NICARAGUA
(XXIV, p. 749; App. I, p. 898; II, II, p. 405; III, II, p. 263; IV, II, p. 594)
Nel 1990, secondo una stima, gli abitanti erano 3.870.700, più che raddoppiati in un ventennio, con un incremento naturale tra i più alti dell'America latina e del mondo intero, che in alcuni periodi ha superato il 5% annuo e che ancora nei primi anni Novanta si aggirava attorno al 3,5%. La popolazione ha raggiunto una densità media di 32 ab./km2, ma continua a essere distribuita molto irregolarmente, concentrandosi nella zona occidentale e rarefacendosi in quella orientale, nella quale è per lo più inferiore a 10 ab./km2. Il processo di concentrazione della popolazione è andato aumentando a causa del persistente e sempre più grave squilibrio socio-economico tra le due parti del paese, nonché dell'esodo da zone, specialmente lungo il confine con l'Honduras, interessate per anni da guerriglia e da azioni belliche contro il regime nicaraguense.
Tale concentrazione si è in parte risolta in un cospicuo inurbamento, così che la popolazione urbana del N. ha raggiunto il valore del 60%. Oltre la metà di questa popolazione urbana vive nell'unica metropoli del paese, la capitale, Managua (circa 700.000 ab. nel 1985, ma poco più di 1 milione secondo calcoli recenti), città che risente ancora, fra l'altro, dei catastrofici effetti del terremoto del 1972 e dove le condizioni di vita si sono marcatamente degradate, come dimostra l'aumento della mortalità infantile. La seconda città del paese, León, non conta che 100.000 ab.; a essa si affiancano, nello svolgimento di funzioni di rango regionale, centri urbani di ampiezza demografica decisamente modesta, come Granada, Matagalpa, Estelí, Bluefields, la quale ultima è l'unica, tra tutte le città ricordate, a trovarsi nella zona orientale, ulteriore prova delle condizioni di arretratezza di questa parte del paese. La politica di riassetto territoriale e urbano intrapresa a partire dagli ultimi anni Ottanta non ha dato risultati considerevoli, se non per quanto riguarda la ricostruzione o la fondazione di nuovi centri nelle zone interessate da eventi bellici.
L'economia del N. è stata pesantemente condizionata dagli avvenimenti politici nazionali e internazionali degli anni Ottanta. Nella seconda parte del decennio le spese militari hanno assorbito fino al 40% del prodotto nazionale lordo, con ripercussioni negative sul piano sociale (i drastici tagli alla spesa pubblica hanno prodotto un calo del livello d'istruzione e addirittura un aumento del tasso di analfabetismo, risalito al 20%) e su quello economico (riduzione degli investimenti produttivi). A ciò si aggiunge il fortissimo aumento del debito pubblico e dell'inflazione. La fine dello stato di guerra non ha normalizzato del tutto le relazioni con gli Stati Uniti e la crisi dell'Unione Sovietica ha privato il N. di un partner importante e del grande fornitore di petrolio.
L'agricoltura, che non ha tratto giovamento dalla solo parziale attuazione della riforma fondiaria, assorbe tuttora (1990) il 38% della popolazione occupata. Il caffè (430.000 q nel 1990) e il cotone (peraltro nettamente diminuito: 250.000 q di fibra e 330.000 q di semi) continuano a essere i prodotti principali e i più notevoli ai fini dell'esportazione. Il patrimonio bovino consta di 1.680.000 capi.
La riduzione degli investimenti nazionali ed esteri e dei rifornimenti di petrolio ha ulteriormente compromesso la già precaria situazione del settore manifatturiero e ha costretto, in alcuni periodi, alla chiusura di diverse fabbriche. Il distretto industriale più grande e più composito è quello di Managua, ma l'industria più importante, quella zuccheriera, è diffusa in diversi centri della parte occidentale del paese (Chichigalpa, León, Granada). Notevoli impianti cantieristici si trovano a Puerto Cabezas.
La bilancia commerciale è sempre nettamente deficitaria: l'esportazione, esclusivamente di prodotti agricolo-zootecnici, è diretta soprattutto verso il Giappone, alcuni paesi della Comunità Europea (principalmente la Germania) e Cuba; l'importazione è stata per lungo tempo nettamente dominata dalle forniture sovietiche di petrolio.
Storia. - Gli anni Settanta videro un forte sviluppo dell'opposizione alla dittatura familiare dei Somoza, che da quattro decenni mantenevano il potere grazie soprattutto al controllo della Guardia nazionale, creata dagli Stati Uniti alla fine degli anni Venti (durante l'occupazione del N. fra il 1912 e il 1933).
Malgrado la dura repressione, più volte denunciata anche in sede internazionale, alla crescita del malcontento popolare si accompagnò una progressiva estensione della guerriglia (promossa fin dagli anni Sessanta dal Frente Sandinista de Liberación Nacional, FSLN), mentre il carattere personalistico e la corruzione del regime gli alienavano sempre più i consensi degli stessi ceti abbienti. Nel gennaio 1978 l'uccisione di P. J. Chamorro Cardenal, leader dell'opposizione moderata e membro di una delle più influenti famiglie del paese, scatenò una lunga ondata di proteste e diede inizio alla crisi finale della dittatura; anche il sostegno degli Stati Uniti fu rimesso in discussione e nel gennaio 1979 Washington sospese tutti gli aiuti economici e militari al Nicaragua. Nei mesi successivi la guerriglia sandinista dava luogo a un'insurrezione generale contro il regime e, malgrado la violenta risposta di A. Somoza Debayle (che ricorreva anche a bombardamenti aerei sulle principali città, provocando decine di migliaia di morti), il dittatore era infine costretto a lasciare il paese il 17 luglio; il 20 luglio il potere veniva assunto da un governo provvisorio formato dal FSLN e da esponenti delle principali forze di opposizione.
Il governo provvisorio sciolse la Guardia nazionale e la sostituì con l'Esercito popolare sandinista, abrogò la costituzione del 1974 e varò uno Statuto fondamentale della repubblica e uno Statuto dei diritti e delle garanzie dei Nicaraguensi (che includeva l'abolizione della pena di morte), sciolse il Congresso bicamerale e istituì un organo legislativo provvisorio, il Consiglio di stato, inaugurato nel maggio 1980, cui partecipavano rappresentanti di tutti i partiti, i sindacati, le organizzazioni di massa e le associazioni economiche e professionali. Le elezioni per un'Assemblea costituente furono rinviate in modo da concentrare in un primo momento gli sforzi sulla ricostruzione del paese, uscito con gravissimi danni dalla guerra civile (che aveva provocato oltre 50.000 morti e 700.000 profughi su una popolazione di poco più di due milioni e mezzo di persone). Sul piano economico, furono nazionalizzate le banche, le risorse minerarie e una parte dell'industria, mantenendo comunque un ampio settore privato, sottoposto a forme di controllo indiretto da parte dello stato; espropriate le terre dei Somoza, fu avviata una riforma agraria, mentre un notevole impegno veniva profuso per lo sviluppo dell'istruzione, del servizio sanitario e dell'edilizia residenziale.
Nonostante l'opzione generale per un'economia mista, l'ampia alleanza di forze che avevano partecipato all'ultima fase della lotta contro Somoza cominciò ben presto a dividersi sulle scelte di politica economica e sociale: le difficili condizioni del paese acuivano in particolare i contrasti fra i sandinisti e importanti settori della borghesia e del ceto medio, i cui rappresentanti finirono con l'uscire dal governo provvisorio (guidato dal marzo 1981 dal leader del FSLN D. Ortega Saavedra) e diedero vita a una crescente opposizione interna.
Ad aggravare la situazione contribuivano le azioni terroristiche e di guerriglia condotte da circa duemila membri della disciolta Guardia nazionale, che dalla fine del 1979 avevano stabilito le proprie basi in Honduras ottenendo l'appoggio del governo di questo paese. Dal 1981, con l'avvento dell'amministrazione Reagan, anche gli Stati Uniti, che accusavano Managua d'inviare armi alle forze rivoluzionarie del Salvador, cominciarono a sostenere attivamente i guerriglieri antisandinisti (i cosiddetti contras) e dal 1982 questi furono in grado di aumentare rapidamente i propri effettivi (fino a circa 15.000 a metà degli anni Ottanta), di moltiplicare le operazioni militari e di lanciare attacchi anche a partire dal territorio della Costa Rica.
L'aumento della tensione in N. e l'introduzione di misure restrittive da parte del governo (che nel marzo 1982 proclamò lo stato di emergenza) provocarono un inasprimento dei rapporti fra questo e l'opposizione interna, una parte della quale cominciò ad appoggiare la guerriglia antisandinista, mentre ulteriori contrasti venivano generati dalle divisioni nella Chiesa cattolica fra sacerdoti impegnati nel processo rivoluzionario (taluni anche con incarichi di governo) e gerarchie ostili ai sandinisti, dalle rivendicazioni autonomistiche degli indios della costa atlantica (in particolare i Miskito) e dalla politica estera di Managua, che, pur dichiaratamente non allineata, con il deterioramento della situazione centroamericana trovava sempre più in Cuba e nell'Unione Sovietica i suoi principali interlocutori.
La difficoltà della situazione indusse i sandinisti a rinviare le previste elezioni generali fino al 1984, quando, approvata una legge elettorale da parte del Consiglio di stato e sospeso lo stato di emergenza, queste si poterono finalmente svolgere il 4 novembre. Malgrado il boicottaggio di rilevanti forze di opposizione, la consultazione, riconosciuta corretta dagli osservatori internazionali, vide la partecipazione del 75% dell'elettorato: il FSLN ottenne il 67% dei voti e 61 dei 96 seggi dell'Assemblea nazionale (costituente nei primi due anni di attività, legislativa nei successivi quattro anni); 29 seggi andarono a tre partiti di orientamento conservatore e 6 seggi a tre piccole formazioni di sinistra. Nelle contemporanee elezioni presidenziali, Ortega fu confermato alla guida dello stato e dell'esecutivo; il 9 gennaio 1985, sciolti il Consiglio di stato e il governo provvisorio, i nuovi organi istituzionali entravano in funzione. La Costituzione, elaborata dall'Assemblea nazionale con un lungo processo, che vedeva anche momenti di consultazione popolare, fu infine approvata nel novembre 1986 e promulgata il 9 gennaio 1987; di tipo presidenziale, essa stabiliva l'elezione diretta del presidente della Repubblica e dell'Assemblea nazionale ogni sei anni. Malgrado la formalizzazione del nuovo assetto istituzionale, le condizioni del N. rimasero assai difficili e dall'ottobre 1985 il governo ristabilì lo stato di emergenza. Il problema principale per Managua era l'intensa pressione esercitata sul paese dagli Stati Uniti mediante l'invio di ingenti forze nella regione, lo svolgimento dal 1982 di ripetute manovre militari presso i confini nicaraguensi, il sostegno e la partecipazione, anche diretta, alle attività dei contras, l'embargo commerciale totale verso il N. stabilito nel maggio 1985.
Una denuncia contro gli Stati Uniti presentata da Managua nell'aprile 1984 portava a una condanna del governo di Washington da parte della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite presso l'Aia: questa nel giugno 1986 riconosceva gli USA responsabili di una serie di violazioni del diritto internazionale per il sostegno alle forze antisandiniste, le incursioni aeree e gli attacchi militari contro il territorio del N., la deposizione di mine nelle sue acque territoriali e l'embargo commerciale nei suoi confronti. La Corte stabilì che gli Stati Uniti avevano l'obbligo di ''cessare immediatamente'' tali violazioni e di ''risarcire il Nicaragua'' per tutti i danni arrecatigli; ma il governo di Washington, che fin dal 1984 aveva dichiarato di non accettarne la giurisdizione in questo caso, respinse la sentenza e pose il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU di pieno appoggio a essa (luglio). A tali sviluppi si accompagnò una crescita dei rapporti fra il N. e l'Unione Sovietica (anche sotto il profilo degli aiuti economici e militari), mentre scarso successo aveva il tentativo di promuovere un processo di pacificazione generale in America Centrale condotto dai paesi del cosiddetto gruppo di Contadora (dal nome dell'isoletta panamense dove si erano per la prima volta riuniti nel gennaio 1983): Messico, Panama, Colombia e Venezuela.
Fin dal 1983 il gruppo di Contadora aveva formulato un piano di pace, che prevedeva fra l'altro la fine di ogni intervento militare straniero nella regione e l'impegno di ciascun governo centroamericano a cessare qualunque forma di sostegno a forze operanti contro altri governi; ma le successive proposte di accordo, elaborate dal gruppo su tale base a partire dal 1984, non riuscirono a ottenere l'adesione di tutti e cinque i paesi interessati (Guatemala, Honduras, Salvador, N., Costa Rica) né l'assenso degli Stati Uniti. La situazione si sbloccò soltanto nel 1987, quando una nuova iniziativa di pace del presidente della Costa Rica, O. Arias Sánchez, consentì di giungere il 7 agosto alla firma degli accordi di Esquipulas (Città del Guatemala) da parte dei cinque stati centroamericani: ognuno di questi s'impegnò a non fornire alcun tipo di appoggio, compreso l'uso del proprio territorio, a forze ostili agli stati vicini e accettò di promuovere al proprio interno un processo di riconciliazione nazionale, avviando negoziati con "i gruppi di opposizione non armati e con quelli che si avvarranno dell'amnistia".
Nonostante gli accordi di Esquipulas, seguiti da una serie di incontri fra i presidenti centroamericani, miranti a sviluppare il processo di pace sul piano regionale, i contras mantennero le proprie basi in Honduras (furono invece espulsi dalla Costa Rica) e continuarono a ricevere il sostegno del governo di Tegucigalpa e di quello di Washington: poterono così proseguire le operazioni militari contro il N. anche dopo il 1987, mentre le condizioni economiche del paese divenivano sempre più gravi.
La guerriglia degli anni Ottanta, oltre a provocare ancora migliaia di vittime (circa 30.000 morti alla fine del decennio), ulteriori distruzioni e la fuga di gran parte della popolazione civile dalle zone interessate, soprattutto lungo i confini con l'Honduras, aveva bloccato il processo di ricostruzione avviato dopo il 1979 e imposto all'economia un costo insostenibile, anche in seguito all'assorbimento di oltre la metà della spesa pubblica da parte del settore militare. A ciò si aggiunsero le pesanti conseguenze della rottura con gli Stati Uniti (solo in parte compensate, fino alla crisi del blocco sovietico nel 1989, dagli aiuti provenienti dall'URSS e dai suoi alleati) e le più generali difficoltà, come il deterioramento delle ragioni di scambio e l'aumento dei tassi di interesse sul debito estero, connesse con l'andamento dell'economia internazionale negli anni Ottanta. Alla diminuzione, dal 1982, del reddito reale pro capite si accompagnarono pertanto forti passivi nei conti con l'estero e nel bilancio dello stato e una rapida crescita del debito estero (più che quintuplicato fra il 1979 e il 1989) e dell'inflazione (dal 25% del 1982 fino al 36.000% del 1988), mentre la crisi finanziaria induceva il governo a una progressiva limitazione delle spese sociali. A partire dal 1988 furono infine adottate drastiche misure di austerità in campo monetario e fiscale (compreso il licenziamento di oltre 30.000 dipendenti pubblici), che, pur consentendo un ridimensionamento dell'inflazione, contribuirono ad aggravare la depressione: nel 1990 il reddito reale pro capite era inferiore di oltre il 40% a quello del 1980 e la disoccupazione raggiungeva il 40% della forza lavoro.
Dal 1988, pressato dalla crisi economica e sociale, il governo di Managua imboccò decisamente, anche mediante concessioni unilaterali, la via dell'accordo con l'opposizione politica e militare. Malgrado la prosecuzione della guerriglia, fin dal gennaio 1988 fu sospeso lo stato d'emergenza e furono avviati negoziati diretti con i contras, i cui sviluppi nei due anni successivi portarono a una serie di modifiche legislative e a concordare le modalità delle elezioni generali del 1990. Queste si svolsero il 25 febbraio, sotto il controllo di osservatori dell'ONU e dell'OAS, e videro la partecipazione del 90% dell'elettorato. La Unión Nacional Opositora (UNO), coalizione eterogenea fra 14 partiti di opposizione, ottenne il 55% dei voti e 51 seggi (su 92) nell'Assemblea nazionale; il 41% dei voti e 39 seggi andarono al FSLN (che, pur sconfitto, rimase il partito più forte) e 2 seggi a due formazioni minori. Alla presidenza della Repubblica fu eletta V. Barrios de Chamorro, vedova del leader assassinato nel 1978 e candidata della UNO. Soltanto dopo l'insediamento della nuova amministrazione, il 25 aprile, le forze antisandiniste incominciarono a smobilitare, smantellando le basi in Honduras e confluendo in cinque ''zone di sicurezza'' sotto la supervisione dell'ONU; il processo si concluse il 27 giugno, dopo il disarmo di quasi 20.000 contras, quando i leaders della guerriglia posero formalmente termine a oltre dieci anni di guerra civile.
Il nuovo governo, che non disponeva di una maggioranza sufficiente a modificare la costituzione del 1987 e la cui stessa base parlamentare era tutt'altro che solida, data l'eterogeneità della UNO, cercò un accordo con l'opposizione sandinista, in primo luogo sulla delicata questione delle forze armate. Queste furono nettamente ridimensionate (da oltre 60.000 uomini nel 1990 a meno di 15.000 nel 1993) e poste sotto la direzione politica di V. Chamorro, che assunse anche il ministero della Difesa, ma il loro comando restò affidato al gen. H. Ortega Saavedra, fratello del leader del FSLN. Ciò suscitò l'aspro dissenso dell'ala destra della UNO, guidata dal vicepresidente V. Godoy Reyes, che si opponeva a ogni collaborazione con i sandinisti, premeva per una rottura della continuità istituzionale e contestava la linea moderata di V. Chamorro e del primo ministro A. Lacayo Oyanguren.
Le divisioni all'interno della UNO, esplose fin dall'estate 1990, si sono aggravate negli anni successivi. Ad accentuare i contrasti ha contribuito anche la situazione economica del paese, che, malgrado la cessazione, dal marzo 1990, dell'embargo statunitense (cui seguì nel settembre 1991 il ritiro da parte del N. della richiesta di 17 miliardi di dollari d'indennizzo presentata a Washington dopo la sentenza della Corte dell'Aia) e una certa ripresa dei crediti e degli aiuti internazionali, è rimasta assai difficile.
Al permanere di forti passivi nella bilancia commerciale e di un'elevata inflazione, si sono accompagnate una persistente stagnazione produttiva e l'ulteriore crescita della disoccupazione (fino a oltre il 50% della forza lavoro) e delle tensioni sociali, che hanno dato luogo ad aspri conflitti sindacali, a violente manifestazioni di piazza e a occupazioni di terre. Il programma di privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e licenziamenti tra i dipendenti dello stato, varato dal governo nel maggio 1990, suscitò una dura reazione popolare e, dopo lo sciopero insurrezionale di luglio (controllato grazie alla lealtà delle forze armate nei confronti della nuova amministrazione), dovette essere ridimensionato e reso più graduale. Le misure di austerità hanno comunque continuato ad alimentare i conflitti sociali, mentre all'opposizione conservatrice di Godoy si sono affiancati gruppi di ex guerriglieri antisandinisti (i cosiddetti recontras) che contestano la politica di V. Chamorro e reclamano l'assegnazione di terre; gli attacchi militari da questi condotti nelle regioni settentrionali, in particolare contro fattorie e cooperative agricole, hanno provocato la formazione di gruppi armati sandinisti (detti recompas), con un'ulteriore diffusione degli scontri e dell'insicurezza. Espressione della grave situazione sociale non meno che dei contrasti politici, recontras e recompas hanno talvolta unito le forze nella protesta contro il governo e nella richiesta di terre.
Divisioni si sono manifestate anche all'interno del FSLN, la cui cauta collaborazione con l'amministrazione Chamorro è entrata spesso in conflitto con le rivendicazioni dei sindacati e della base popolare del partito, esasperata dalla crisi e dalle politiche restrittive del governo. L'approfondirsi della frattura fra V. Chamorro e la maggioranza di destra della UNO ha portato comunque a un crescente avvicinamento della prima alla leadership sandinista (riconfermata nel luglio 1991 dal primo congresso del FSLN), fino alla rottura della vecchia coalizione elettorale e alla nascita nel gennaio 1993 di una nuova maggioranza parlamentare, formata da 8 deputati della UNO favorevoli alla Chamorro insieme ai 39 sandinisti e al rappresentante di un piccolo partito di sinistra. Tali sviluppi hanno provocato un peggioramento delle relazioni con gli Stati Uniti, che nel maggio 1992 hanno sospeso il programma di assistenza economica al N.; nel 1993 a una ripresa parziale degli aiuti Washington ha affiancato forti pressioni sul governo di Managua per una riduzione dell'influenza politica del FSLN. Dall'estate 1993, in effetti, i rapporti fra quest'ultimo e l'amministrazione Chamorro si sono progressivamente deteriorati, anche in seguito all'ulteriore crescita della tensione sociale, degli episodi di violenza e degli scontri armati nelle regioni settentrionali, fino a porre in crisi la maggioranza parlamentare che si era costituita in gennaio.
Bibl.: T. W. Walker, Nicaragua: the land of Sandino, Boulder (Colorado) 1981; G. Black, Triumph of the people: the sandinista revolution in Nicaragua, Londra 1981; The Nicaraguan reader: documents of a revolution under fire, a cura di P. Rosset e J. Vandermeer, New York 1983; F. D. Colburn, Post-revolutionary Nicaragua: State, class and the dilemmas of agrarian policy, Berkeley 1986; D. C. Hodges, Intellectual foundations of the Nicaraguan revolution, Austin (Texas) 1987; Reagan versus the sandinistas: the undeclared war on Nicaragua, a cura di T. W. Walker, Boulder (Colorado) 1987; R. Gutman, Banana diplomacy: the making of American policy in Nicaragua, New York 1988; D. Gilbert, Sandinistas, ivi 1988; M. Foroohar, The catholic church and social change in Nicaragua, ivi 1989; M. E. Crahan, Religion and politics in revolutionary Nicaragua, in The progressive church in Latin America, a cura di S. Mainwaring e A. Wilde, Notre Dame (Indiana) 1989; P. D. Scott, J. Marshall, Cocaine politics: drugs, armies and the CIA in central America, Berkeley 1991; F. D. Colburn, The fading of the revolutionary era in central America, in Current history, febbr. 1992. Per ulteriori indicazioni, v. America, Bibl.: America Centrale e regione caribica, in questa Appendice.
Cinema. - Se si eccettuano alcuni documentari girati negli anni Venti, fino agli anni Sessanta il cinema in N. esiste solo come distribuzione. Nelle poche sale delle grandi città sono presentate in prevalenza pellicole statunitensi, ignorando i film prodotti dagli altri stati latino-americani. A frenare ogni impulso alla produzione è stato il dittatore A. Somoza, proprietario di alcuni studi, il quale voleva evitare che dei privati potessero mettere in discussione la sua egemonia, sia economica che politica. Soltanto alla caduta di Somoza inizia una produzione nazionale: il cinema diventa uno dei mezzi privilegiati dal fronte sandinista per documentare e testimoniare la lotta armata. Tra i film-documento più riusciti si segnalano Nicaragua Septiembre 78 del cileno O. Cortés e del francese F. Diamond, Nicaragua: los que haran la libertad (1978) di B. Navarro, e inoltre, particolarmente significativo, Despues del terremoto di L. Portillo, N. Serrano e L. Pérez, che non ricostruisce episodi di lotta armata ma racconta il disastroso terremoto che colpì Managua nel 1972. Nel luglio 1979, caduta la dittatura, è stato istituito l'INCINE (Instituto Nicaraguense de Cine), che ha ereditato le attrezzature di proprietà di Somoza, mettendole a disposizione dei cineasti; l'Istituto si occupa inoltre di distribuire i film nicaraguensi e latino-americani nelle sale del paese.
Soltanto da un decennio la cinematografia del N. − spesso consociata peraltro a gruppi economici di altri paesi, in particolare Cuba e Messico − sembra in grado di produrre lungometraggi di buona qualità narrativa e spettacolare: è il caso di Alsino y el Condor di M. Littin e di El señor Presidente del cubano M.O. Gòmez, ambedue girati nel 1983; di Walker (1987), regista A. Cox; e di due pellicole del 1988, Espectro de la guerra di L. Deshòn e Un hombre de una sola nota di F. Pineda.
Bibl.: AA.VV., America Latina: lo schermo conteso, Venezia 1981; M.J. Cereghino, Senza il bacio finale. Cinema e rivoluzione in Nicaragua, Roma 1988.