agente potenziale.
Le invarianze del mondo degli oggetti non vanno quindi viste esclusivamente come caratteristiche intrinseche del mondo fisico, ma come il risultato dell’interazione peculiare con organismi agenti. Possiamo così definire il concetto di visione (e per traslazione anche quello delle altre modalità sensoriali) in un modo completamente nuovo. Da un lato, i processi sensoriali costituiscono il presupposto dell’azione, ma contemporaneamente sono anche parte dell’azione. Considerare azione e percezione come entità distinte, alla luce di quanto detto, risulta oltremodo problematico.
Qual è dunque il significato di un oggetto osservato? Una pura e semplice descrizione delle sue caratteristiche di forma, colore e dimensione, o non piuttosto anche la sua valenza intenzionale-relazionale, il suo carattere di complementarietà dinamica con l’agente dell’esperienza percettiva che è sempre anche potenzialmente pragmatica?
L’aspetto intenzionale/pragmatico della nozione di rappresentazione, come attributo funzionale del sistema cervello-corpo dovrebbe risultare più chiaro. Potremmo avventurarci a ipotizzare speculativamente che le rappresentazioni mentali così intese non nascano – né in termini filogenetici né ontogenetici – con una specifica valenza linguistico-simbolica, ma che invece questa caratteristica sia una successiva acquisizione attraverso un processo di ridefinizione funzionale di processi già presenti per un altro scopo, quale, appunto, la modellizzazione del sistema-organismo nel corso delle sue relazioni pragmatiche con il mondo che non è mai completamente esterno.
Gli schemi sensorio-motori che caratterizzano i molteplici e paralleli circuiti corticali fronto-parietali cui abbiamo fin qui fatto breve riferimento, sono utilizzati non solo per generare e controllare i comportamenti finalizzati tipici della vita di relazione, ma anche per comprendere – già a un livello preconcettuale e prelinguistico – il significato delle cose del mondo. Sia le cose, sia gli oggetti, acquisiscono la piena significazione solamente in quanto costituiscono uno dei poli di una relazione dinamica con il soggetto agente, che di questa relazione costituisce il secondo polo (Gallese 2006).
Questo tipo di impostazione ci consente di ridefinire la triade percezione, azione e cognizione in un’ottica nuova, e, soprattutto, in un’ottica compatibile con un’accezione ‘incarnata’, situata nel corpo, dei processi cognitivi, in linea di principio affine alla visione offerta dalla fenomenologia.
Abbiamo fin qui visto come la caratterizzazione di percezione, azione e processi cognitivi come processi distinti da un punto di vista funzionale e segregati da un punto di vista anatomico sia contraddetta dalle più recenti acquisizioni della ricerca neuroscientifica. Abbiamo analizzato in particolare le relazioni che intercorrono tra azione, percezione e conoscenza di oggetti inanimati. Vediamo ora come la stessa logica funzionale sia alla base anche di un aspetto tipicamente al centro della speculazione fenomenologica, la coscienza dell’azione.
Consapevolezza cosciente dell’azione
La consapevolezza dell’azione costituisce un aspetto particolare del più ampio ambito della coscienza di sé. La coscienza di sé, lungi dall’essere caratterizzabile come un’entità monolitica, ci appare come un processo dinamico, il risultato finale di un lungo processo di sviluppo che ha inizio dai primi mesi di vita. Tale processo si dispiega in una serie di stadi successivi che iniziano con la capacità mostrata dal neonato di discriminare tra le stimolazioni tattili del proprio corpo prodotte da propri movimenti e quelle prodotte da altri. La consapevolezza di sé si arricchisce, attorno ai due anni d’età, della capacità di autoriconoscimento allo specchio, e si completa attorno ai 5-6 anni d’età, quando il bambino diviene capace di concepire molteplici e diversificate prospettive di sé e degli altri. I risultati delle ricerche della psicologia dello sviluppo sono illuminanti in quanto mostrano come il sistema sensorio-motorio sia implicato fin dalla nascita nella costruzione di un ‘sé’ autocosciente. Ciò appare in maniera ancora più evidente se si prende in esame la consapevolezza cosciente dell’agire propria dell’individuo adulto. Il problema di come la consapevolezza dell’agire o dell’intendere di agire siano correlati all’attività cerebrale è stato recentemente studiato utilizzando svariate metodologie, che sono state applicate sia a soggetti sani sia a pazienti neurologici. Molteplici studi mostrano che le aree corticali premotorie e parietali posteriori sono cruciali nel permettere non solo la coscienza di quando si agisce, ma anche di quando si intende farlo (per una rassegna, v. Gallese 2007b). È stato infatti dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica (TMS, Transcranial Magnetic Stimulation) della corteccia motoria primaria rallenta l’inizio dell’azione, mentre lo stesso tipo di stimolazione applicato a un’area corticale premotoria localizzata nella superficie mesiale del lobo frontale, l’area motoria presupplementare (preSMA, Supplementary Motor Area), ritarda la consapevolezza di quando l’azione è stata eseguita. In uno studio fMRI condotto su soggetti adulti sani è stata rilevata un’attivazione dell’area preSMA e della corteccia contenuta nel solco intraparietale nel momento in cui i partecipanti allo studio dovevano valutare quando avevano deciso di agire.
Altri studi hanno dimostrato che l’inattivazione temporanea e reversibile della corteccia parietale posteriore mediante TMS ripetitiva in soggetti adulti sani, ne alterava la capacità di discriminare se i movimenti della mano che osservavano erano i propri oppure quelli di una mano altrui. Questi dati confermano il ruolo della corteccia parietale posteriore nella valutazione della congruenza tra le informazioni visive e motorie relative ai movimenti autogenerati. Ciò sembra suggerire che questa regione della corteccia cerebrale possa contribuire alla consapevolezza del proprio agire. Va aggiunto che quando parliamo di consapevolezza del proprio agire non ci riferiamo a un tipo di autocoscienza riflessiva, in cui l’agire è l’oggetto esplicito di una riflessione, ma a un livello di consapevolezza che ci rende semplicemente coscienti di essere gli autori delle nostre azioni.
In accordo con tale ipotesi, è stato dimostrato che pazienti neurologici con lesione parietale posteriore sono in grado di riferire quando hanno iniziato un’azione, ma non quando hanno formulato l’intenzione di agire. Ancora più interessanti sono i dati che hanno consentito di determinare quale lesione cerebrale produca la più grave forma di anosognosia relativa all’azione. L’anosognosia è una condizione patologica in cui pazienti affetti, per es., da un’emiplegia, negano ostinatamente il proprio deficit motorio, affermando di essere perfettamente in grado di muovere l’arto in realtà paretico. È stato dimostrato che le forme più gravi di anosognosia per la plegia sono prodotte da lesioni delle aree premotorie 6 e 44 di Brodmann. Ciò dimostra che le aree responsabili della programmazione dell’azione sono cruciali anche per la consapevolezza dell’essere agenti delle proprie azioni.
Un’ulteriore conferma viene dallo studio di pazienti congenitamente privi di arti che, tuttavia, possono sviluppare a livello fenomenico la sensazione di muovere un arto che non hanno mai posseduto, percependo cioè i movimenti o le sensazioni di un ‘arto fantasma’. Un gruppo di psichiatri di Zurigo ha descritto un simile caso, dimostrando mediante fMRI che la percezione di movimento dell’arto fantasma è correlata con l’attivazione della corteccia premotoria e parietale posteriore. La percezione di arti fantasma in soggetti congenitamente privi di arti può così essere spiegata come il correlato fenomenico della pianificazione del movimento di un arto che non c’è.
Ne risulta così che la consapevolezza cosciente dell’azione non è la prerogativa di un qualche sistema esecutivo centrale, gerarchicamente sovrimposto alle funzioni sensorio-motorie, né tanto meno una funzione fisiologicamente e anatomicamente separata dai processi motori oggetto di tale consapevolezza. La consapevolezza cosciente dell’azione è sottesa dall’attività degli stessi circuiti corticali parieto-premotori che ne controllano l’esecuzione.
Neuroni specchio e comprensione degli altri come simulazione incarnata
Il nostro cervello e quello dei primati non umani è dotato di neuroni – i neuroni specchio (Gallese 2006; Rizzolatti, Sinigaglia 2006) – localizzati nella corteccia premotoria e parietale posteriore, che si attivano sia quando compiamo un’azione noi stessi sia quando la vediamo eseguire da altri. I neuroni specchio rappresentano/controllano in modo costitutivo una relazione tra un agente e un oggetto: è la relazione agente-oggetto a suscitarne l’attivazione, indipendentemente da chi ne sia l’autore.
Uno degli aspetti forse più interessanti di questa scoperta consiste nel fatto che, per la prima volta, è stato identificato un meccanismo neurale che consente una traduzione diretta fra la descrizione sensoriale (visiva e uditiva) di un atto motorio e la sua esecuzione. Questo sistema d’accoppiamento permette di tradurre i risultati dell’analisi visiva di un movimento osservato in qualcosa che l’osservatore è capace di comprendere, nella misura in cui l’osservatore già lo possiede pragmaticamente ed esperienzialmente. Percepire un’azione in quanto azione, e non semplicemente come una sequenza di movimenti, quindi comprenderne il significato per noi, equivale a simularla internamente, equivale cioè ad attivare il suo programma motorio pur in assenza dell’esecuzione fattuale di quella stessa azione. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse neurali per penetrare il mondo dell’altro dall’interno, mediante un meccanismo automatico e prelinguistico di simulazione motoria. Questo meccanismo instaura un legame diretto tra agente e osservatore, in quanto le azioni osservate attivano il patrimonio neurale motorio dell’osservatore.
La ricerca condotta negli ultimi quindici anni ha dimostrato che distinte aree corticali premotorie e parietali posteriori del nostro cervello sono similmente attivate sia durante l’esecuzione attiva sia durante l’osservazione di: movimenti corporei (anche se del tutto privi di qualsiasi finalità); atti motori finalizzati (afferramento, manipolazione, spostamento di oggetti); azioni comunicative (parlare, esprimere qualcosa con il corpo). Altre regioni cerebrali, come l’insula, l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore, sono similmente attivate durante l’esperienza in prima persona di emozioni, come la paura o il disgusto, o sensazioni, come il dolore, e la loro osservazione negli altri (per una rassegna, v. Gallese 2006; Rizzolatti, Sinigaglia 2006). Il meccanismo di rispecchiamento non è dunque esclusivamente confinato al dominio delle azioni corporee, ma attiene anche agli aspetti viscero-motori della vita di relazione, quali quelli attivati durante l’esperienza di emozioni o sensazioni come il dolore.
Il ruolo dei meccanismi di rispecchiamento, tuttavia, non si esaurisce qui. Recenti studi hanno mostrato come un altro aspetto della sfera somato-sensoriale, quello del tatto, mostri la stessa duplicità di attivazione.
Simulazione incarnata e comprensione delle sensazioni tattili altrui
Nel secondo libro delle Ideen zur einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1952; trad. it. 1965), Husserl sottolinea come il Leib, cioè il corpo vivo, o ‘corpo proprio’, rappresenti il fondamento costitutivo di ogni percezione, inclusa quella sociale. Oggi, grazie alla ricerca neuroscientifica, sappiamo perché. Un aspetto particolare del mondo dell’esperienza sociale, quello delle sensazioni somato-sensoriali, ne costituisce una chiara esemplificazione (per una rassegna, v. Gallese 2006).
Concentriamoci sul tatto. Le sensazioni tattili hanno uno status privilegiato nel conferire la qualità di persone agli attori che popolano il nostro mondo sociale. «Rimaniamo in contatto» è una comune espressione del nostro linguaggio quotidiano che esprime metaforicamente il desiderio di rimanere collegati a qualcuno. Esempi come questo mostrano come la sensazione tattile sia intrinsecamente legata alla dimensione interpersonale.
Si è scoperto che l’esperienza soggettiva di essere toccati in una parte del proprio corpo determina l’attivazione dello stesso circuito neurale attivato dall’osservazione del corpo di qualcun altro che viene toccato in una parte corporea equivalente. La regione corticale implicata è l’area somatosensoriale seconda (SII), comunemente ritenuta un’area esclusivamente tattile. Una stessa regione corticale è quindi attivata sia quando esperiamo in prima persona una sensazione tattile localizzata in una parte del nostro corpo, sia quando siamo testimoni di un’analoga esperienza sensoriale esperita da qualcun altro.
Un recente studio (Blakemore, Bristow, Bird et al. 2005) conferma ed estende questi risultati. È stato dimostrato che la differenza tra empatizzare con la sensazione tattile altrui e sentire davvero sul proprio corpo la stessa sensazione – ciò che prova un soggetto sinestesico – è la conseguenza di una diversa intensità dell’attivazione delle stesse aree corticali somatosensoriali. Ciò equivale a dire che il meccanismo di simulazione visuo-tattile, se non supera una certa intensità di attivazione, ci permette di capire che cosa si prova a essere toccati, quando il soggetto di tale esperienza è qualcun altro. Se questo meccanismo si attiva invece troppo, da una conoscenza empatica dell’esperienza altrui passiamo alla patologia propria dei pazienti sinestesici, nei quali ciò che viene esperito dall’altro non è soltanto compreso da colui che guarda, ma letteralmente percepito sul proprio corpo (Blakemore, Bristow, Bird et al. 2005).
I risultati congiunti di questi esperimenti suggeriscono che lo stimolo per l’attivazione di aree ‘tattili’ come SII e SI sia la percezione del tatto, indipendentemente dal fatto che a essere toccato sia un altro corpo umano oppure il nostro stesso corpo. Questa duplice modalità d’attivazione delle stesse regioni corticali somatosensoriali permette di supporre che la nostra capacità di riconoscere e comprendere direttamente e dall’interno le esperienze tattili altrui sia mediata ancora una volta da un meccanismo di simulazione incarnata.
Volendo allargare il discorso, potremmo spingerci a sostenere che una piena comprensione dell’altro in quanto persona non possa prescindere dal coinvolgimento in prima persona di un’esperienza tattile incarnata. Questa prospettiva ci porta nuovamente a Husserl e alla sua nozione di intersoggettività. Come più volte sostenuto dal padre della fenomenologia, è proprio la duplice natura del nostro corpo di soggetto senziente e oggetto delle nostre percezioni a consentirci la costituzione degli altri esseri umani come persone. Il corpo, simultaneamente percepito come oggetto esterno e come soggetto esperienziale, fonda sullo stesso substrato carnale il senso esperienziale di personalità che attribuiamo agli altri. Siamo così in grado di derivare dai comportamenti altrui il senso interno delle esperienze e delle motivazioni che ne stanno alla base, grazie al fatto che questi comportamenti percepiti attivano lo stesso meccanismo funzionale grazie al quale noi stessi ci esperiamo come persone.
È interessante sottolineare a questo proposito come anche gli studi della psicologia dello sviluppo ci conducano ad analoghe conclusioni. Come abbiamo precedentemente illustrato, il bambino mostra segni di autocoscienza non riflessiva ben prima dei due anni di età, quando cioè si riconosce allo specchio, occasione che evoca anche una tipica emozione autocosciente quale quella dell’imbarazzo. Infatti, appena dopo la nascita, il neonato è già in grado di discriminare sensazioni tattili autoprodotte da quelle originate dal contatto con oggetti esterni.
Già a partire dalle prime settimane di vita i neonati sviluppano la capacità di riconoscere invarianze e regolarità multimodali nelle proprie esperienze sensorio-motorie. Sono tali invarianze multimodali a garantire la specificazione di sé come entità distinta dal mondo circostante. In particolare, l’esperienza della doppia sensazione tattile prodotta dal contatto tra la mano del neonato (ma forse già anche del feto) e il proprio volto sembra svolgere un ruolo guida nella specificazione di questa primordiale fase della costruzione del sé. Il corpo e le esperienze da esso generate appaiono così intrinsecamente legati allo sviluppo cognitivo e allo sviluppo psicologico dell’individuo.
Uno sguardo neurofenomenologico al linguaggio
Abbiamo fino a ora riassunto alcuni aspetti della contemporanea ricerca neuroscientifica relativa ad aspetti importanti della relazione interpersonale quali azioni, emozioni e sensazioni. Ma non si può parlare d’intersoggettività prescindendo dal linguaggio. L’intima natura del linguaggio e il processo evolutivo che lo ha prodotto sono materia di un acceso dibattito.
Considerare la cognizione sociale come una facoltà incarnata e situata, dischiude alle neuroscienze la possibilità di studiare il linguaggio in modo nuovo. Seguendo la prospettiva fenomenologica impariamo che il linguaggio è una facoltà sociale nella quale l’azione svolge un ruolo cruciale.
In particolare, Heidegger ha mostrato che il linguaggio è significativo perché rivela e dischiude possibilità di azioni contestuali. Il significato emerge da un mondo storico peculiare al quale gli esseri umani sono collegati attraverso le loro interazioni quotidiane. Il linguaggio è di conseguenza ontologicamente di natura pratica. Termini come concetti e pensieri, secondo Heidegger, possono essere compresi come originantisi nella nostra esperienza pratica del mondo. Questo è ciò che Heidegger vuol dire affermando che il significato ha le sue radici nell’ontologia dell’essere-nel-mondo. L’essere nel mondo precede la riflessione (Costa 2006).
La nostra comprensione del significato di una parola come tavolo non deriva dal nostro uso di un gioco linguistico, il quale, al massimo, può specificare quando applicare una data parola come un’etichetta a un dato oggetto nel mondo. Il significato di ‘tavolo’ deriva dal suo uso, da ciò che noi possiamo fare con esso, cioè dalle molteplici e correlate possibilità di azione che esso evoca.
Con l’avvento del linguaggio, e ancora di più con l’invenzione della scrittura, il significato si è amplificato come se si fosse liberato dalla dipendenza da specifiche istanze di esperienza reale. Il linguaggio connette tutte le possibile azioni all’interno di una rete ed espande il significato di esperienze individuali situate. Il linguaggio evoca la totalità delle possibilità per l’azione che il mondo ci richiede, e struttura l’azione all’interno di una rete di significati interrelati. Abbracciando questa prospettiva, ne consegue che se confiniamo il linguaggio al suo solo uso predicativo, reifichiamo una parte consistente della natura più ‘vera’ e originaria del linguaggio. La nostra comprensione delle espressioni linguistiche non è solamente un’attitudine epistemica, è un modo di essere. Il nostro modo di essere, a sua volta, dipende da ciò che facciamo, da come lo facciamo, e da come il mondo ci risponde.
Un ulteriore contributo al chiarimento della relazione esistente fra linguaggio, azione ed esperienza è stato dato dalla fenomenologia ermeneutica elaborata da P. Ricœur. Secondo Ricœur, il linguaggio è in primo luogo e soprattutto discorso, e dunque il legame mimetico tra l’azione del dire e l’azione effettiva non è mai completamente reciso. Lo sviluppo ermeneutico della fenomenologia nell’approccio di Ricœur connette l’intenzionalità al significato: il senso logico del linguaggio deve essere fondato in una nozione più ampia di significato che è coestensiva alla nozione d’intenzionalità. Ricœur sviluppa la storica dicotomia introdotta in linguistica fra lingua e parola e traccia un’importante distinzione tra il linguaggio formale studiato dalla linguistica e il discorso, e soffermandosi particolarmente sulla sua forma originale: il linguaggio parlato. Secondo Ricœur, il discorso deve essere considerato come un evento che accade nel tempo e nello spazio a un parlante, il quale parla di qualcosa a qualcuno. Attraverso il discorso, il linguaggio acquisisce un mondo situato. È nel discorso che tutti i significati sono veicolati, quindi il discorso non soltanto ha un mondo ma ha un altro, un’altra persona, un interlocutore a cui è indirizzato.
L’approccio proposto dalla fenomenologia lega il linguaggio all’azione all’interno di un contesto intersoggettivo, suggerendo che l’indagine neuroscientifica di ciò che il linguaggio è, e di come funziona, dovrebbe cominciare dal dominio dell’azione. Questa indagine ha già prodotto risultati notevoli. Il sistema dei neuroni specchio fornisce un meccanismo neurale che sembra giocare un ruolo importante nella cognizione sociale, così che esso sembra essere un buon candidato anche per fondare la natura sociale del linguaggio.
Un numero crescente di prove mostra che gli esseri umani, quando elaborano il linguaggio, attivano il sistema motorio per mezzo della simulazione motoria ai vari livelli che tradizionalmente descrivono il linguaggio. Va aggiunto che non è ancora chiaro in quale misura questi livelli possano essere concepiti come distintamente rappresentati in parti diverse del cervello. Ci limiteremo a una rapida trattazione del rapporto tra simulazione motoria e comprensione del contenuto semantico di una parola, un verbo o una proposizione (per una trattazione degli aspetti fono-articolatori e sintattici, v. Gallese 2007a).
Simulazione motoria e semantica del linguaggio
L’approccio del cognitivismo classico al linguaggio ha tradizionalmente sottolineato che il significato di un enunciato, indipendentemente dal suo contenuto, è compreso sulla base di rappresentazioni mentali simboliche amodali. Un’ipotesi alternativa sostiene, invece, che la comprensione del linguaggio sia basata sull’incarnazione (embodiment). L’ipotesi circa il ruolo dell’incarnazione nella comprensione del linguaggio prevede che, quando i soggetti ascoltano parole o frasi riferite ad azioni, il loro sistema di neuroni specchio dovrebbe essere modulato e che l’effetto di questa modulazione dovrebbe influenzare l’eccitabilità della corteccia motoria primaria, e quindi l’esecuzione dei movimenti che ricadono sotto il suo controllo. Numerose evidenze sperimentali dimostrano che è così. È stato dimostrato che l’ascolto di frasi riferite ad azioni compiute con la mano o con il piede modula in modo specifico l’eccitazione dei muscoli e i tempi di risposta degli stessi effettori. L’elaborazione di frasi che descrivono azioni attiva settori diversi del sistema motorio, a seconda dell’effettore usato nell’azione di cui si sente parlare.
Alcuni studi fMRI, inoltre, hanno dimostrato che l’elaborazione di materiale linguistico allo scopo di scoprirne il significato attiva le regioni del sistema motorio corrispondenti al contenuto semantico elaborato. La lettura silenziosa di parole relative ad azioni della faccia, del braccio o della gamba attiva settori diversi delle aree premotorie corrispondenti alla parte del corpo cui attiene il significato dell’azione descritta dalle parole lette. Anche l’ascolto di frasi che esprimono azioni eseguite con la bocca, la mano o il piede produce l’attivazione di settori diversi della corteccia premotoria, a seconda dell’effettore usato nell’espressione linguistica dell’azione che è stata ascoltata. I settori che risultano attivati corrispondono, seppure grossolanamente, a quelli attivi durante l’osservazione delle azioni compiute con la mano, la bocca e il piede.
Questi dati suffragano l’ipotesi che la simulazione motoria – e il sistema dei neuroni specchio a essa sotteso – siano coinvolti non solo nella comprensione di azioni osservate, ma anche nell’analisi di parole o frasi riferite ad azioni. La precisa rilevanza funzionale del coinvolgimento della simulazione motoria dell’azione nella comprensione del linguaggio rimane da chiarire. Tuttavia, numerosi studi recenti dimostrano che la simulazione è specifica, automatica e con una dinamica temporale compatibile con un suo ruolo nel processo di comprensione.
La simulazione incarnata
Abbiamo fin qui caratterizzato svariati aspetti della cognizione sociale che, se indagati al livello subpersonale proprio delle neuroscienze, mostrano un sostrato funzionale comune: il meccanismo che abbiamo definito come «simulazione incarnata» (embodied simulation, Gallese 2006, 2007a). Un meccanismo che, secondo questa ipotesi, ci conferirebbe la possibilità di comprendere direttamente e senza alcuna mediazione teorica molteplici aspetti dell’agire ed esperire altrui, per così dire, ‘dall’interno’.
La simulazione incarnata non è una prerogativa funzionale dell’azione motoria, ma si estende anche ad altri aspetti della relazione interpersonale quali emozioni, sensazioni e comunicazione linguistica. I risultati empirici fin qui esposti sembrano suggerire che la simulazione incarnata costituisca una caratteristica funzionale di base del cervello dei primati, uomo compreso.
Un vantaggio offerto dalla presente ipotesi consiste nel suo carattere di estrema parsimonia. Se tale ipotesi è corretta, un singolo meccanismo – la simulazione incarnata – è in grado di fornire un sostrato funzionale comune ad aspetti differenti dell’intersoggettività. È un processo funzionale che caratterizza la vita mentale, in quanto produttore di contenuti ricchi di significato. Ma è altresì incarnato non solamente in quanto sub-personalmente realizzato a livello neuronale, ma soprattutto perché utilizza preesistenti modelli delle interazioni tra il sistema cervello-corpo e il mondo, implicando forme prelinguistiche di rappresentazione.
Il sistema della molteplicità condivisa
La costituzione dell’identità sé-altro è cruciale per lo sviluppo di forme più articolate e sofisticate d’intersoggettività. Questa relazione d’identità, trasversale a tutte le forme di relazione interpersonale, è stata definita come sistema della molteplicità condivisa (shared manifold, Gallese 2006). Secondo quest’ipotesi, è il sistema della molteplicità condivisa che rende possibile il riconoscimento degli altri umani come nostri simili, che promuove la comunicazione intersoggettiva, l’imitazione e l’attribuzione di intenzioni agli altri, o almeno le forme più elementari di tale attribuzione, nonché la comprensione del significato delle sensazioni ed emozioni esperite dagli altri.
Questo sistema è stato definito operazionalmente a tre diversi livelli: fenomenico, funzionale e subpersonale. Il livello fenomenico è caratterizzato dal senso di famigliarità, dall’impressione soggettiva di essere parte di una più larga comunità sociale composta da altri individui simili a noi. Tale livello è condizione necessaria per costituire con l’altro una relazione empatica. Le azioni eseguite, le emozioni e le sensazioni esperite dagli altri acquistano per noi un significato in virtù della possibilità che abbiamo di condividerle esperienzialmente, grazie alla presenza di un comune formato neurale di rappresentazione prelinguistico. Quando entriamo in relazione con gli altri, non siamo intenzionalmente diretti al contenuto di una percezione con lo scopo di categorizzarla. Ci troviamo invece in una relazione di consonanza intenzionale con le relazioni intenzionali espresse da chi ci sta di fronte. Grazie alla consonanza intenzionale, l’altro diviene un altro sé come noi.
Il livello funzionale è rappresentato dalla simulazione incarnata, la modalità ‘come se’ d’interazione con il mondo, applicata al mondo degli altri. Ogni modalità d’interazione interpersonale condivide il carattere relazionale. Nel sistema della molteplicità condivisa la logica operativa relazionale produce l’identità sé/altro, permettendo al sistema di identificare coerenza, predicibilità e regolarità, indipendentemente dal fatto che la sorgente risieda in noi o negli altri.
Il livello subpersonale è infine costituito dall’attività di una serie di circuiti neurali con proprietà funzionalmente simili a quelle istanziate dai neuroni specchio. L’attività di questi circuiti neurali a sua volta è interconnessa con una serie di cambiamenti di stato corporei a più livelli. Il sistema neuronale specchio è il correlato subpersonale della condivisione multimodale dello spazio intenzionale. Questo spazio condiviso ci consente di apprezzare, esperire e comprendere le azioni che osserviamo, e le sensazioni ed emozioni che riteniamo esperite dagli altri.
Ciò ovviamente non implica che noi esperiamo gli altri come esperiamo noi stessi. L’identità sé/altro costituisce solo un aspetto dell’intersoggettività. Come ha sottolineato Dan Zahavi (2001), secondo Husserl è il carattere d’alterità dell’altro che fornisce oggettività alla realtà. La qualità della nostra esperienza vitale (Erlebnis) del ‘mondo esterno’ e il suo contenuto sono condizionati dalla presenza di altri soggetti che risultano intelligibili, pur mantenendo la propria alterità. Il carattere di alterità dell’altro può essere identificato anche al livello subpersonale descritto dalle neuroscienze, prendendo in considerazione, per es., il fatto che i circuiti corticali attivati quando noi agiamo non sono mai completamente identici a quelli che si attivano quando agiscono gli altri, o considerando la diversa intensità d’attivazione dei circuiti corticali attivati quando esperiamo un’emozione o una sensazione rispetto a quando invece a esperirle è qualcun altro.
La simulazione incarnata e il sistema della molteplicità condivisa da essa generato certamente non costituiscono l’unico meccanismo funzionale alla base dell’intersoggettività. Il significato degli stimoli sociali può essere compreso anche sulla base dell’elaborazione cognitiva esplicita delle loro caratteristiche percettive contestuali, sfruttando una conoscenza già acquisita su aspetti rilevanti della situazione da analizzare. La nostra capacità di attribuire false credenze agli altri, le nostre più sofisticate abilità metacognitive, probabilmente comportano l’attivazione di vaste regioni del nostro cervello. Oggi però sappiamo che questi settori cerebrali certamente includono il sistema sensorio-motorio.
Verso un modello neurofenomenologico dell’intersoggettività
Il modello neurofisiologico di molti aspetti di base dell’intersoggettività succintamente riassunto in questo saggio mostra indubbie assonanze con il modello di empatia che si è venuto a delineare all’interno della tradizione fenomenologica. Husserl ha più volte messo in evidenza il ruolo svolto dal corpo in azione nei processi percettivi. Volendo utilizzare una terminologia contemporanea, potremmo dire che, secondo Husserl, non può esservi percezione dell’altro senza una consapevolezza del proprio corpo agente. In base alla prospettiva fin qui enunciata, potremmo aggiungere che la consapevolezza del proprio corpo agente non può essere disgiunta dai meccanismi che presiedono al controllo dell’azione, e che questi meccanismi giocano un ruolo cruciale nella relazione empatica. Secondo quanto sostenuto da Husserl ciò che rende intelligibile il comportamento degli altri è il fatto che il loro corpo non è meramente esperito come un oggetto materiale (Körper), ma come qualcosa di vitale (Leib), qualcosa di analogo all’esperienza che abbiamo del nostro corpo in azione. L’empatia s’intreccia profondamente con la nostra esperienza del corpo proprio, ed è questa esperienza che ci permette di riconoscere gli altri non come corpi fisici dotati di una mente, ma in quanto persone come noi.
La relazione tra corpo proprio e intersoggettività diviene ancora più esplicita nelle opere di Edith Stein e Maurice Merleau-Ponty. Nel libro Zum Problem der Einfühlung (1917; trad. it. 1985), Edith Stein chiarisce come il concetto di empatia non possa essere conchiuso in una pura e semplice compartecipazione alle emozioni e ai sentimenti degli altri. Esiste una connotazione più fondamentale del concetto di empatia: l’altro è esperito come un altro essere come noi attraverso la percezione di una relazione di somiglianza. Una componente importante di questa relazione di somiglianza con l’altro risiede, secondo la Stein, nella comune esperienza dell’azione. La ricerca neuroscientifica mostra che questa relazione di somiglianza affonda le sue radici ed è generata dal meccanismo ‘come se’ della simulazione incarnata.
Nella Phénoménologie de la perception (1945; trad. it. 1965) Merleau-Ponty sostiene che il senso dei gesti altrui non è dato, ma compreso, cioè ricatturato dall’azione dell’osservatore. Secondo Merleau-Ponty, la difficoltà maggiore risiede nel concepire questo meccanismo senza però confonderlo con un’operazione cognitiva. Possiamo affermare che ciò continua a risultare molto difficile da capire anche agli inizi del nuovo secolo, quando l’ancora dominante paradigma cognitivo si ostina a identificare l’intersoggettività come ennesimo ed esclusivo ambito di applicazione della theoria. Merleau-Ponty attacca l’equivalenza cartesiana tra vedere e pensare, mettendo in evidenza che chi osserva e chi è osservato sono parte di un sistema dinamico governato da regole di reversibilità. La scoperta dei neuroni specchio offre una sponda empirica a questa concezione dell’intersoggettività vista come reciprocità e correlazione tra il sé e un altro da sé che è contemporaneamente per molti versi e in primis un altro me stesso.
Negli ultimi cinquant’anni, spesso il mondo fenomenologico, nel tentativo di difendere una presunta ortodossia della propria tradizione di pensiero, ha privilegiato un approccio storico-esegetico, chiudendosi contemporaneamente a un confronto con le scienze della mente e del cervello. In questi anni assistiamo invece a un rinato interesse nei confronti della ricerca empirica neuroscientifica. L’immagine dell’uomo che scaturisce dal pensiero di Husserl, ancor più se riletta alla luce delle scoperte in ambito neuroscientifico tra cui quelle qui brevemente presentate, diviene oggi di stringente attualità.
Nell’attuale periodo storico caratterizzato dal riemergere prepotente di particolarismi identitari etnico-religiosi, riaffermare con Husserl l’universalità dell’empatia, l’Einfühlung, come uno dei meccanismi che garantiscono l’attribuzione all’altro dello statuto di umanità, ci sembra un ottimo punto di partenza non solo per costruire un dialogo tra fenomenologia e neuroscienze, ma anche per mostrare la rilevanza etica della ricerca condotta in entrambi questi ambiti. Come sottolineato da Husserl, vi è un’esperienza originaria che tutti noi facciamo dell’altro, che prescinde dal suo status socioeconomico, culturale, religioso o politico. La natura dell’altro come altro me stesso sgorga dalla funzione costitutiva e genetica del Leib, generatore della nostra esperienza vivente della realtà.
Ciò detto, è indubitabile che l’universalità dell’esperienza dell’altro come altro me stesso sia la base di partenza, ma anche che non esaurisca necessariamente la complessità della dimensione intersoggettiva. In questo senso, l’enfasi posta da Heidegger sul fatto che ciò che ci rende chi siamo è il frutto di un percorso storico individuale, fatto di esperienze soggettive uniche e particolari, non può essere disattesa da un serio progetto di naturalizzazione della cognizione sociale. La ricerca neuroscientifica futura dovrà sempre più concentrarsi sugli aspetti in prima persona dell’esperienza umana e dovrà cercare di studiare meglio le caratteristiche personali dei singoli soggetti di esperienza. Questa dimensione storica dell’esserci nel mondo, per usare un’espressione heideggeriana, è fino a ora rimasta in gran parte inesplorata.
Una delle sfide future sarà quella di passare dalla ‘medietà normativa’ delle caratteristiche d’attivazione di un supposto cervello medio appartenente a un altrettanto ipotetico uomo medio, a un approfondito studio di come le caratteristiche individuali dell’esperienza di vita si traducano in caratteristici e – almeno in parte – idiosincratici profili di attivazione corticale, e come questi meccanismi siano alla base del peculiare modo di esperire il mondo degli altri, proprio di ognuno di noi. Dovremo passare, cioè, dallo studio della mente umana allo studio delle menti umane.
Riteniamo che un dialogo tra neuroscienze e fenomenologia è non solo auspicabile ma anche necessario e ineludibile. Tale dialogo sarà tanto più fruttuoso quanto più ci si sforzerà da entrambe le parti di penetrare in modo multidisciplinare nelle reciproche problematiche, cercando – per quanto possibile – di sviluppare un linguaggio comune. Quello che ci pare certo è che una filosofia che ambisca a dare conto dell’origine del senso che per noi ha l’esperienza del mondo, non possa prescindere dalla conoscenza del sistema cervello-corpo così come viene attivamente indagato dalle neuroscienze cognitive.
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