CASTIGLIONI, Niccolò
Niccolò Castiglioni fu Compositore dalle caratteristiche del tutto atipiche; il suo singolarissimo mondo di immagini e il linguaggio musicale privo di pregiudizi e lontano da qualsiasi accademia hanno fatto di lui uno dei protagonisti del secondo Novecento italiano.
Nacque a Milano il 17 luglio 1932 da Elena Osimo e Manlio Castiglioni, dirigente del Touring Club Italiano; ebbe una sorella, Ilaria. Il nonno materno era Augusto Osimo, a lungo direttore generale della Scuola Umanitaria, istituzione legata all’omonima società milanese.
Gli studi di composizione si svolsero in Conservatorio a Milano. Castiglioni vi entrò nel 1946, nella classe di Ettore Desderi; fra i suoi compagni si può citare Franco Donatoni, e fra gli insegnanti Salvatore Quasimodo, all’epoca docente di letteratura italiana. Seguì, nel 1950-51, un anno nella classe di Giorgio Federico Ghedini (poi direttore del Conservatorio): fra i compagni di classe ebbe stavolta Luciano Berio, ormai diplomando. L’insegnamento di Ghedini contribuì a sviluppare in Castiglioni un interesse vivissimo nei confronti di alcune epoche della storia della musica, in particolare le più antiche. «L’interessante consiste nel modo con cui un Monteverdi o un Frescobaldi venivano studiati. [...] Le autorità del passato, invece che come esempio di un ordine inteso in senso puramente convenzionale, dogmatico e astratto, venivano evocate come manifestazioni di fantasia» (Castiglioni, 1964a, pp. 226 s.). Infine, per il biennio conclusivo 1951-1953, Castiglioni fu allievo nella classe di Sandro Fuga.
A proposito delle sue composizioni di quegli anni, Castiglioni parlò più tardi di un’«imperterrita fede stravinskiana» (in Cresti, 1991, p. 11), condivisa fra gli altri con Paolo Castaldi, come lui studente nell’istituto milanese in quegli anni. Solo a corso di composizione completato si svolse (abbastanza rapidamente) il percorso di assimilazione della composizione con dodici note e della serialità. Del 1954 sono i Quattro canti per pianoforte, primo lavoro dodecafonico; dello stesso anno i Tre studi, sempre per pianoforte, esempio di serialità integrale.
In parallelo, Castiglioni portò avanti lo studio del pianoforte. Preparò il diploma privatamente con Gemma e Lidia Kirpitscheff-Zambelli, esuli russe uscite dalla scuola di Prokof’ev. Si diplomò nel 1952, e negli anni a seguire frequentò corsi di perfezionamento di Friedrich Gulda e Carlo Zecchi al Mozarteum di Salisburgo.
Fece i primi passi da pianista in pubblico nell’ambito di varie associazioni milanesi: Angelicum, Famiglia artistica, Ambrosianeum, Centro culturale Pirelli. Si esibì più avanti in altre città, come Trieste, Roma, Berna. Il suo repertorio in quegli anni comprendeva fra l’altro la Terza sonata di Brahms, gli Studi sinfonici di Schumann, la Suite di Bartók, i Drei Klavierstücke op. 11 di Schönberg, la Sonata di Berg, le Variazioni di Webern, la Prima sonata di Boulez, musiche proprie e d’altri giovani compositori, fra cui Castaldi. Dal 1957 in poi, col graduale infittirsi degli impegni di compositore, si fecero via via più radi quelli pianistici. Castiglioni divenne così un compositore che spesso e volentieri si sedeva al pianoforte a interpretare musiche proprie. In effetti, proprio cogliendolo in questa veste, successive registrazioni testimoniano il suo brillante approccio allo strumento.
Nel percorso del Castiglioni compositore, parte della produzione alla metà degli anni Cinquanta mostra punti di contatto con una riflessione allora ampiamente condivisa sull’impegno civile: l’engagement, per dirla col lessico di allora. Questa riflessione culminò fra il 1954 e il 1955 nella composizione di un’opera su Uomini e no, un testo cardine di Elio Vittorini (il libretto era del figlio dello scrittore, Giusto). Nel progettarla, il compositore prese a prestito dalle due opere di Berg, Wozzeck e Lulu, l’idea di associare a ciascun episodio del dramma una forma musicale differente, scegliendola da un repertorio condiviso: contrappunto, invenzione, canone, aria, recitativo e così via. Nel progetto originario compariva anche una Monoritmica alla maniera di Lulu (atto I, scena 2, n. 13): la circostanza conferma un certo qual influsso poetico berghiano. L’opera, programmata dapprima al teatro delle Novità di Bergamo per l’autunno 1957, non fu poi allestita. (La corrispondenza rimasta, in particolare con l’editore Suvini Zerboni, suggerisce che le perplessità suscitate dalla scelta del soggetto non fossero estranee alla mancata rappresentazione dell’opera.) Un’altra via percorsa per breve tratto da Castiglioni, ma importante per le tracce che lasciò nella produzione successiva, è la particolarissima esperienza del biennio 1956-1957, a metà fra postromanticismo ed espressionismo. In particolare nelle due Sinfonie, Mahler e Berg sono chiarissimi punti di riferimento: cantabilità tesa, uso di ritmi di marcia e altri ‘vocaboli’ mahleriani in funzione straniante, drammaticità dei processi di accumulazione e dei punti culminanti.
Negli anni successivi Castiglioni fece in modo di disinnescare questo potenziale espressivo così acceso. Già nei tardi anni Cinquanta, a controbattere la tentazione di un linguaggio troppo esplicito, Castiglioni si trovò a usare in sede saggistica i termini ‘pudore’, ‘stile’, ma anche ‘igiene’, ‘pulizia della coscienza’, ‘buon gusto’ ed ‘educazione’. Nel suo linguaggio musicale più tipico, dagli anni Settanta in poi, quelle tensioni sono per lo più abolite, a favore di un mondo di immagini disincarnate, a tratti fiabesche, naïf. Eppure, e qui sta uno dei nuclei fondanti del pensiero del compositore, quel potenziale espressivo, tormentato e irrisolto, restò sempre per Castiglioni un polo possibile del far musica, tentazione perenne a cui non di rado gli accadde di cedere, dando luogo a esiti fra i più interessanti.
La carriera di Castiglioni conobbe dapprima successi italiani, per esempio la presenza di Canti per orchestra da camera (1956) nella prima stagione degli Incontri musicali di Berio e Maderna, nel maggio 1957 a Milano. Poi ebbe un punto di snodo importante negli Internationale Ferienkurse für neue Musik di Darmstadt: nel 1958 Castiglioni vi eseguì il proprio Inizio di movimento per pianoforte, e l’anno dopo tornò con un brano più ampio e impegnativo, Cangianti, che divenne poi una delle sue pagine più note.
Gli anni 1959-1960 furono decisivi, anche per il consolidamento della notorietà internazionale di Castiglioni. Nel 1959 la sua strada s’incrociò di nuovo con gli Incontri musicali, stavolta con Movimento continuato per ensemble (1958-59), diretto da Pierre Boulez; e nell’autunno gli Impromptus 1-4 per orchestra (1957-58) furono diretti da Bruno Maderna al Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia. Nel 1960 il festival della Società internazionale di musica contemporanea ospitò a Colonia la ’prima’ di Aprèslude per orchestra (1959): fu uno dei successi più luminosi nel percorso del compositore. E poi, lo stesso anno, Tropi per ensemble (1959) fu ai Donaueschinger Musiktage, e Eine kleine Weihnachtsmusik (1960) di nuovo al festival di Venezia. Nel 1961 l’opera radiofonica Attraverso lo specchio, composta in quello stesso anno (libretto di Alberto Ca’ Zorzi Noventa da Lewis Carroll),vinse il Premio Italia; del 1962 è la ‘prima’ a Darmstadt di Consonante, commissionato per la serata di chiusura del festival.
A partire dai tardi anni Cinquanta il linguaggio musicale di Castiglioni esibisce un impiego maturo e fantasioso delle tecniche seriali. Fa il suo corso quell’opera di ‘disinnesco’ espressivo testé menzionata, fino al caso limite di Eine kleine Weihnachtsmusik: pianissimo quasi assoluto, giungendo a un continuo sussurro, fatto di lievi tappeti sonori e delicatissimi arabeschi.
Da lì prendono il via le singolari vicissitudini della musica di Castiglioni negli anni Sessanta. Si attua un nuovo e progressivo mutamento stilistico: attraverso Rondels (1960-61), Décors (1962), Concerto (1963), Synchromie (1963), Caractères (1964), Figure (1965), Ode (1966) la scrittura musicale ritrova per così dire il suo corpo. In un testo inedito del 1963, Petite poétique solennelle, Castiglioni parla della necessità di ritrovare «spessore e solidità» (Castiglioni, 1963, inedito).
Il mutamento continua e nella seconda metà del decennio porta a esiti musicali che difficilmente si sarebbero potuti prevedere anche solo pochi anni prima: citazioni effettive (da Byrd, Mozart, Chopin, Gershwin) o immaginarie; ricreazioni di marce, fanfare e danze barocche; e soprattutto aspetti gestuali e pseudoteatrali che avvicinano le partiture a talune sperimentazioni nel campo della performance condivise da correnti musicali e artistiche negli anni Sessanta.
Al termine di Sweet, opera in un atto per voce di basso e ensemble su libretto dello stesso Castiglioni (1967), il cantante «lancia un aquilone verso il pubblico», senza che il significato di questo gesto possa essere dedotto dal contesto. In Masques per ensemble (1966-67), i musicisti talvolta cantano, altre volte si pongono fuori scena e suonano (quasi) ciò che vogliono (quasi) quando vogliono; il termine del pezzo, dopo un fuggifuggi generale dei musicisti, è suggellato da una Sinfonia in Do maggiore suonata dietro le quinte.
Anche quest’ultimo aspetto – il recupero di oggetti tonali – è tipico di questo periodo; spesso si tratta più specificamente di vocaboli della tonalità di Do maggiore (non a caso Castiglioni nel 1968-69 scrisse una Symphony in C). A tal proposito, occorre distinguere fra l’uso di singoli vocaboli desunti dal sistema tonale e il ripristino di una vera e propria sintassi. Nella produzione di Castiglioni prevalse la prima possibilità: «Uso anche stilemi tonali, è vero, ma per gioco e paradosso: come se dicessi: guardate! Là c’è un toro che vola!» (in Cavallotti, 1982, p. 18).
Fino agli anni Sessanta Castiglioni visse a Milano: dapprima nella casa di famiglia in via Hajech (con l’eccezione di un periodo durante la guerra, in cui tutta la famiglia sfollò a Merate), poi dal 1963 in un appartamento in via Nazario Sauro. Fra il 1966 e il 1970 visse invece in America: prima fu composer-in-residence alla SUNY di Buffalo, poi visiting professor alla University of Michigan ad Ann Arbor, quindi regent lecturer alla University of California a San Diego, infine insegnò storia della musica rinascimentale alla University of Washington a Seattle.
Sul finire del decennio si manifestò un grave crollo nervoso, in concomitanza con la notizia della morte del padre (1968). La fragile psiche di Castiglioni aveva già conosciuto momenti di difficoltà, e altri ne sopraggiunsero nei decenni a seguire. La circostanza ha il suo rilievo, alla luce del carattere fortemente atipico della musica di Castiglioni, che spesso nei suoi nessi musicali sembrò mimare processi di rimozione e trasfigurazione del vissuto tragico. Va altresì menzionato il carattere schivo di Castiglioni che, unito alle sue singolarità poetiche, fece di lui una figura isolata. È vero che, come si è visto, agli inizi la sua carriera conobbe aspetti pubblici e d’immagine perseguiti anche con una certa determinazione; dagli anni Settanta in poi, tuttavia, il rapporto di Castiglioni con l’ufficialità mutò. Non mancò una diffusione internazionale della sua musica, e basti citare a questo proposito l’impegno di Esa-Pekka Salonen, che nel 1986 diresse Sinfonia con giardino (1977-78) a New York; eppure, in vita e ancor di più in morte, la diffusione della musica di Castiglioni risentì talvolta di questo suo atteggiamento, lontano dalle logiche del successo e del riconoscimento.
Altrettanto schivo fu il percorso di Castiglioni nei conservatori italiani. Nel 1976-1977 fu docente al Conservatorio di Trento, poi fino al 1989 a Milano, quindi una parentesi di due anni a Como e dal 1991 alla morte di nuovo a Milano. Fra i musicisti che studiarono con lui per periodi più o meno lunghi si ricordano Roberto Abbado, Esa-Pekka Salonen, Stefano Gervasoni, Carlo Galante, Carlo Boccadoro. Castiglioni non diede luogo a una vera e propria scuola compositiva: il suo insegnamento, del tutto sui generis, fu tutt’altro che prescrittivo e non si diresse mai verso la condivisione esplicita di una poetica e di uno stile. Ciò non toglie che, attraverso il suo magistero, e in ambito più vasto attraverso la conoscenza della sua musica, su parecchi esponenti delle nuove generazioni quella lezione di visionaria chiarezza lasciò un’impronta.
Nel 1970 Castiglioni fece ritorno a Milano e si stabilì in via San Senatore. La composizione più importante del decennio a seguire, che inaugura una collaborazione stabile e, salvo minime eccezioni, esclusiva, con l’editore Ricordi, è Inverno in-ver, «undici poesie musicali per piccola orchestra» (1973, revisione 1978; ad onta del titolo la composizione non ha né testi né voci); in essa si manifestano i caratteri dello stile più caratteristico del compositore, che si sviluppò poi a partire da questo momento. «Inverno In-ver per me è una professione di fede!», dichiarò Castiglioni per lettera a Paolo Castaldi il 21 agosto 1993. Inverno «in-ver»: l’inverno veramente, per davvero.
L’inverno è la stagione del freddo, e nell’immaginario poetico del compositore il freddo ebbe un valore incondizionatamente positivo. Innanzitutto come dato naturalistico, segno di quel luogo che Castiglioni più di ogni altro amò: la montagna. Ma anche da un punto di vista simbolico: freddo come limpidezza, chiarezza della visione, condizione in cui la verità delle cose sembra più vicina. E come purezza: «Purificami con issopo e sarò mondato; lavami e sarò più bianco della neve», recita il Salmo 50, che il compositore avrebbe poi messo in musica in Sette per soprano e piccola orchestra (1995).
In termini musicali, questa immagine si tradusse innanzitutto in un dato frequente in Castiglioni: l’impiego degli strumenti nel registro acuto e sovracuto. Associato ai suoni armonici degli archi, ciò diede spesso luogo a panorami raggelati: fra le pagine di Inverno in-ver spicca Il lago ghiacciato. In associazione con strumenti a tastiera e a percussione, si crearono le altrettanto tipiche ‘sonorità ruscellanti’.
È da segnalare un dato tecnico. Gran parte del materiale musicale di Inverno in-ver e del contemporaneo Arabeschi (1971-72, revisione 1978) è ricavato dalle note perno (soprattutto le toniche e le dominanti) di quattro tonalità in continuo intreccio: Mi maggiore, Mi minore, Mi bemolle maggiore, Mi bemolle minore (note simboliche e onnipresenti poi in tutta la sua produzione, il Mi, soprattutto, e il Mi bemolle). Il che non comporta un recupero della sintassi tonale, ma solo di alcuni suoi elementi (in questo caso in forma particolarmente ibrida). Il rapporto fra tratti linguistici derivati da composizione con dodici note e serialità e tratti che invece attingono a singoli aspetti del mondo tonale è una delle caratteristiche più originali di Castiglioni, lungo gran parte del suo percorso. Nell’ambito più vasto dell’evoluzione dei linguaggi del secondo Novecento è questo un punto quantomai significativo, segno di come certi limiti di complessità e saturazione dei parametri musicali tipici degli anni Cinquanta e Sessanta aspirassero a rovesciare sé stessi in una nuova ‘chiarezza’. La via di Castiglioni fu personalissima, ma in questo senso sembrò rispondere alle istanze di un’intera generazione.
Dal mondo del freddo, attraverso l’anello intermedio della purezza, si può giungere a una sfera poetica che per il compositore fu decisiva: la naïveté. Castiglioni, soprattutto da Inverno in-ver in poi, amò guardare le cose dalla prospettiva dell’infanzia. Questo dato determinò in lui un ancora crescente desiderio di semplicità, che spesso tradusse in tessiture particolarmente trasparenti o addirittura in espliciti modi bambineschi: canzoni, nenie, filastrocche, che spesso migrarono identiche a sé stesse da una composizione all’altra.
Fra fine anni Settanta e primi anni Ottanta, nella produzione di Castiglioni il mondo di immagini di Arabeschi e Inverno in-ver rimase costante, ma cominciò a cambiare di colore. Dal punto di vista tecnico, Castiglioni cominciò a costruire i propri arabeschi attingendo più liberamente dalle dodici note del totale cromatico: vuoi con procedimenti schiettamente dodecafonici, vuoi con altri almeno in apparenza più liberi.
Il suono perse l’ingrediente più morbido di Arabeschi e Inverno in-ver, a favore di tinte più preziose e talvolta spigolose. Uno strumento che alimentò questo particolare colore fu il clavicembalo, presente nella citata Sinfonia con giardino e in Beth (1979), Le favole di Esopo (1979), Salmo XIX (1979-80). Troviamo il clavicembalo anche in Oberon, the Fairy Prince (1980) e The Lords’ Masque (1980), due atti unici rispettivamente su testi di Ben Jonson e Thomas Campion che nel 1981 furono rappresentati alla Biennale di Venezia e replicati poi l’anno dopo all’Opera di Roma. La costante ricerca della sorpresa nella produzione di Castiglioni si manifestò anche nella scelta del soggetto per queste due opere, che fecero rivivere un genere teatrale del tutto dimenticato: il masque inglese seicentesco.
La produzione di Castiglioni si arricchì di numerosi brani orchestrali, con o senza strumenti solisti o voci: Le favole di Esopo, «oratorio per coro e orchestra» (1979); Zweihundertfünfzig Jahre, für den zweihundertfünfzig[st]en Geburtstag Haydens («250 anni, per il 250° anniversario di Haydn») per orchestra (1981); Cavatina per ottavino e orchestra (1981-82); Morceaux lyriques per oboe e orchestra (1982); Sacro concerto per soli, coro e orchestra (1982); Fiori di ghiaccio, «concerto per pianoforte e orchestra» (1982-83); Geistliches Lied per soprano e orchestra su una poesia popolare (1983).
La sensibilità timbrica di Castiglioni determinò un uso talvolta singolare delle risorse orchestrali. La scelta degli organici, in generale, fu indifferente alle convenzioni, e spesso anche a semplici considerazioni di praticità. Se uno strumento serve, allora c’è; se non serve, non c’è. Si veda ad esempio Fantasia concertata per pianoforte e orchestra (1991). Nella sezione dei fiati vi sono tre flauti, tre oboi e tre clarinetti, ma solo un fagotto. E manca una vera sezione di archi: a fare da contraltare ai fiati a tre c’è il solo quartetto d’archi in parti reali. In Fiori di ghiaccio sono impiegati otto violini primi, otto secondi, nessuna viola, nessun violoncello, nessun contrabbasso; in Perigordino (1990) e Quickly (1994), analogamente, solo violini (non è difficile mettere in rapporto questo sbilanciamento fonico col particolare penchant di Castiglioni per il registro acuto e sovracuto). Qualche caso della ‘non praticità’ di taluni organici di Castiglioni: in Sinfonia con rosignolo, un brano di circa venti minuti, il secondo e il terzo violoncello suonano in tutto tre note (in senso letterale, non metaforico). Per tacere di Cronaca del ducato di Urbino per sei percussionisti (1991), in cui la presenza di quattro set di campane, da utilizzare in un’unica sezione, un minuto di musica, destina l’esecuzione del brano a circostanze più che eccezionali.
Per quanto riguarda l’uso che Castiglioni fa di questi organici, va segnalata la predilezione per gli impasti a sezioni ‘pure’. I registri sono sempre scelti con chiara funzione simbolica e per lo più si trovano in confronto dialettico. Talvolta la scelta e l’accostamento dei colori è fatta in totale candore: un esempio fra tanti è Confusione notturna, da Risognanze per ensemble (1989), dove l’immagine dettata dal titolo suggerisce senza troppi filtri un temerario impasto di contrabbasso e pianoforte verticale, arpa e armonio utilizzati solo nel registro più grave.
L’ultimo grande brano per orchestra dei primi anni Ottanta, in cui Castiglioni cedette anche alla tentazione di modi espressivi più drammatici ed espliciti, fu il Concerto per tre pianoforti e orchestra (1983). Ad esso seguì un moto di sostanziale autocensura – del citato Concerto fu addirittura sospesa la pubblicazione – che indusse Castiglioni a praticare forme e organici più ridotti. Si fece più frequente la riflessione sul concetto di humilitas nei suoi scritti del periodo, per lo più non destinati alla pubblicazione (in particolare Il canto ritrovato e L’anima canterina, entrambi del 1985). «Il più piccolo fiorellino di montagna è più poetico della rosa di Ronsard. E il fiorellino montano non ha bisogno di rivaleggiare con la flora artificiale di un giardino parnassiano» (Castiglioni, 1985a).
Una dichiarazione d’intenti, fin dal titolo, è Small is beautiful per orchestra (1983). L’organico non è del tutto ‘umile’, ma lo è il suo impiego, in termini sia orchestrali sia poetico-musicali, giustapponendo brevi variazioni che spesso esplorano sottoinsiemi dell’orchestra, e soprattutto estromettendo qualunque tentazione di tono drammatico. Negli anni a seguire si incontrano casi di organici minuti e forme di piccole o piccolissime dimensioni: Dulce refrigerium, «sechs geistliche Lieder für Klavier» (il sottotitolo è espresso in tedesco, adottando una lingua che da Castiglioni fu sempre amatissima, ma è a sua volta evasivo, giacché sottace la circostanza che si tratta di Lieder ohne Worte, senza parole) (1984), Rima per oboe e pianoforte (1984), Wie ein Hirschlein in den Auen per coro femminile e strumenti su testo popolare (1984), la Sonatina per pianoforte (1984), l’Andantino dolcissimo per pianoforte a 4 mani (pubblicato nel 1985) e un Preludio, corale e fuga per organo (1983-85).
Un brano simbolo del tono naïf, che in quel caso si fa assoluto, è Come io passo l’estate, «suite per pianisti principianti» (1983) ispirata alla Val di Tires, luogo assiduamente frequentato dal compositore. La copertina che Castiglioni disegnò per la partitura, con un’immagine della valle incorniciata da decorazioni a tinte pastello, è il commento più efficace al linguaggio musicale di queste pagine, che talvolta fanno ampio ricorso ai nessi tonali, e pure in assenza di tali nessi esibiscono strutture musicali di una semplicità disarmante.
Il già evocato rapporto fra Castiglioni e le linee evolutive generali del linguaggio musicale nel secondo Novecento arriva qui a un caso limite: la musica di Castiglioni della metà degli anni Ottanta risolve il tema della complessità ribaltandolo esattamente nel suo opposto, per la via personalissima della prospettiva infantile. Un’analoga ansia di semplicità delle strutture ha connotato parte delle generazioni a seguire, sia sul versante cosiddetto neoromantico, sia in esperienze diverse che si collocano all’ombra della ricerca più intransigente, sia infine in più corrive esperienze di contaminazione, addirittura assimilabili al pop. Sganciata come fu da qualsiasi logica commerciale, la soluzione di Castiglioni si distacca evidentemente da queste ultime esperienze ma mostra (almeno con le altre) una possibile fonte comune: la reazione alla linea evolutiva derivante dalle nuove avanguardie e al feticismo del metodo e della complessità.
A metà degli anni Ottanta Castiglioni prese casa a Bressanone (o meglio Brixen: il compositore ne parlava rigorosamente alla tedesca, per via della propria predilezione linguistica), dove cominciò a trascorrere lunghi periodi. Nella presentazione di Sinfonia con rosignolo (1989) Castiglioni parlò del «tripudio spirituale che sorge nel cuore a chi, come me, ha la grande fortuna di vivere nel Trentino-Alto Adige» (Alberti, 2012, p. 179). In una lettera (senza data) all’amico Paolo Castaldi il compositore scrisse: «Se sapessi come è CALDO il Natale di Bressanone. È l’allegria delle vetrate della chiesa, tutte colorate e belle, niente a che fare con il consumismo del vetro dietro al quale è esposta la pelliccia».
Tra i Bastioni minori e i Portici minori di Bressanone corre una breve galleria, che attraversa l'isolato. A metà della galleria, a destra si salivano tre gradini, si apriva il cancelletto di ferro battuto, si saliva al secondo piano e si era nel rifugio di Castiglioni. Lì il suo pianoforte a muro, ora donato alla parrocchia di S. Michele. E pochissimo altro, nel segno della humilitas: il suo appartamento nel piccolo centro altoatesino incarnò lo spirito più spartano, essendo privo non solo della maggior parte delle comodità, ma anche di buona parte del necessario. Mottetto per soprano e orchestra su testo tratto dal Piccolo libro d’ore, datato «Brixen, 15 agosto 1987», fu il primo di una lunga serie di pezzi scritti in quel vero e proprio rifugio di pace e creatività. Seguirono Märchen, Traum und Legende per orchestra (1987-88), Conductus per orchestra (1988), Auf der Suche nach einem frischen Wind per flauto, soprano e pianoforte (1988), dopo di che e fino all’ultimo il nome della cittadina sarebbe comparso sulle pagine della maggior parte delle composizioni di Castiglioni.
Per parlare dello stile musicale degli ultimi dieci anni è utile approfittare di una metafora impiegata dallo stesso Castiglioni: «È come un tram che procede su una triplice rotaia» (videointervista a cura di Luigi Pestalozza, 1995). Il compositore identificò nella propria produzione tre binari che distinse in «limpido», «espressivo» e «giocoso»: e non di rado, evidentemente, furono in lui strettamente intrecciati (si pensi per esempio a come si legano la limpidezza di un «lago ghiacciato» e la giocosità di una «danza invernale» o di un «salterello», altrettanti titoli di singoli brani in Inverno in-ver).
A più riprese, nelle sue personalissime ‘classifiche’, Castiglioni confessò la propria predilezione per il binario limpido, legato a prevalenti scelte timbriche e di registro: «una ricerca di suoni lindi e chiari simili a belle posate e belle porcellane» (Castiglioni, 1985b).
Per il binario espressivo, Castiglioni andò a cercare le radici esplicitamente nella cosiddetta Seconda Scuola di Vienna. Nei suoi testi e in un’ampia intervista video, il compositore rintracciò in Schönberg, Berg e Webern specifici valori di espressività; nel caso di Webern, diede questa lettura prendendo le distanze dall’interpretazione più ‘rigorosa’ e strutturalista ch’era stata delle avanguardie. «Io insisto soprattutto su questa parola, sul lirismo [...] c’è sempre in lui un palpito di grande emozione lirica, che secondo me non va travisato» (così nella citata videointervista del 1995). La condizione espressiva, bandita dalla superficie di tante pagine di Castiglioni, è una condizione a cui si avvicinarono altrettante altre, più o meno senza interruzioni dagli anni Ottanta in poi. Da questo punto di vista una composizione paradigmatica è Momenti musicali per sette strumenti (1991).
«E poi, in ultimo, una terza linea in cui ho lavorato spesso è una linea più giocosa, con frizzi di humour» (ibid.). Il senso dell’umorismo di Castiglioni, caratteristico del «binario giocoso», fu del tutto insolito e surreale; oltre che paradossale, amava farsi imperscrutabile, virtualmente indistinguibile dalla riflessione seria. All’inizio del terzo movimento di Capriccio (1991) il direttore dà l’attacco e, con meraviglia divertita dell’ascoltatore, ciò che si ascolta è Mozart: il celebre terzo movimento (Alla turca) della Sonata in La maggiore K. 331, precisamente il tema di marcia in La maggiore. Dettaglio: a suonare questo tema è il contrabbasso. L’effetto può forse essere paragonato a quello del contrabbasso che nel Carnevale degli animali di Saint-Saëns si trasforma in elefante e prova a ballare la leggera Danza delle silfidi di Berlioz. Altro esempio macroscopico ne offrono le Sinfonie a due voci per contrabbasso e voce di contralto, del 1990. All’attacco del quinto pezzo, anziché una poesia di Trakl, un passo di Dante o simili, la voce intona: «Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa».
Ma anche in assenza di citazioni e accostamenti spaesanti, il binario giocoso s’incarna nel tono e nelle figure musicali. Il passo dal naïf al comico è spesso brevissimo, e rientra in questa propensione anche il caratteristico uso di una firma musicale, in chiusura (ma non solo) di numerose composizioni. Essa fa la sua prima importante apparizione molti anni prima, nel 1959 al termine di Tropi: ottavino solo, registro sovracuto, tempo abbastanza rapido, tre note staccate a distanza regolare – La, La, Fa diesis. Il tono è vivace, ironico, dispettoso, e all’ascolto la figura musicale suona esattamente come fosse ‘Nic-co-lò’. Identica, se si pronuncia questo nome, è la curva dell’intonazione: due sillabe più in alto, la terza più in basso.
Degli inizi degli anni Novanta è uno dei lavori maggiori di Castiglioni: Cantus planus in due parti (1990-91) di dodici brani l’una. Quest’opera dà l’occasione di additare la componente religiosa e mistica nell’ispirazione del compositore. I 24 testi – altrettanti distici (Reimsprüche) dal Cherubinischer Wandersmann del mistico slesiano Angelus Silesius (alias Johannes Scheffler, 1624-1677) – evocano con particolare intensità il momento della visione. L’unione dell’uomo con Dio è il tema dei due distici che concludono la prima e la seconda parte: in traduzione italiana, «Non può esistere in eterno suono più bello / del cuore dell’uomo all’unisono con Dio» e «Con Dio esser unito godendo del suo bacio / è meglio che saper molto senza il suo amore». Castiglioni li musica entrambi per intero con triadi maggiori (senza relazioni tonali fra loro): la consonanza fra uomo e Dio diventa simbolicamente la consonanza particolarissima fra le note di una triade.
La visione, culmine dell’esperienza mistica, si traduce in alcuni luoghi dell’opera di Castiglioni in una totale immobilità del tempo musicale. Questo esito paradossale viene raggiunto in alcune pagine ripetendo una stessa figura, o un semplice accordo, per durate anche molto lunghe, arrivando così a sospendere una normale percezione dello scorrimento del tempo: il caso limite è He (1990) per pianoforte, dove il passo 'immobile' dura quasi tre interminabili minuti, in un pezzo che nell’insieme non supera i sette.
Retrospettivamente, e in considerazione dell’importanza che per l’uomo Castiglioni ebbe l’aspetto religioso, si può mettere in relazione quest’ultimo con altri tratti della sua poetica musicale. Non ultimo, quello naïf: «La saggezza sta volentieri dove stanno i suoi bambini. / Perché? Meraviglia! È essa stessa un bambino», recita un distico Cantus planus (parte II, n. 6).
Dalla fine degli anni Ottanta in poi crebbe grandemente nella produzione di Castiglioni il numero di composizioni a tema sacro: Hymne per coro a cappella sul testo dello Stabat mater speciosa (1988-89), Missa brevis (1993) per coro misto a quattro voci e sei strumenti (ma anche in una seconda versione con il solo organo, «ad uso degli ostrogoti di Milano»: il sarcasmo si riferisce alle norme in materia di musica liturgica allora in vigore nella diocesi di Milano, assai restrittive), Liedlein per coro di voci bianche e strumenti su testi di Edith Stein (1991 e due anni dopo in una seconda versione per coro femminile e piccola orchestra), Terzina per voce di contralto e otto strumenti su testi mistici di Gerhard Tersteegen (1992, l’anno dopo in una versione per soprano) e Stabat mater per coro maschile e strumenti (1992). Infine, nel 1993-94, la più ampia delle opere su testo religioso: Les Harmonies per soprano leggero e orchestra, che mette in musica un unico distico di Silesius nei brani vocali che costellano l’ampia composizione (articolata in complessivi 18 brani): «Tutto muove il sole, tutte le stelle fa danzare. / Se non sei tu pure mosso, non appartieni al tutto».
Le ultimissime composizioni fanno riferimento in vari modi, spesso fin dal titolo, al tema del canto: un Canto vero e proprio (1996, testo di san Bernardo di Chiaravalle); un Gesang (1995-96, Friedrich Hölderlin); delle «canzoni per coro misto» (La bella estate, 1995, parole di Castiglioni medesimo e Luciano Tomelleri); un Trostlied (1994, Georg Trakl) e un Abendlied (1995, Joseph Victor von Scheffel), «canto di consolazione» e «canto della sera»; un In canto (1994-95, Silvio Pellico) che contamina il concetto col gioco di parole; e Sette per voce e orchestra (1995, dal Libro dei Salmi).
Il percorso del compositore si concluse nel 1996 con le Undici danze per la bella Verena (nome di una ragazza brissense, ulteriore legame con la cittadina tirolese) per violino e pianoforte. Il finale della composizione ha qualcosa di non convenzionale per la prassi di Castiglioni, non adusa alle scordature degli strumenti e nemmeno incline al versante performativo (dagli anni Settanta in poi, dopo le audacie in tal senso del decennio precedente): al violinista, a pezzo apparentemente concluso, è chiesto di abbassare di un semitono l’intonazione della prima corda e quindi, dopo una pausa protratta, di suonare un ultimo accordo.
Morì a Milano, per un attacco d’asma, nella notte fra il 6 e il 7 settembre 1996, poche ore dopo aver consegnato le Undici danze all’editore. Celibe, non ebbe prole. Il lascito è conservato in parte nell’Archivio Niccolò Castiglioni della Fondazione Giorgio Cini di Venezia (corrispondenza e manoscritti), in parte nel Conservatorio di Milano (materiale a stampa da lui posseduto).
Tra i principali scritti di Niccolò Castiglione:Il significato storico del melodramma nella prima metà del Seicento, in La rassegna musicale, XXVI, 1956, pp. 196-203; Obiettivi e limiti dell’analisi musicale, in Musica d’oggi, n.s. I (1958), pp. 226-228; Il valore del silenzio e della durata nel linguaggio musicale contemporaneo, in Aut aut, 1958, n. 46, pp. 196-202; Debussy o del ritorno “zu den Tönen selbst”, in Aut aut, 1959, n. 50, pp. 96-104; Il linguaggio musicale dal Rinascimento a oggi, Milano 1959; Sul “Complexus effectum musices” di Johannes Tinctoris, in Rivista di estetica, IV (1959), pp. 94-105; Sul rapporto tra parola e musica nella seconda cantata di Webern, in Incontri musicali, 1959, n. 3, pp. 112-127; Problemi di metodo critico, in La rassegna musicale, XXIX (1959), pp. 247-256; Del gusto e della libertà, in La rassegna musicale, XXX (1960), pp. 350-358; Gli scritti di Haydn, in L’approdo musicale, 1960, n. 11, pp. 73-81; Gli “Internationale Ferienkurse für neue Musik” di Darmstadt nel 1961, ibid., 1961, n. 13, pp. 195-201 (ripubblicato in G. Borio, H. Danuser, Im Zenit der Moderne, III, Freiburg im Breisgau 1997, pp. 493-500; e in C’erano una volta nove oscillatori. Lo Studio di Fonologia della RAI di Milano nello sviluppo della Nuova Musica in Italia, a cura di P. Donati, E. Pacetti, Roma 2002, pp. 35-42); Musica: simbolo e civiltà, in La rassegna musicale, XXXI (1961), pp. 122-126; Eteronomia dell’esperienza musicale, ibid., pp. 457 s.; Petite poétique solennelle, 1963, inedito; Prefazione ad A. Webern, Verso la nuova musica, Milano 1963, pp. 5-12; [Intervento in memoria di Giorgio Federico Ghedini], in Conservatorio di musica G. Verdi Milano. Annuario 1963-1964, Milano 1964a, pp. 226 s.; Intenzionalità poetica e linguaggio musicale, in Aut aut, 1964b, nn. 79-80, pp. 86-90; An jedem Tag der Woche zu spielen, in Melos, XXXV (1968), pp. 57-59; Cage, il barometro, in John Cage, dopo di me il silenzio (?), a cura di F. Mongi, Milano 1978, pp. 135-137; Introduzione all’esperienza musicale contemporanea, in M. Mollia, Autobiografia della musica contemporanea, Cosenza 1979, pp. 32-35; L’anima canterina, 1985a, inedito; Fragile. Resoconto minimo di un minimo compositore. 1952-1985, 1985b, inedito; Autobiografia, in R. Cresti, Linguaggio musicale di N. C., Milano 1991, pp. 9-14.
Schede di Castiglioni su singole opere sono raccolte in N. C., 1932-1996, Milano 2005, catalogo ragionato e commentato delle opere pubblicate da Ricordi. Un’altra importante fonte diretta è il video dell’incontro di Luigi Pestalozza con Castiglioni a Reggio Emilia, teatro Valli, per la serie La musica in Italia dal 1945 a oggi: un archivio vivente, 1995, in collaborazione con la rivista Musica/Realtà.
Monografie critiche: R. Cresti, Linguaggio musicale di N. C., Milano 1991; A. Alberti, N. C. 1950-1966, Lucca 2006; Id., La rosa è senza perché. N. C. 1966-1996, Lucca 2012.Saggi critici: L. Pestalozza, I compositori milanesi del dopoguerra, in La rassegna musicale, XXVII (1957), pp. 27-43; M. Bortolotto, Fase seconda. Studi sulla nuova musica, Torino 1969, pp. 149-169, 265-267; E. Cavallotti, N. C.: abbasso Puccini!, in Il Tempo, 23 aprile 1982; R. Zanetti, La musica italiana nel Novecento, III, Busto Arsizio 1985, pp. 1472-1477; T. Geraci, Un compositore italiano di fronte alle istanze di Darmstadt: gli scritto di N. C. tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Musica/Realtà, 1989, n. 28, pp. 41-56; G. Zàccaro, I temi dell’innocenza: studio su N. C., in Eunomio, 1989-1990, n. 16, pp. 12-19; F. Poletti, Cangiante. La musica da camera di N. C., in Sonus, 1996, n. 16, pp. 66-82; P. Castaldi, Ricordo di N. C., in Nuova rivista musicale italiana, XXXIII (1999), pp. 7-15; L. Mosca, Sul candore eretico di N. C., in Storia del candore, a cura di G. Morelli, Firenze 2001, pp. 213-220; A. Alberti, “Uomini e no” di N. C., un’opera engagée che non arrivò sulle scene, in Rivista italiana di musicologia, XXXIX (2004), pp. 329-360; C. Vendrasco, N. C.: 1958-1959, in Musica/Realtà, 2006, n. 76, pp. 89-103; Didascalicità del moderno: “Attraverso lo specchio” di N. C. / The didascalic potential of modernity: N. C.’s “Attraverso lo specchio”, in L’immaginazione in ascolto - Prix Italia - Il Premio Italia e la sperimentazione radiofonica, a cura di A.I. De Benedictis, M.M. Novati, Milano 2012, pp. 11-24 e 203-216 (trad. inglese), in forma estesa in Musica/Realtà, 2014, n. 103, pp. 73-130.
Foto: Niccolò Castiglioni in una foto scattata in occasione della pubblicazione del libro Linguaggio musicale di Niccolò Castiglioni di Renzo Cresti - Milano 1991