ZINGARELLI, Niccolò (Nicola) Antonio
– Nacque a Napoli (parrocchia di S. Arcangelo all’Arena) il 4 aprile 1752 da Riccardo Tota e da Teresa Ricci.
Il padre, tenore e maestro di canto, lavorò come «principal computista» (Liberatore, 1837, p. 134) al collegio di S. Maria di Loreto dove, alla sua morte (1759), i tre figli maschi – Francesco e Giuseppe gli altri due – furono accolti e avviati all’istruzione musicale. Niccolò poté così studiare con Saverio Carcajus (violino), Fedele Fenaroli e Pietro Antonio Gallo (composizione), Pasquale Anfossi e Antonio Sacchini (‘mastricelli’, ossia assistenti). Ancora allievo, compose l’intermezzo I quattro pazzi, messo in scena dagli studenti del collegio (incerta la data).
Nel luglio del 1772 chiese (e ottenne) di lasciare il collegio in anticipo per ricoprire il posto di organista a Torre Annunziata; non abbandonò però gli studi musicali, che proseguì con Alessandro Speranza. A Torre si dedicò anche all’insegnamento del violino presso la famiglia Gargano. Conobbe quindi Caterina Francone, duchessa di Castelpagano, dama di corte della regina, musicista dilettante e sua prima protettrice. Anche grazie all’aiuto di costei riuscì a far eseguire a Napoli alcune cantate: quella Per [...] il felicissimo giorno natalizio di Sua Maestà (1778), Elpino e Nice (1778) e Pigmalione (1779). Il 13 agosto 1781 il teatro di San Carlo ospitò la sua prima opera seria, Montezuma (testo di Vittorio Amedeo Cigna-Santi; 1781), senza grande successo.
Nel 1784 si trasferì a Milano, forte delle raccomandazioni che la sua protettrice rivolse alle sorelle Paola e Claudia Litta Visconti Arese e all’arciduchessa Maria Beatrice d’Este. Nel febbraio del 1785 debuttò alla Scala con il dramma serio Alsinda (Fernando Moretti), riscuotendo vivo apprezzamento; nella successiva quaresima compose la cantata Telemaco per la Pia istituzione degli Accademici filarmonici, associazione alla quale probabilmente destinò le sue dodici Sinfonie milanesi (ed. a cura di D. Daolmi, Milano 2009).
Presa residenza in Milano, Zingarelli diede avvio alla carriera di operista, in Italia e ben presto anche Oltralpe; tra maggio del 1785 e marzo del 1789 compose Ricimero (da Francesco Silvani; Venezia 1785), Armida (Jacopo Durandi; Roma 1786), Antigono (Metastasio; Mantova 1786), Ifigenia in Aulide (Moretti; Milano 1787) e Artaserse (Metastasio; Trieste 1789). Nel maggio del 1787 fu inoltre eseguita a Milano una sua intonazione della Passione di Metastasio. Nel 1790 Antigone (Jean-François Marmontel) fu la prima opera nuova a debuttare sulle scene di un teatro straniero, l’Académie royale de musique di Parigi. Fu accolta da scarso successo, fors’anche a causa dell’instabilità politica di quei mesi; altri due lavori teatrali coevi, destinati all’Académie (Les Hespérides e Pharamond ou Les Druides, entrambi su libretto di Louis de Laus de Boissy), non andarono in scena. Di ritorno in Italia, nell’autunno del 1790, si trattenne a Colombier (Neuchâtel) come insegnante di Isabelle de Charrière, e assieme a lei compose quattro opere che non videro lo sbocco del palcoscenico: L’olimpiade (Metastasio), Les Femmes, Polyphème e Zadig (quest’ultima non ancora terminata l’estate dell’anno dopo in occasione di un secondo viaggio di Zingarelli a Colombier).
Tornato a Milano, riprese la carriera operistica, che proseguì a ritmo costante sino al 1803. Sporadicamente si dedicò anche al genere buffo: in quest’ambito spiccano Il mercato di Monfregoso (da Goldoni; Milano 1792) e La secchia rapita (Angelo Anelli; Milano 1793); in quello serio, Pirro, re d’Epiro (Giovanni De Gamerra; Milano 1791), Apelle (Antonio Simon Sografi; Venezia 1793), Il conte di Saldagna (Moretti; Venezia 1794), Ines de Castro (Antonio Gasperini; Milano 1798), Il ratto delle Sabine (Gaetano Rossi; Venezia 1799) ed Edipo a Colono (Sografi; Venezia 1802). Tra le opere serie un posto preminente spetta a Giulietta e Romeo (Giuseppe Maria Foppa; Milano, febbraio 1796), la prima trasposizione operistica italiana della storia degli infelici amanti veronesi. Il debutto milanese, con Giuseppina Grassini e Girolamo Crescentini nei ruoli eponimi, fu seguìto da una pressoché ininterrotta serie di riprese con interpreti di prima sfera fino al 1830, non senza subire una serie via via più ingente di interventi e varianti che ne alterarono la struttura originaria. Tra queste, la più significativa investì l’aria di Romeo Ombra adorata, aspetta: la versione all’epoca più diffusa fu quella composta da Crescentini e introdotta nella partitura (per mai più esserne espunta) fin dalla prima ripresa (Reggio nell’Emilia, aprile 1796). L’opera di Zingarelli dovette infine cedere il passo al melodramma omonimo di Nicola Vaccai (1825) e ai Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini (1830).
Negli stessi anni Zingarelli si dedicò anche ai generi del melologo con Andromeda (Giovanni Bertati; Venezia 1796) e dell’oratorio con Gerusalemme distrutta (Sografi; Firenze 1794), Giuseppe in Egitto (da Metastasio; Tolentino 1797) e Il figliuol prodigo (dall’omonimo dramma sacro di Agostino Giezzi; Pesaro 1797). Non trascurabili furono inoltre gli esiti raggiunti nelle cantate da camera, spesso su versi di Dante (Inferno XXXIII, 1-89), Petrarca (Rerum vulgarium fragmenta, 302), Ariosto (Orlando furioso, I, 42) e Tasso (Gerusalemme liberata, II, 35-36; XII, 64-69, 96-97, 99; XVI, 56-60; XX, 131-136).
Al 1793 risale il primo tentativo di ottenere un incarico lavorativo stabile. Il compositore contattò il capitolo del duomo di Milano proponendosi quale futuro maestro di cappella, sebbene il titolare, Carlo Monza, fosse ancora nel pieno delle proprie funzioni; in seguito a un doppio esame svoltosi tra il 1793 e il 1795 ottenne la nomina a futura successione. Nel 1796 lasciò però Milano per stabilirsi a Loreto, dove dal 1° settembre ricoprì la carica di maestro di cappella del santuario sino al 28 febbraio 1805. Prima di abbandonare Milano, si assicurò di mantenere il diritto di successione nella cappella del duomo, rinunciandovi soltanto nel dicembre del 1801. A Loreto, pur continuando l’attività di operista, si dedicò assiduamente alla musica da chiesa componendo più di cinquecento brani per ogni giorno dell’anno liturgico.
Negli anni lauretani l’atteggiamento di Zingarelli nei confronti dell’invasione napoleonica, dei locali moti libertari e della dominazione francese fu ambivalente. L’imposizione ai cantori della cappella di una contribuzione annua a favore del papa (novembre 1796), la protesta contro Napoleone per la spoliazione del santuario (febbraio 1797) e la pubblicazione dell’inno Dio salvi Francesco imperatore (Vienna, Artaria, 1798) mal sembrano accordarsi sia con la cantata All’armi franche arrise, composta per festeggiare la municipalità provvisoria di Jesi (1798), sia con l’opera I veri amici repubblicani (Giandomenico Boggio; Torino 1798). Tra il 1803 e il 1804 compose per la corte di Vienna l’opera seria Pilade e Oreste (Giuseppe Carpani), mai rappresentata; pochi anni più tardi prese par-te alla collettanea In questa tomba oscura (Vienna, Mollo, 1808), promossa da Carpani: inviò dieci differenti intonazioni del testo (altre cinque versioni si conservano manoscritte nella Biblioteca del conservatorio di Milano).
L’esperienza lauretana terminò ai primi del 1805: giunta notizia della morte di Pietro Alessandro Guglielmi, maestro della cappella Giulia in Vaticano, Zingarelli si affrettò a farsi avanti con una lettera di autoraccomandazione per concorrere alla successione. La proposta fu accolta all’unanimità, sicché, dopo un soggiorno a Napoli per comporre l’oratorio Il trionfo di Davidde (Giuseppe Lucchesi Palli?; quaresima 1805), il musicista assunse ufficialmente il nuovo incarico. A seguito dell’occupazione francese in Roma (1808) il compositore si trovò di nuovo a rapportarsi con l’autorità napoleonica. Nel novembre del 1810 fu contattato per approntare un progetto vòlto alla creazione di un conservatorio sul modello del conservatoire parigino; Zingarelli ne sarebbe stato posto a capo. Il compositore accettò l’incarico, ma nel contempo iniziò una trattativa con il governo napoletano per farsi nominare direttore del locale conservatorio (sorto nel 1806 dalla fusione dei tre collegi preesistenti). Nel frattempo, riprese a comporre per il teatro: a Carnevale diede all’Argentina un Baldovino (Iacopo Ferretti; Roma 1811) e avviò a stesura una Berenice, regina d’Armenia (Ferretti). Alla fine di maggio del 1811, completata la cantata La nascita del re di Roma, si dimise dalla cappella Giulia, dichiarandosi indisponibile a dirigere il Te Deum in onore del figlio di Napoleone. Fu dunque arrestato, condotto prima a Civitavecchia e poi a Parigi, dove fu però trattato con riguardo e degnamente ricompensato; qui scrisse una Messa per la cappella dell’imperatore (eseguita nel gennaio del 1812), mise in musica cinque versetti dello Stabat Mater e probabilmente compose l’opera seria Agrippine, veuve de Germanicus, mai allestita (Rabbe - Vieilh de Boisjolin - de Sainte-Preuve, 1834, p. 1634).
Tornato in Italia, il 18 febbraio 1813 ottenne l’agognata nomina a direttore unico del conservatorio di Napoli. Nel 1816 il restaurato governo borbonico lo riconfermò per la sola direzione musicale, carica che mantenne sino alla morte. Sotto la sua direzione si formarono allievi del calibro di Vincenzo Bellini, Carlo Conti, Michele Costa, Saverio Mercadante, Luigi e Federico Ricci, Lauro Rossi ed Errico Petrella; ma il suo operato fu oggetto di critiche. Nel 1821 Franz Sales Kandler sosteneva che Zingarelli «non s’è finora acquisito alcun merito nella direzione dell’istituto» (Kandler, 1821, col. 869). Più pungente la critica di François-Joseph Fétis, che lo dichiarò «absolument ignorant des productions des grands musiciens qui s’étaient illustrés dans les pays étrangers» e lo tacciò di non avere «ni méthode ni plan d’enseignement» (Fétis, 1844, p. 618). Nel 1816, alla morte di Giovanni Paisiello, fu nominato maestro di cappella nella cattedrale di Napoli.
Gli incarichi napoletani non intaccarono la florida produzione del compositore. Se in ambito teatrale si limitò all’oratorio Saul (Ferretti; Roma 1833; rev. Napoli 1835), più numerosa e variegata fu la produzione sacra. Nacquero in questi anni il Miserere «alla Palestrina» (1826), il Cantico d’Isaia per il festival di Birmingham (1829) e il Requiem per le esequie di Luigi de’ Medici di Ottajano (1830). Significative furono inoltre le opere devozionali in lingua italiana: la cantata La fuga in Egitto (1835) e le numerose intonazioni delle Tre ore d’agonia e della parafrasi italiana dello Stabat Mater. A questo periodo risalgono infine più di cinquanta sinfonie d’un sol tempo.
Morì il 5 maggio 1837 a Torre del Greco, in seguito a una seria infermità che lo aveva còlto fin dal 1835.
La salma fu trasportata nella cappella del conservatorio di Napoli per una veglia funebre e quindi seppellita in S. Domenico Maggiore, dove ancor oggi riposa. Tra i suoi ritratti spicca quello di mano di Costanzo Angelini nel Museo di S. Martino a Napoli (ante 1816; Bianconi, 2018).
Eccetto che per alcune voci critiche sulla sua attività didattica, Zingarelli godette in vita di «stima incondizionata» per «l’efficacia espressiva nell’ambito del patetico e nelle più forti situazioni drammatiche e la capacità di invenzione melodica e di rinnovamento formale» (Caraci, 1988, p. 375). «Sommo ingegno», «che nessuno superò mai nel tragico colorito» (Carpani, 1824, pp. 110 e 22), fu tra gli epigoni della scuola napoletana del Settecento. L’avvento di un nuovo corso nella musica italiana dell’Ottocento non intaccò il suo stile, confermandolo così quale «simbolo di una lunga e grande tradizione che con lui aveva prodotto i frutti estremi» (Caraci, 1988, p. 422).
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