Neuroscienze
di Alberto Oliverio
NEUROSCIENZE
Basi biologiche dei processi mentali
sommario: 1. Introduzione. 2. Basi biologiche della memoria. 3. Basi neurobiologiche dell'emozione. 4. Motivazione e umore. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Da lungo tempo i filosofi si occupano della mente, ma è soltanto da pochi decenni che i neuroscienziati hanno iniziato a studiarne le basi biologiche: attenzione, sensazione, percezione, sonno, memoria, apprendimento, emozione sono alcune delle funzioni cerebrali che vengono analizzate, collegate a circuiti e strutture nervose, interpretate alla luce delle conoscenze via via fornite da una scienza in continuo, rapido sviluppo. Sia pure con qualche approssimazione, potremmo affermare che poco più di cinquant'anni fa la mente e il comportamento umano erano ancora appannaggio della filosofia e della psicologia, mentre si riteneva che la biologia e la medicina fossero in grado di fornire risposte circoscritte esclusivamente alla patologia, ai casi di malattie e lesioni del sistema nervoso. In realtà, l'interesse per i rapporti tra cervello e comportamento risale a molti anni or sono, al momento in cui, alcuni secoli addietro, gli studiosi di anatomia comparata, i naturalisti, gli evoluzionisti, cominciarono a porsi le prime domande sulle radici biologiche del comportamento umano. Sin dalla metà dell'Ottocento, Charles Darwin aveva sostenuto che il cervello umano ha alle sue spalle una lunga storia naturale, e i neurologi avevano rilevato che le lesioni di alcune parti della corteccia cerebrale alterano profondamente il linguaggio, la memoria, il comportamento. Tuttavia, malgrado queste conoscenze e teorie, il cervello restava un continente inesplorato e ignoto ai più e, soprattutto, era opinione comune che la scienza, in particolare la medicina, potesse chiarire alcuni aspetti della patologia, ma non della fisiologia cerebrale. Si ammetteva, ad esempio, che il comportamento potesse disgregarsi a causa di un ictus o della sifilide, ma non si riteneva che la scienza potesse esplorare le caratteristiche della memoria, dell'emozione, del sogno e, più in generale, della mente. Oggi, invece, la situazione è profondamente cambiata: guardiamo alla mente in modo nuovo in quanto le neuroscienze hanno messo a punto varie tecniche e strategie che hanno consentito di inquadrare e conoscere numerosi aspetti dei rapporti tra sistema nervoso e processi mentali, sia dal punto di vista fisiologico che da quello patologico; in particolare, le neuroscienze hanno dato un fondamentale contributo alla conoscenza delle basi biologiche della memoria e dell'apprendimento, ai correlati neurobiologici dell'emozione, ai sistemi implicati nella motivazione e nell'umore. È quindi a questi tre aspetti della mente che verrà dedicata particolare attenzione.
2. Basi biologiche della memoria
Memoria e apprendimento possono essere presi in considerazione a diversi livelli descrittivi: quello neurobiologico, che riguarda le modifiche dei circuiti nervosi determinate dall'esperienza; quello neuropsicologico, che riguarda le strutture cerebrali responsabili della memoria e dell'oblio; e, ovviamente, quello psicologico, legato ai significati, alle connotazioni emotive e alle interpretazioni cognitive del ricordo. La memoria è una delle funzioni nervose più studiate dai neuroscienziati, che ne hanno descritto in modo dettagliato gli eventi molecolari, nonché i fenomeni sinaptici e le alterazioni dei circuiti nervosi sottesi all'acquisizione e al consolidamento del ricordo. La conoscenza di questi meccanismi può apparire ben poco significativa a quanti guardano alla mente come a un vissuto personale, un fatto privato: eppure in diverse situazioni legate a danni e alterazioni della funzione nervosa, l'interpretazione della neuropsicologia - una delle discipline che fanno parte delle neuroscienze - è essenziale per comprendere cosa si verifichi nella nostra mente, come vengano ristrutturati i ricordi, come sopravvenga l'oblio.
La storia delle ricerche sulle basi biologiche della memoria, in particolare quella associativa, è fortemente legata al modello proposto all'inizio degli anni cinquanta del Novecento dal neurofisiologo Donald Hebb (v., 1949), cui si deve la cosiddetta 'ipotesi della doppia traccia': secondo questa ipotesi, un'esperienza modifica l'attività elettrica di un circuito nervoso responsabile di una codificazione a breve termine (cioè della durata di pochi secondi o minuti); a tale codificazione dell'informazione in forma precaria e instabile subentra una codificazione stabile, la memoria a lungo termine (della durata di mesi o anni), che è legata a modifiche durature della struttura dei neuroni o dei circuiti nervosi (consolidamento della memoria). Nell'ipotesi di Hebb, pertanto, i due tipi di memoria fanno capo, rispettivamente, a modifiche funzionali delle sinapsi nervose (memoria a breve termine) e a modifiche strutturali o permanenti a carico sia delle sinapsi che dei neuroni (memoria a lungo termine). Pertanto, la memoria a breve termine sarebbe il risultato di un assemblamento funzionale temporaneo di cellule nervose che stabiliscono connessioni reciproche. Nel caso in cui l'attivazione dell'assemblamento cellulare persista abbastanza a lungo, potrebbe verificarsi un 'processo di crescita' basato sulla produzione di nuove sinapsi, e quindi di nuove connessioni stabili tra neuroni (la memoria a lungo termine). La prima fase della memoria, ancora fragile, dipenderebbe quindi da fenomeni elettrici e circuiti 'riverberanti' (l'informazione circola a lungo in una rete), mentre la seconda fase, robusta e duratura, dipenderebbe dalla stabilizzazione di uno o più circuiti. Ciò implica che i neuroni siano plastici, in grado cioè di andare incontro ad alterazioni della loro funzione o struttura tali da comportare una ristrutturazione delle reti nervose. Questo aspetto della funzione neuronale, postulato in via teorica da Hebb circa mezzo secolo fa, ha ricevuto oggi numerose conferme sperimentali.
Le attuali ricerche sulle basi neurobiologiche della memoria si basano in gran parte sull'analisi delle alterazioni dell'attività elettrica dei neuroni e delle sinapsi, e in particolare del cosiddetto potenziamento a lungo termine (LTP, Long-Term Potentiation) dell'attività elettrica sinaptica. Nel corso dell'LTP, in seguito a uno stimolo che si ripete nel tempo o particolarmente intenso, una sinapsi si porta a un livello superiore di risposta (attività potenziata), cosicché la sua efficienza aumenta fino a due volte e mezzo. Questo incremento dell'attività elettrica sinaptica si sviluppa entro pochi minuti dallo stimolo iniziale e rimane relativamente stabile per lungo tempo, in alcune condizioni per varie settimane. In sostanza, quando uno stimolo di un qualche rilievo viene recepito da un neurone - come avviene nel caso degli stimoli che si susseguono ripetutamente nel corso del processo di assuefazione o di condizionamento - si può verificare un aumento dell'efficienza delle sue sinapsi. Col tempo, si possono formare nuove sinapsi che contribuiscono a connettere tra loro i neuroni in un nuovo circuito, il cosiddetto circuito locale, responsabile della codificazione di una specifica esperienza o memoria. Da un'iniziale alterazione di tipo funzionale (l'attività elettrica legata a modifiche degli ioni, tra cui il calcio) i neuroni vanno così incontro a modifiche di tipo strutturale provocate da alterazioni di alcuni enzimi e dalla sintesi di proteine che alterano il citoscheletro neuronale stimolando la formazione di sinapsi e la loro interconnessione. Le variazioni delle caratteristiche del circuito nervoso permettono così di registrare l'informazione all'interno di reti neurali. La ristrutturazione delle reti determinata da un'esperienza è alla base di una teoria della mente - o del cervello - nota col nome di 'connessionismo'. Secondo questa teoria, la mente dipende dall'esistenza di reti in grado di autoorganizzarsi; ciò avviene in quanto l'attività di ogni unità della rete (nel cervello i neuroni) cambia nel tempo in funzione dell'attività delle unità cui è connessa e della forza di tali connessioni (o nodi). Da questi cambiamenti della rete neurale deriva l'apprendimento. Per i fautori del connessionismo, la rete (o circuito locale) rappresenta la strategia attraverso cui, grazie a variazioni di tipo sinaptico, il cervello si adatta all'ambiente, cioè ne rispecchia le caratteristiche salienti.
Dal punto di vista empirico, il neuroscienziato Erik Kandel e i suoi collaboratori hanno dimostrato (v. Kandel e altri, 1995) che negli Invertebrati (ma anche nei Vertebrati superiori) la registrazione di un'esperienza fa capo ai meccanismi dell'LTP e della formazione di sinapsi. In particolare, quando un neurone viene eccitato, libera il neurotrasmettitore glutammato, il quale modifica l'attività dei recettori NMDA (N-metil-D-aspartato). Lo ione calcio che entra all'interno del neurone postsinaptico attraverso i recettori NMDA attiva una proteinchinasi che può indurre una LTP attraverso modifiche dei recettori postsinaptici AMPA (α-amino-3-idrossi-5-metil-4-isossazolo-propionato), i quali vengono stimolati o prodotti in maggiore quantità. Le proteinchinasi attivano anche proteine e geni che inducono un aumento della sintesi proteica, utile per la formazione di nuove sinapsi e per la stabilizzazione dei circuiti nervosi. Gran parte delle ricerche di Kandel sono state svolte su una lumaca marina, Aplysia californica, che reagisce a uno stimolo tattile - un sottile getto d'acqua - con un comportamento autoprotettivo, cioè ritraendo la branchia. Se però i getti d'acqua continuano con cadenza regolare, l'Aplysia si abitua e la sua risposta resta a lungo nella sua memoria: un solo getto d'acqua è sufficiente, dopo diversi giorni, a indurre il riflesso. Kandel ha notato che il comportamento di assuefazione di Aplysia perdura nel tempo (memoria a lungo termine), in quanto si sono verificati dei cambiamenti a livello dei circuiti nervosi: le sinapsi tra il neurone sensitivo (che reagisce allo stimolo tattile) e quello motorio (che attiva i muscoli della branchia) diventano più stabili e comunicano più facilmente a mezzo dei messaggeri nervosi poiché l'esperienza è stata consolidata. In seguito a questi esperimenti, diverse ricerche su altre specie animali, anche su Mammiferi, hanno indicato che il consolidamento di un'esperienza si basa su meccanismi abbastanza simili.
Gli esperimenti di Kandel hanno dimostrato in modo inequivocabile che la formazione di nuove sinapsi e nuovi circuiti porta a una codificazione dell'esperienza: oltre a questa ristrutturazione di un circuito, l'esperienza deve però causare anche l'eliminazione differenziale di circuiti labili, connessioni multiple in eccesso che vengono perdute quando vengono rafforzate quelle che nel circuito locale codificano l'esperienza. Le memorie di tipo cognitivo sono peraltro ben più complesse e ricche di quelle che si riferiscono alla registrazione di stimoli ripetitivi - l'assuefazione - e delle memorie di tipo associativo, in cui uno stimolo è associato a un rinforzo o due stimoli sono associati tra loro. È perciò riduttivo e semplicistico spiegare tutti i tipi di memoria col modello del circuito locale, come sostengono i fautori del connessionismo, e ipotizzare che ogni esperienza sia rigidamente codificata in uno specifico circuito nervoso, stabile e immutabile nel tempo. D'altronde, è la stessa biologia della memoria a indicare come il ricordare non implichi una semplice fotografia o codifica delle esperienze: la memoria, infatti, viene modulata anche da un insieme di altri fattori, in primo luogo l'emozione, che contribuiscono a rafforzare o attenuare i processi di consolidamento.
Dal punto di vista biologico, l'emozione comporta numerose modifiche somatiche a livello del sistema vegetativo che non hanno soltanto il compito di informare il cervello delle ripercussioni periferiche dello stato emozionale ('corpo emozionato'), conferendo una coloritura determinante ad alcune esperienze, ma anche quello di influenzare il consolidamento delle esperienze. Ad esempio, sostanze come le endorfine - peptidi che esercitano un'azione analgesica simile a quella della morfina e che vengono liberate dal cervello in risposta a stimoli sia dolorifici che emotivi - alterano la funzione dei mediatori nervosi inducendo in tal modo una modifica dell'attività delle sinapsi nelle reti dei neuroni che registrano le esperienze. L'emozione interviene non solo direttamente sui meccanismi della memoria, agendo sulla biochimica cerebrale, ma anche in modo indiretto, attraverso i messaggi che il 'corpo emozionato' invia al cervello. Ad esempio, James McGaugh (v., 1989) ha notato che negli animali sottoposti a esperienze ricche di componenti emotive la memorizzazione viene potenziata in quanto i nervi (le fibre afferenti del nervo vago) indicano al cervello che a livello periferico sono state liberate delle sostanze tipiche degli stati emotivi (ad esempio l'adrenalina, prodotta dalle ghiandole surrenali). Si verifica così un processo circolare: quando la mente reagisce a determinate situazioni con un'emozione, il cervello, attraverso i nervi efferenti, agisce sul corpo inducendolo a produrre sostanze (come l'adrenalina) in grado di adattare l'organismo alle situazioni di stress, emozioni comprese. L'adrenalina, a sua volta, stimola dei recettori nervosi i quali, attraverso il nervo vago, inducono il cervello a produrre mediatori nervosi che modulano i processi della memoria. Perciò la biologia della memoria non riguarda soltanto quei fenomeni neurobiologici che assicurano la codificazione a breve o a lungo termine delle esperienze, ma anche la modulazione esercitata dalle strutture nervose e da quelle molecole che vengono prodotte in conseguenza dell'emozione.
Una delle caratteristiche delle memorie è quella di andare incontro all'oblio, evolvere nel tempo, ristrutturarsi ed essere contaminate da altre esperienze e ricordi. Memoria e oblio sono due processi conflittuali e complementari al tempo stesso: se è vero che la memoria è una funzione presente in tutto il regno animale, in quanto conferisce un vantaggio, e che le attribuiamo un valore positivo apparentemente in opposizione al ruolo negativo dell'oblio, è anche vero che se non dimenticassimo, o perlomeno se non fossimo in grado di contrastare precedenti memorie e apprendimenti, non potremmo apprendere nulla di nuovo, correggere i nostri errori, innovare vecchi schemi. I ricordi, inoltre, non sono stabili, ma vengono continuamente ristrutturati. La mutevolezza dei ricordi nel tempo risulta evidente sia dalle ricerche sperimentali che da quelle cliniche. Le prime partono dalle ricerche condotte dallo psicologo Larry R. Squire sull'elettroshock (v. Squire e Zola-Morgan, 1985; v. Squire e Oliverio, 1991), un trattamento ancora usato dagli psichiatri in casi di grave depressione nervosa, che ha un effetto negativo sulla memoria umana e animale. Se esso viene somministrato subito dopo un'esperienza, prima cioè che la memoria a breve termine si consolidi trasformandosi in memoria a lungo termine, si verifica un'amnesia retrograda, viene cioè cancellato il ricordo di quell'esperienza in quanto l'elettroshock disturba i fenomeni elettrici che caratterizzano la memoria a breve termine impedendone il consolidamento. Squire ha però indicato anche che l'elettroshock non agisce soltanto sul processo di consolidamento della memoria, ma anche sulle memorie già consolidate. Ciò contraddice in qualche misura un vecchio dogma degli psicobiologi, i quali ritenevano che, una volta consolidata, la memoria non potesse essere più turbata da trattamenti, come l'elettroshock, che provocano un dissesto dei fenomeni elettrici che sono alla base della memoria a breve termine. Il fatto che l'elettroshock agisca anche a distanza di mesi sia su memorie di tipo associativo che su vere e proprie memorie di tipo cognitivo, cancellando parte dei ricordi già registrati, indica che la memoria è suscettibile di rimaneggiamenti e rielaborazioni. Della mutevolezza dei ricordi nel tempo testimoniano anche le analisi di ricerche di tipo longitudinale basate su resoconti autobiografici raccolti dalla psicologa Margareth Linton (v., 1986) a distanza di 2, 5, 10 anni. Anche in questo caso si nota che la persistenza di alcuni ricordi o esperienze ritenuti fondamentali da una determinata persona, in quanto pietre miliari della sua vita, è tutt'altro che stabile: a distanza di tempo, lo stesso evento viene narrato in modo diverso, i particolari cambiano, cambia il suo stesso significato, come se la memoria, anziché corrispondere a una precisa fotografia della realtà, fosse un pezzo di plastilina che gradualmente assume una forma diversa.
La complessità della memoria richiede un intricato sistema di strutture e nuclei nervosi che ne codificano i diversi aspetti. Un celebre caso clinico - quello di un paziente noto con le sue iniziali, H. M. - descritto da William Scoville e Brenda Milner (v., 1965) getta luce sulla molteplicità dei sistemi neurobiologici responsabili delle diverse dimensioni della memoria. H. M. soffriva sin dalla nascita di una grave forma di epilessia che rendeva la sua vita molto penosa. Per cercare di eliminare il tessuto cerebrale alterato che causava le convulsioni, egli venne sottoposto a un intervento chirurgico, in seguito al quale la sua capacità di percepire, di ragionare, di parlare, di ricordare gli eventi più recenti rimase normale, e anche la sua memoria semantica fu in parte preservata; risultò invece compromessa la capacità di ricordare gli eventi che si erano verificati prima dell'operazione e, purtroppo, anche quelli immediatamente successivi. L'amnesia di tipo episodico di H. M. era quindi sia retrograda (il passato) che anterograda (le esperienze successive). Il vuoto di memoria non riguardava però l'intero arco della sua vita: gli anni scomparsi erano all'incirca una decina, quelli più recenti, mentre l'amnesia era molto meno grave quando il giovane cercava di rievocare gli anni dell'infanzia o della prima adolescenza. La regione temporale media che era stata asportata dal cervello di H. M. non doveva essere, evidentemente, la sede della memoria, altrimenti accanto al blocco della formazione di nuovi ricordi sarebbero dovuti scomparire anche tutti i ricordi del passato. H. M. conservava invece i ricordi più antichi, quelli consolidati, che la regione temporale media (ippocampo, amigdala e corteccia temporale) distribuisce nelle varie regioni della corteccia cerebrale dopo un periodo di ore, mesi o anche anni durante il quale le esperienze vengono codificate, scomposte in categorie e connotate sulla base del loro significato. Con una metafora si potrebbe attribuire alla corteccia la funzione di archivio dei ricordi, mentre la regione temporale media è l'archivista: iscrive le esperienze, trasformandole da fragili memorie di lavoro in memorie durature e le rielabora per ore, mesi o persino anni, svolgendo un minuzioso lavoro di classificazione, confronto, generalizzazione. Questa parte del cervello è uno snodo essenziale per paragonare tra di loro le esperienze, individuarne le analogie, ristrutturarle in termini di significati. Una volta compiuto questo lungo lavoro, l'archivista dispone di una mappa e possiede la chiave per andare a ricercare nei posti 'giusti' le diverse parti e componenti dei ricordi, le tessere con le quali ricostituire il puzzle della memoria. Se l'archivista è assente, come si è verificato nel caso di H. M., la mappa e le chiavi non sono più disponibili: forse i ricordi sono depositati in qualche parte del cervello, ma sono inaccessibili. Restano invece a disposizione della mente le memorie più antiche, quelle ormai catalogate in forma molto stabile nei circuiti corticali, memorie talmente chiare che balzano alla mente anche senza l'intervento dell'archivista.
In seguito agli studi compiuti su H. M. e sui rapporti tra lobo temporale e memoria, le ricerche in questo settore hanno preso in considerazione le diverse strutture nervose che, se danneggiate, determinano l'amnesia. Questi studi hanno dimostrato che la regione temporale è connessa col sistema limbico (amigdala e ippocampo) e quest'ultimo con il diencefalo (talamo) tramite il fornice: regione temporale, sistema limbico e talamo formano una specie di circuito della memoria di cui, ovviamente, fa parte l'intera corteccia cerebrale, che è connessa con quella temporale. Tutte queste strutture nervose svolgono il loro ruolo nella cosiddetta memoria 'esplicita', che implica il riconoscimento cosciente delle esperienze vissute. Sensazioni o esperienze, per essere trasformate in memorie esplicite, devono passare attraverso una sorta di imbuto, la regione temporale; da questa, passando attraverso l'ippocampo e l'amigdala (in cui vengono connotate per caratteristiche spaziali, emotive, ecc.), devono raggiungere il diencefalo (talamo) dove vengono assemblate e registrate nei circuiti del cervello sotto forma di memorie stabili. È il circuito della memoria 'corteccia temporale-ippocampo-diencefalo' che consente di connettere tra di loro le diverse esperienze della vita quotidiana (sensazioni, immagini mentali, emozioni, valutazioni della realtà) per trasformarle in memoria episodica, in eventi della nostra storia individuale. Queste strutture nervose giocano anche un ruolo nella memoria semantica, quella preposta all'apprendimento di nuovi nomi e vocaboli, alla memorizzazione di numeri di telefono, ecc. Perciò, a seconda della vastità del danno nervoso, per le persone che soffrono di amnesia non esiste soltanto il problema di formare nuovi ricordi dei fatti della vita quotidiana o di accedere a una parte dei ricordi già esistenti, ma anche di apprendere qualcosa di nuovo.
3. Basi neurobiologiche dell'emozione
L'emozione si presenta con un duplice aspetto: da un lato ci appare come un'attività legata a specifiche strutture del cervello, correlata a modifiche chimiche e presente anche in altre specie animali, dall'altro essa è caratterizzata da una fondamentale componente soggettiva. L'emozione, perciò, è un fenomeno mentale difficilmente riconducibile esclusivamente alla sua natura biologica. Secondo alcuni l'emozione dipende da alcune caratteristiche intrinseche del cervello cui noi prestiamo significati, mentre secondo altri le emozioni sono fenomeni legati essenzialmente all'esperienza dell'individuo e, come tali, non sono riducibili alle loro basi biologiche.
Quanti ritengono che l'emozione non abbia che una minima componente biologica, sostengono un concetto enunciato già nel 1939 dal filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre, il quale dubitava che gli stati emotivi più istintuali potessero essere 'naturalizzati', ossia letti in chiave biologica. Quanti invece sostengono la possibilità di naturalizzare le emozioni, adottano una posizione di tipo evolutivo e interpretano l'emozione alla luce del suo significato darwiniano, cioè della sua utilità per l'economia dell'organismo e della sua capacità di comunicare ad altri individui la presenza di pericoli o di situazioni positive. Secondo quest'ultima posizione, le diverse emozioni sarebbero iscritte nei circuiti del cervello, pronte a entrare in funzione quando l'ambiente, la situazione o l'interpretazione che ne dà la nostra mente ci forniscono degli stimoli che innescano reazioni quasi automatiche, pacchetti di informazione custoditi in alcune strutture cerebrali. A particolari situazioni sarebbero quindi correlate alcune espressioni facciali, risposte ormonali e del sistema nervoso autonomo, le quali sono tutte integrate tra di loro: ad esempio, una situazione di pericolo può scatenare l'emozione della paura, caratterizzata da particolari espressioni facciali e da risposte di fuga o di blocco. Si potrebbe pertanto sostenere che l'emozione non sia altro che uno stato dell'organismo in cui un programma innato scatena una serie di reazioni stereotipate. Alcuni psicologi evolutivi - come Robert Plutchik (v., 1983) - sostengono che le diverse emozioni hanno origine da un ristretto nucleo di emozioni primitive e innate da cui, con l'esperienza, si differenziano altri stati emotivi, positivi o negativi.
Se alcuni aspetti delle emozioni hanno un carattere innato, quali sono le loro basi nervose, da quali meccanismi cerebrali dipendono e dove possono essere localizzati? Una teoria dell'emozione che ha avuto notevole popolarità è quella proposta negli anni settanta da Paul MacLean (v., 1973), ispirata alle teorie di James Papez sul sistema limbico. Secondo MacLean, le strutture più recenti in termini evolutivi, vale a dire la corteccia, sono prevalentemente implicate nelle attività cognitive, mentre le strutture sottocorticali, e in particolare il sistema limbico, sarebbero responsabili di comportamenti specie-specifici (cosiddetti istinti) che sono connotati da una coloritura emotiva, a differenza dei comportamenti più stereotipati, come i riflessi spinali, che sono privi di componenti emotive. MacLean afferma che le attività sottocorticali - governate dal cosiddetto paleoencefalo, o cervello antico in termini evolutivi - sono in buona parte predeterminate, frutto di un lungo processo di selezione naturale che ha fatto sì che le emozioni fossero legate a regole naturali, iscritte nel patrimonio genetico. Tale concezione si è affermata in seguito a una serie di ricerche sperimentali condotte a partire dagli anni trenta del Novecento dal neurofisiologo Walter Rudolf Hess (v., 1947), il quale aveva notato come la stimolazione di alcuni siti dell'ipotalamo - una struttura sottocorticale che, dal punto di vista funzionale, fa parte del sistema limbico - inducesse una serie di reazioni emotive anche violente: ad esempio, nel gatto la stimolazione elettrica dell'ipotalamo ventrale si traduceva in reazioni di rabbia, anche in assenza di un oggetto che potesse scatenarle. Hess definì questo comportamento - caratterizzato da espressioni facciali aggressive, da segni di attivazione del sistema autonomo (erezione dei peli), da posture somatiche tipiche dell'attacco - come "falsa rabbia". Le ricerche di Hess sembravano dunque convalidare l'antica tesi cartesiana secondo cui animali e uomini non sarebbero altro che macchine, sia pure particolari, in quanto alcuni comportamenti, come appunto quelli legati alle emozioni, possono essere scatenati a piacimento attraverso la stimolazione di nuclei e strutture nervose, quali l'ipotalamo o parti del sistema limbico.
Negli ultimi anni i sostenitori di questa tesi hanno trovato ulteriori conferme nei risultati di diversi esperimenti effettuati sul sistema limbico e sul corpo striato, un insieme di centri nervosi coinvolti nell'organizzazione di risposte motorie. Ad esempio, Joseph E. LeDoux (v., 1996) sostiene che nelle risposte di paura vi sia un forte coinvolgimento dell'amigdala, un nucleo del sistema limbico formato da neuroni che in prevalenza utilizzano il neurotrasmettitore noradrenalina. LeDoux ha sottoposto degli animali al cosiddetto fear conditioning (condizionamento alla paura): gli animali ricevono una punizione o devono fronteggiare una situazione ansiogena in un ambiente ben connotato e quindi facilmente riconoscibile che continuerà a suscitare reazioni di paura anche in assenza di punizioni o stimoli ansiogeni, in quanto l'animale ha associato la punizione e l'ansia a quel contesto ambientale. LeDoux ha dimostrato che uno stimolo ansiogeno viene convogliato verso il talamo e da qui verso la corteccia sensoriale (che lo registra nei suoi dettagli) e verso l'ippocampo, una struttura del sistema limbico che gioca un ruolo critico nella memorizzazione di molte esperienze. Queste tre strutture inviano proiezioni nervose verso il nucleo laterale dell'amigdala che, a sua volta, ha connessioni con tre diverse regioni cerebrali, ognuna delle quali è coinvolta in un diverso aspetto dell'emozione: in particolare, l'amigdala stimola l'ipotalamo, che come abbiamo visto è responsabile di diverse risposte somatiche e vegetative tipiche di alcune emozioni. Perciò, emozioni come la paura secondo LeDoux sono gestite da alcuni nuclei nervosi che ne coordinano le diverse componenti (motorie, vegetative, cognitive); esse non originerebbero nella corteccia, sede di gran parte delle esperienze e apprendimenti, bensì nelle strutture sottocorticali e, pur essendo modellate secondo programmi precostituiti e automatismi, conferirebbero una dimensione fondamentale alla nostra mente e alla nostra coscienza. Cartesio, quindi, avrebbe commesso l'errore di sottovalutare la macchina cerebrale, prendendo in considerazione una mente ideale, immateriale, priva di quelle funzioni, come le emozioni, che svolgono invece un ruolo fondamentale nella genesi della mente stessa e della coscienza.
Le teorie che sostengono la naturalizzazione dell'emozione, vale a dire la sua dipendenza da programmi e strutture nervose, hanno trovato un ulteriore supporto nei risultati di alcuni recenti studi di tipo clinico. Ad esempio, Paul Bejjani e collaboratori hanno notato che la stimolazione della sostanza nera può indurre sia espressioni facciali che sensazioni di tristezza (v. Bejjani e altri, 1999). Nel corso di una serie di interventi neurochirurgici finalizzati a contrastare i sintomi del morbo di Parkinson attraverso la stimolazione di alcuni nuclei dei gangli della base (cui appartiene il corpo striato, responsabile delle turbe motorie proprie del Parkinson), questi ricercatori francesi hanno rilevato che in seguito all'accidentale inserimento degli elettrodi nella sostanza nera (anziché nel globo pallido, la cui stimolazione elettrica comporta un beneficio per i pazienti) una paziente manifestava improvvise crisi di tristezza. Le crisi (espressioni facciali tipiche dell'infelicità e dell'afflizione, scoppi di pianto immotivato, sensazioni di profonda melanconia) si verificavano pochi secondi dopo la stimolazione elettrica della sostanza nera e cessavano non appena essa veniva interrotta. Si direbbe quindi che esista un rapporto di causa ed effetto tra l'attivazione di alcune strutture nervose, da un lato, e la manifestazione motoria e il coinvolgimento emotivo tipico di una particolare emozione, nel caso specifico la tristezza, dall'altro.
Altri studi abbastanza in linea con questa ipotesi indicano che il sentirsi felici, o almeno provare emozioni positive, si accompagna a un'attivazione della corteccia frontale: ad esempio, le ricerche effettuate da Richard J. Davidson attraverso l'uso di tecniche elettroencefalografiche computerizzate o della risonanza magnetica funzionale - che rivela quali strutture cerebrali siano più attive in un particolare momento - parrebbero dimostrare che nei soggetti che contemplano immagini rilassanti o in grado di suscitare emozioni positive vi sia un coinvolgimento della corteccia frontale (v. Davidson e Sutton, 1995). Questi risultati indicherebbero quindi che alcuni stati mentali, nella fattispecie alcune emozioni, possono essere naturalizzati, ossia ricondotti a determinati stati cerebrali e, più in particolare, potrebbero indicare che una specifica emozione dipende dal coinvolgimento di una specifica struttura nervosa che attiva un pacchetto di reazioni motorie e vegetative associate a quella precisa sensazione o esperienza soggettiva. Tuttavia, questo tipo di lettura impone alcune cautele.
Un primo punto da considerare è che nel corso dell'emozione possono aver luogo alcune sequenze motorie anche in assenza di un appropriato contesto cognitivo; si tratta peraltro di frammenti di sequenze che non sono integrati in un'emozione organizzata, come si verifica in situazioni più reali. Ad esempio, i pazienti sottoposti a stimolazione della sostanza nera e che manifestano una maschera facciale triste, o addirittura piangono, non provano un'emozione di tristezza malgrado le loro manifestazioni somatiche, che sono così 'dissociate' rispetto al vissuto. La mente potrebbe essere 'sviata' dai segnali somatici e ritenere che se il corpo si atteggia alla gioia o alla tristezza ci siano motivi per ritenere di vivere una situazione di gioia o tristezza. In tal senso sono indicativi i classici esperimenti effettuati da Paul Ekman e William Friesen (v., 1989) in un contesto neutro, vale a dire in una situazione priva di valenze emotive: in questo caso, il semplice atteggiare il volto a un'espressione di gioia o di tristezza può indurre alterazioni somatiche (ritmo cardiaco, attivazione di strutture cerebrali, modifiche della pressione arteriosa) tipiche di quello stato emotivo. La maschera facciale di un'emozione, anche se recitata, implica la tensione o rilassamento dei diversi muscoli: dai muscoli originano segnali che, arrivando al cervello, convincono la mente che il corpo sta vivendo una situazione di gioia o di tristezza. Ciò significa, tra l'altro, che non è soltanto il centro, cioè il cervello-mente, a influenzare la periferia, cioè il corpo e i suoi muscoli, ma che si verifica anche il contrario.
Naturalizzare l'emozione può essere quindi riduttivo, ma lo è anche escludere la componente biologica per guardare all'emozione soltanto in termini fenomenologici. L'intreccio tra natura ed esperienza è d'altronde ben evidente nei disturbi dell'umore: indipendentemente da quali possano essere le cause di uno stato depressivo, della tristezza o dell'ansia, è ben evidente che alcuni farmaci che alterano la chimica del cervello possono agire anche sugli stati mentali e alterare il vissuto di una persona. Perciò, una teoria dell'emozione che concili le posizioni di tipo istintualista-meccanicistico con quelle più aperte all'esperienza e alle sue connotazioni individuali deve tenere conto sia delle radici biologiche, e quindi delle componenti stereotipate dei diversi stati emotivi, sia delle componenti individuali delle singole esperienze. Le prime - tipicamente le espressioni facciali, le alterazioni umorali e somatiche - sono il risultato di un processo selettivo che ha conferito loro una valenza transculturale: esse dipendono da programmi motori e da componenti vegetative che fanno capo all'ipotalamo, ad alcuni nuclei dell'amigdala e dello striato. Questi schemi motori, memorie che codificano l'espressione delle singole emozioni, sono in gran parte legati ai gangli della base da cui dipendono memorie ed esperienze ricorrenti, cioè alle strutture che codificano programmi che si ripetono nel tempo, come le espressioni stereotipate o le sensazioni di benessere o malessere tipiche della vita emotiva. La seconda componente dell'emozione rimanda invece ai significati dell'esperienza, all'esistenza di schemi e concezioni generali che le conferiscono unitarietà inserendola nell'ambito di un più vasto schema o visione del mondo: tale componente dipende dalla corteccia cerebrale e in particolare da quella frontale. Come avviene per altri aspetti del comportamento, i gangli della base sono implicati nelle situazioni ripetitive e controllano memorie ricorrenti associate a rinforzi, a eventi positivi o negativi; la corteccia frontale entra invece in funzione quando vengono apprese nuove regole ed esperienze, quando viene fatta una valutazione del significato di una nuova realtà, cognitiva o emotiva che essa sia. Un modo più realistico per guardare all'emozione è quindi quello che tiene conto sia dei suoi caratteri adattivi, del suo significato comune alle diverse specie animali, sia dei suoi aspetti fenomenologici.
4. Motivazione e umore
Uno dei temi oggi più studiati dalle neuroscienze riguarda le basi biologiche della motivazione, implicate nelle pulsioni, nel soddisfacimento di alcuni bisogni, nella valutazione della realtà in modo positivo o negativo. Per affrontare questo argomento si può partire dallo studio degli istinti, ossia i comportamenti comuni ai diversi membri di una specie animale che si trasmettono per via ereditaria e non dipendono da forme di apprendimento. Gli studi in questo settore, da quelli condotti dagli etologi sul campo a quelli effettuati dai fisiologi in laboratorio, hanno indicato che alla base degli istinti c'è una pulsione, uno stato interno che deve essere soddisfatto attraverso un 'atto di consumazione' che procura una gratificazione: ad esempio, la pulsione alimentare dipende da uno stato interno legato a un basso livello di glucidi e può essere soddisfatta attraverso un atto di consumazione (il mangiare) che si associa a una sensazione gratificante. In modo simile, la sete dipende da un aumento della concentrazione salina dei liquidi dell'organismo e viene soddisfatta dal bere, associato anch'esso a una sensazione di rinforzo. La stessa pulsione sessuale dipende prevalentemente da uno stato interno, il livello di ormoni sessuali, e il suo soddisfacimento comporta sensazioni gratificanti.
La ricerca sugli istinti ha consentito di comprendere alcuni aspetti della gratificazione e di delinearne le componenti centrali e periferiche. Ad esempio, nel caso della pulsione alimentare è stato valutato il ruolo dei recettori gustativi, dei recettori che nello stomaco indicano lo stato di distensione dell'organo e dei recettori che a livello cerebrale registrano le variazioni di glucidi circolanti: queste ricerche hanno dimostrato che per soddisfare la fame, cioè per produrre una sensazione gratificante, i recettori periferici esercitano un ruolo secondario rispetto a quelli centrali. Ad esempio, una soluzione di saccarina, dolce ma sprovvista di valore nutritivo, stimola i recettori gustativi ma non fa passare la sensazione di fame, se non momentaneamente; similmente, la distensione delle pareti dello stomaco, ottenuta attraverso l'immissione di sostanze voluminose ma prive di valore alimentare, blocca soltanto per qualche tempo i morsi della fame; al contrario, la somministrazione di zuccheri, anche se effettuata per via gastrica o endovenosa, cioè senza coinvolgimento dei recettori gustativi della bocca, induce una sensazione di sazietà. Tuttavia, malgrado la prevalenza dei fattori centrali - come nel caso della soluzione di zucchero somministrata per fleboclisi -, i fattori periferici esercitano un ruolo non trascurabile, e il gusto è un elemento importante: in che modo valutiamo se un cibo è piacevole e, più in generale, se una determinata situazione è positiva o negativa?
Un primo aspetto da considerare è quello dei meccanismi alla base della gratificazione e delle sensazioni di piacere. Le ricerche sulle basi nervose di tali fenomeni hanno origine dagli esperimenti di James Olds e Paul Milner (v., 1954) sulla cosiddetta 'autostimolazione cerebrale'. Intorno alla metà degli anni cinquanta del Novecento, Olds, uno psicologo comparato che stava studiando le basi biologiche della memoria, ipotizzò che l'apprendimento di una breve esperienza avrebbe potuto migliorare se il cervello dell'animale fosse stato stimolato con una tenuissima corrente elettrica: il processo di memorizzazione comporta infatti delle variazioni della debole attività elettrica dei neuroni, attività che Olds intendeva appunto potenziare attraverso la stimolazione elettrica cerebrale. Nell'esperimento tipico, si faceva percorrere un labirinto a un animale (un ratto) al quale era stato impiantato un elettrodo nel cervello e, una volta che questo aveva trovata la via d'uscita, riceveva una blanda stimolazione elettrica attraverso l'elettrodo. Osservando il comportamento di alcuni animali, Olds notò che questi ricercavano attivamente il luogo in cui avevano ricevuto la stimolazione elettrica cerebrale, come se esso fosse associato a una situazione piacevole, gratificante. Lo scienziato si chiese se questo comportamento non dipendesse dal fatto che egli aveva impiantato l'elettrodo stimolatore in un'area del cervello associata a una sensazione di piacere e per verificare questa ipotesi mise a punto un apparato in cui l'animale premendo una leva attivava un meccanismo che induceva una stimolazione elettrica del cervello. Fu riscontrato che gli animali, dopo aver scoperto l'uso della leva, la premevano sempre più spesso; inoltre, se si impediva agli animali di stimolarsi dopo che essi si erano abituati agli effetti dell'autostimolazione e successivamente si dava loro la possibilità di farlo nuovamente, le autostimolazioni erano effettuate a un ritmo superiore all'usuale, come se dovessero recuperare quelle perdute.
Studi successivi indicarono che gli effetti gratificanti per l'animale dipendevano dall'attivazione di quello che venne definito 'sistema di ricompensa (o incentivante) cerebrale'. Tale sistema è costituito da un insieme di neuroni localizzati in un'area cerebrale chiamata ponte e nei gangli della base, le cui fibre giungono sino alla corteccia cerebrale. Questi neuroni sono di tipo dopamminergico (utilizzano il trasmettitore dopammina) e possono anche essere attivati da una serie di droghe - come l'amfetammina, la cocaina, la morfina - che inducono sensazioni di piacere o gratificanti. Oggi gli psicobiologi ritengono che numerosi tipi di gratificazione (alimentare, sessuale, da sostanze d'abuso, ecc.) siano mediati dallo stesso sistema di rinforzo, cioè dal sistema dopamminergico.
Un altro aspetto dei sistemi di rinforzo e di valutazione della realtà riguarda la sensazione di benessere e il tono dell'umore dell'individuo. Il sentirsi a proprio agio e soddisfatti, o insoddisfatti e depressi, deriva anche da un complesso bilancio tra lo stato interno e il modo in cui vengono valutati gli eventi che ci riguardano: da questo punto di vista sembra esistere una notevole differenza tra le posizioni della psicologia dinamica e quelle della psicologia o della psichiatria orientate in senso biologico. Le teorie psicanalitiche sostengono infatti che esiste un nesso tra le pulsioni primarie e le gratificazioni - o la mancanza di gratificazioni - infantili (di qui l'importanza delle esperienze precoci, dei rapporti con la madre, ecc.) e le caratteristiche dell'umore di un adulto, la sua maggiore o minore propensione a valutare positivamente o negativamente i vari aspetti della propria esistenza, ecc. La psicologia biologica ritiene invece che il tono dell'umore, ed eventualmente lo stato depressivo di un individuo, siano legati prevalentemente all'efficienza del sistema di rinforzo cerebrale (i neuroni dopamminergici) e alla funzionalità del sistema serotoninergico (neuroni che utilizzano il mediatore nervoso serotonina) cerebrale. A sostegno delle proprie tesi, gli psicologi e psichiatri biologici indicano come il sentirsi felici e/o gratificati dipenda da fattori genetici, come dimostra l'alta correlazione nella valutazione del proprio benessere o disagio umorale riscontrata nelle coppie di gemelli monozigotici, e da fattori neurochimici, come dimostrato dal fatto che i farmaci che agiscono sulle ammine cerebrali (serotonina, dopammina, ecc.) esercitano un effetto antidepressivo. Tuttavia, numerosi neuroscienziati, tra cui lo stesso Kandel (v., 1998), ipotizzano che possa esistere un ponte tra neuroscienze e psicologia dinamica, in quanto l'esperienza potrebbe ristrutturare le reti neurali implicate nei sistemi motivazionali e gli stessi significati dei vissuti individuali.
Nelle diverse situazioni cui abbiamo accennato - dai rinforzi alimentari o sessuali agli stati dell'umore e alla valutazione della realtà - il sistema dopamminergico esercita un ruolo critico non soltanto attraverso i meccanismi di rinforzo, ma anche facendo sì che venga prestata attenzione ad alcuni stimoli piuttosto che ad altri, agendo da filtro sulle diverse componenti della realtà ed 'etichettandola' a seconda delle situazioni. Questa attenzione selettiva caratterizza, ad esempio, il comportamento delle persone depresse, le quali interpretano molte situazioni in modo negativo anche quando queste sono neutre o potenzialmente positive. I gangli della base non si limitano quindi a governare la motivazione attraverso il meccanismo della gratificazione, ma inoltre filtrano in modo molto raffinato stimoli e input provenienti dal mondo esterno, contribuendo in tal modo a determinare il tipo di realtà con cui un individuo può entrare in contatto. L'azione dei gangli della base, in particolare lo striato e il nucleo accumbens, si esplica attraverso un effetto esercitato sul talamo, la sede alla quale pervengono tutte le informazioni sensoriali. Il talamo, però, non recepisce in modo neutro ogni tipo di stimolo e sensazione: l'incremento del livello di dopammina nello striato, infatti, fa sì che il 'filtro' del talamo si allarghi lasciando passare una maggiore quantità di input. Quest'azione di filtro non riguarda soltanto l'informazione di tipo cognitivo, ma anche altri aspetti del comportamento, dalla motricità all'emozione. Allo striato ventrale giungono infatti informazioni dalla corteccia frontale e dal sistema limbico (cioè da amigdala, ippocampo, corteccia prefrontale ed entorinale) cosicché esso è un crocevia tra funzioni cognitive, motorie e motivazionali. Lo striato ventrale è quindi al centro sia dei comportamenti motivati rivolti verso un fine, sia del trattamento di informazioni relative al contesto, basate su complesse associazioni tra stimoli diversi. Esso ha quindi un ruolo critico nella vita mentale, in quanto contribuisce all'intreccio pressoché inestricabile dei prodotti della coscienza primaria e della coscienza di ordine superiore, legata ai significati fondati sul linguaggio (v. Tagliagambe, 2002).
Se consideriamo i risultati ottenuti nell'ambito dei tre fondamentali capitoli dei processi mentali su cui ci siamo soffermati, memoria, emozione e meccanismi di gratificazione, ci rendiamo conto che l'approccio neuroscientifico (v. Levi Montalcini, 1999; v. Oliverio, 2003) ha consentito di scoprire le basi biologiche di queste funzioni della mente. Le neuroscienze ci rivelano, almeno per il momento, soltanto una componente degli eventi mentali, in quanto minimizzano la loro ricca componente soggettiva, il loro significato. Anche se l'attuale livello di analisi è volutamente riduzionistico e rappresenta solo una delle possibili chiavi di lettura, tuttavia lo studio delle basi biologiche dei processi mentali sta contribuendo a gettare luce su aspetti del comportamento finora ritenuti insondabili, ma che sono essenziali per affrontare un tema, fino a oggi considerato al di fuori di qualsiasi tentativo di lettura in chiave biologica: quello della coscienza (v. Calissano, 2001).
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