New Hollywood
Espressione usata per definire quello che è stato probabilmente il maggior fenomeno di rinnovamento del cinema statunitense dai tempi dell'avvento del sonoro, un fenomeno che ha consentito, dalla fine degli anni Sessanta, una ripresa dell'industria cinematografica nazionale all'interno di un quadro economico-organizzativo radicalmente mutato dai tempi della Hollywood classica.
La crisi che aveva investito l'industria cinematografica con l'avvento della televisione aveva causato a partire dagli anni Cinquanta un drammatico calo di pubblico nelle sale, al punto che più di una major aveva deciso di investire in altri settori (v. Hollywood); contestualmente alcuni piccoli produttori indipendenti cominciarono ad aprire la strada a un profondo ricambio di pubblico con film di basso budget destinati agli unici potenziali fruitori del cinema rimasti negli Stati Uniti: i giovani e i giovanissimi. Film dell'orrore, di fantascienza, oppure storie adolescenziali strettamente connesse al fenomeno giovanile del momento ‒ l'esplosione del rock and roll ‒ furono la linfa, per es., dell'American International Pictures di Samuel Z. Arkoff e James H. Nicholson, il cui regista più attento alla mutata sensibilità fu Roger Corman. La creazione di questo nuovo tipo di pubblico costituì, per così dire, il terreno sul quale Hollywood avrebbe di lì a non molto risposto alla crisi che la dilaniava.
Nel 1967 uscì un film che per molti aspetti non rispondeva a quelli che sarebbero stati i canoni del cinema neohollywoodiano, ma che a esso avrebbe aperto la strada: The graduate (Il laureato) di Mike Nichols. Furono tanti i ventenni che si identificarono nel carattere e nelle vicende del giovane protagonista (interpretato da uno dei maggiori attori esordienti del cinema nazionale del tempo, Dustin Hoffman) e il successo del film fece capire all'intera Hollywood quanto il pubblico fosse cambiato e come il cinema americano si stesse orientando e dovesse viepiù orientarsi verso sponde ben diverse da quelle bigger than life che ne avevano costituito l'ossatura e il fascino nei decenni precedenti. The graduate era tuttavia un'opera per più versi ancora legata ai vecchi modi di produzione hollywoodiani: ambienti altoborghesi, notevole impegno produttivo, nitore tecnico, personaggi e caratteristi già consolidati nell'industria locale (a parte i due giovani protagonisti, naturalmente). Due anni dopo, nel 1969, l'altra esplosione, e questa volta molto più rappresentativa e innovativa: Easy rider (Easy rider ‒ Libertà e paura) di Dennis Hopper. Film on the road, testimonianza di un'America meno nota e comunque veicolo di tendenze controculturali, Easy rider fu la cartina di tornasole per mettere alla prova l'esistenza di un nuovo pubblico, sostanzialmente giovanile, ma fu anche un piccolo manuale ideale della nascente N. H.: girato fuori studio, grana fotografica bruciata, budget limitatissimo, attori giovani e poco noti (talora addirittura pressoché sconosciuti, come Jack Nicholson), distribuito fuori dai normali circuiti. Hopper tuttavia era a suo modo un uomo di Hollywood e nell'insieme conosceva abbastanza bene i meccanismi, professionali e pubblicistici, della capitale del cinema.Gli autori veramente nuovi furono altri, in particolare quella generazione che, innamorata del cinema, aveva fatto di tutto pur di entrare in quel mondo, dal fattorino alla frequentazione delle nascenti scuole di cinema. Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Monte Hellman, Peter Bogdanovich sono solo alcuni fra coloro che erano riusciti a lavorare a fianco ‒ o meglio, agli ordini ‒ di Corman, ma a vario titolo e per periodi più o meno lunghi avevano frequentato scuole di cinema anche John Milius, George Lucas, Steven Spielberg, Robert De Niro. Si trattava di giovani dai caratteri diversissimi (dall'introverso Paul Schrader all'ironico e per certi versi sperimentale Brian De Palma), registi e attori che presero il testimone della vecchia generazione portandolo su piste nuove. Naturalmente il rinnovamento determinato dalla N. H. non si limitò a un ricambio registico e attoriale: vi furono anche giovani produttori indipendenti i quali raccolsero la sfida finanziaria che la vecchia Hollywood aveva rifiutato (o meglio, non aveva compreso). Ma soprattutto il nuovo cinema si adeguò al carattere contestativo del suo pubblico. Da un lato si moltiplicarono i film su personaggi ventenni incapaci di adattarsi al sistema: si pensi ai film di carattere 'scolastico' come The strawberry statement (1970; Fragole e sangue) di Stuart Hagmann o alla sua versione comica, Getting straight (1970; L'impossibilità di essere normale) di Richard Rush, che a sua volta avrebbe trovato un'ulteriore traduzione nei termini di problematica sociale cari al suo regista Stanley Kramer (un sopravvissuto della vecchia Hollywood) in R.P.M. (1970; R.P.M. Rivoluzioni per minuto). Dall'altro lato si assistette a un fenomeno di carattere molto più ampio e coinvolgente: la N. H. rivedeva e riscriveva, per così dire, l'intera storia di alcuni generi di grande popolarità, in particolare quelli che più di altri si fondavano su una retorica consolidata, identificata in un manicheismo morale prevedibile e falso. Così, il genere western passò sotto le forche caudine di un ribaltamento storico-etico di enorme portata: per fare un esempio, uno dei grandi temi di quell'epopea, la sfida all'OK Corral, nel passato ispiratrice di non pochi film western, venne riproposta da Frank Perry nel suo Doc (1971) come una faida fra violenti e amorali uomini d'affari affamati di terra e di potere, in cui nessuno è migliore dell'altro. Ma si pensi anche a un grande successo di pubblico come Little big man (1970; Piccolo grande uomo) di Arthur Penn (altro regista di una precedente generazione), film che ribalta l'impostazione retorica che aveva fino ad allora presieduto alla descrizione dei pellerossa e delle guerre indiane.
Un ulteriore elemento caratterizzò la nuova gestione del cinema statunitense: fra gli anni Sessanta e i Settanta Hollywood vide l'arrivo (o per meglio dire, lo sollecitò) di una generazione di registi di estrazione televisiva. Da John Frankenheimer a Sydney Pollack, da Elliot Silverstein agli stessi Sam Peckinpah e Robert Altman, un brulicare di personalità che si erano formate dirigendo fiction per il piccolo schermo portò una ventata particolare sulla scena cinematografica: non tanto dal punto di vista formale, quanto in relazione all'economia delle riprese, al ritmo di lavoro veloce e deciso cui la televisione li aveva abituati. Dal punto di vista finanziario, poi, un regista con esperienze televisive rappresentava una vera manna per i produttori hollywoodiani, poiché il suo background costituiva una garanzia di efficienza organizzativa (e dunque di notevole risparmio).
In un contesto come quello della N. H. in cui il regista cominciava ad assomigliare sempre più all'immagine dell''autore' (teorizzata qualche anno prima da un critico influente come Andrew Sarris, che l'aveva importata dalla Francia), non mancarono cineasti che tentarono la strada dell'autonomia assoluta unendosi in gruppo per fondare proprie case di produzione. Si pensi alla Directors' Company di William Friedkin, Coppola e Bogdanovich, o alla Sanford Productions di S. Pollack e Mark Rydell, ambedue di vita breve. Il primo di tutti, però, fu lo stesso Coppola che da solo fondò nel 1969 la American Zoetrope, con la quale finanziò uno dei suoi film più belli e delicati, The rain people (1969; Non torno a casa stasera), a suo modo una piccola pietra miliare per lo sviluppo del lato intimista della N. H.: quello, per es., del Bob Rafelson di Five easy pieces (1970; Cinque pezzi facili) e The king of Marvin gardens (1972; Il re dei giardini di Marvin). La Zoetrope avrebbe poi lasciato il passo ad altre produzioni, a causa del budget troppo elevato, come nel caso di The godfather (1972; Il padrino), o perché Coppola si era nel frattempo impegnato con la Directors' Company. Solo nel 1979 la sigla ricomparve come Omni-Zoetrope nei credits di Apocalypse now dello stesso Coppola. Ma fu nel 1980 che il regista-produttore decise un radicale rinnovamento della casa sotto il nome di Zoetrope Studios, investendo nell'acquisto e nel restauro degli studi circa dodici milioni di dollari per riuscire a produrre un unico suo film, One from the heart (1982; Un sogno lungo un giorno), ma impegnandosi per tre opere dirette da altri: la canadese The grey fox (1982; Vecchia volpe) di Philip Borsos, Hammett (1982; Hammett ‒ Indagine a Chinatown) di Wim Wenders e Mishima: a life in four chapters (1985; Mishima) di Schrader. Già nel 1982, tuttavia, gli Zoetrope Studios erano in vendita all'asta in seguito all'insuccesso di One from the heart.
Vanno ricordate le intenzioni di Coppola nel fondare la casa, in particolare il ritorno a un modello di studio ispirato a quello della Hollywood classica, non solo in relazione al modo di produzione, ma anche e soprattutto al tentativo di ricreare un look che portasse, come allora, il pubblico a riconoscerne la matrice, il marchio di fabbrica; e anche, in fin dei conti, lo studio come grande famiglia, come spazio entro il quale si riunivano non solo le star e i registi, ma anche le comparse, le maestranze e tutti coloro che in varia misura contribuivano a costruire un film.C'era dunque una forte dose di nostalgia cinefila nel progetto di Coppola, che ben si integrava con una del-le più forti e decise componenti della N. H., appunto quella nostalgica: non per nulla un enorme numero di film, dalla commedia al gangster film, erano ambientati fra gli anni Trenta e i Quaranta. Sembrava che Hollywood riscoprisse il suo passato, o addirittura guardasse a sé stessa come abbracciando idealmente l'intera sua storia, ben conscia che le cose non avrebbero mai più potuto essere come prima, non fosse altro che per gli strumenti tecnologici che il cinema aveva ormai a disposizione. Sin dagli inizi, infatti, la N. H. si era ingegnata in modo che le nuove concezioni del film e dei suoi modi di produzione e ripresa trovassero tecniche adeguate di realizzazione: la Cinemobile Mark IV, messa a punto da Fouad Said, per es., era un veicolo concepito in modo tale da poter girare una scena in movimento o addirittura in corsa senza che l'immagine dovesse soffrirne; per non parlare dei magici artifici messi in atto da campioni della fotografia cinematografica come Vilmos Zsigmond, Conrad L. Hall, László Kovács. Ma si era ormai alla vigilia di una rivoluzione radicale, quella della digitalizzazione del cinema che uno dei giovani autori della nuova ondata, George Lucas, avrebbe utilizzato come forse nessun altro. E Star wars (1977; Guerre stellari) sarebbe stato il banco di prova non solo del successo personale dello stesso Lucas, ma anche e soprattutto della nuova stagione che si stava aprendo a Hollywood: una stagione che avrebbe licenziato il vecchio 'nuovo' cinema tenendo a battesimo le tecniche digitali. Il direttore della Industrial Light & Magic (ILM), la società specializzata in effetti speciali fondata nel 1975 da Lucas come sussidiaria della sua società di produzione Lucasfilm, inventò un sistema di controllo computerizzato delle immagini che permetteva enormi risparmi produttivi: da quel momento la ILM divenne il laboratorio privilegiato per qualunque tipo di effettistica digitale, soprattutto in vista dell'ondata di film fantascientifici che proprio Lucas, con l'amico Steven Spielberg, aveva contribuito a lanciare e sviluppare.
È stato con questi film e con l'invenzione e l'applicazione di queste tecniche dall'apparenza superproduttiva che in sostanza è morta la N. H., avendo esaurito la sua funzione primaria, ossia quella di fornire ossigeno a una cinematografia in profonda crisi, contribuendo sia con i capitali rastrellati sia con il turnover di registi, sceneggiatori, fotografi, attori ecc. a rilanciare ancora una volta un cinema che era il suo esatto contrario. Un cinema d'epopea, di spettacolo, d'intrattenimento, di meraviglia, di eccesso e iperbole. Il circolo si era chiuso: Hollywood poteva continuare a essere Hollywood.
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