COSCIA, Niccolò
Nacque nel 1681 da Vincenzo e da Gerolama Gemma a Pietradefusi (Avellino), dove fu battezzato il 25 gennaio con i nomi di Nicola, Paolo e Andrea.
Non si sa che mestiere esercitasse il padre, di cui di volta in volta si disse che aveva la funzione "di governare la terra libera di Pietradefusi", che fosse barbiere, e più frequentemente che fosse invece un pittore non affermato; benché non sia mancato chi abbia sostenuto, nel periodo della sua disgrazia, che il C. fosse bastardo, facendo anche il nome del padre naturale, un certo arciprete lannillo. Ad ogni, modo quando Vincenzo testò il 14 ott. 174, escludendo dall'eredità le figlie femmine, aveva qualche bene da lasciare ai tre figli maschi e quando morì, nel 1725, l'arcivescovo di Fermo, Alessandro Borgia, lo definì conte.
Dal borgo natio lo trasse, ancora ragazzo, l'allora arcivescovo di Benevento, V. M. Orsini, che vi si era recato per una delle sue visite apostoliche. Avviato alla vita ecclesiastica, il C. ricevette la prima tonsura nel maggio del 1696. Da allora la sua carriera procedette con rapidità e senza interruzioni, né mai più, finché visse, gli mancò l'appoggio, la protezione e l'amore dell'Orsini, anche dopo la sua elevazione al papato. Dal 25 ag. 1701 al 20 ott. 1703 resse il mansionariato della metropolitana di Benevento. Da quest'ultima data al 13 apr. 1708 il C., divenuto prete il 28 marzo 1705, fu canonico della basilica di S. Bartolomeo, divenendo invece dall'aprile 1708 al gennaio 1724 canonico (e poi anche arciprete) della metropolitana. Nel frattempo, sempre dall'aprile del 1708 al 27 febbr. 1716 era stato cancelliere della curia arcivescovile e successivamente maestro di camera, sopraintendente alle fabbriche e segretario dell'Orsini. Il 30 marzo del 1715 egli si era addottorato in utroque alla Sapienza di Roma. I giudizi su queste sue attività, positivi o negativi che siano, sono tutti posteriori alla morte di Benedetto XIII. Di quest'ultimo il C. fu conclavista nel conclave del 1721 e in quello del 1724, che vide il suo innalzamento al soglio.
Quando si verificò quest'evento il papa non solo mantenne l'arcivescovato di Benevento, ma profondamente diffidente dell'ambiente della Curia, condusse con sé nell'Urbe buona parte della sua corte beneventana. Quale che fosse stato il comportamento del C. a Benevento, questo era stato meno clamorosamente stridente, rispetto all'ambiente che lo circondava, di quanto invece fu a Roma. Egli vendette cariche, accettò e sollecitò regali, ma quello che fu più violentemente offensivo nelle sue azioni e più in contrasto con la dignità cardinalizia (cui pervenne presto) fu la rozzezza con cui compì questi misfatti. In ogni modo egli, appena eletto Benedetto XIII, ottenne il 7 giugno 1724 la nomina a segretario dei Memoriali, carica quanto mai delicata, che lo teneva in stretto contatto con il papa, riservata altre volte al cardinal nepote. Né questo può meravigliare, poiché l'affetto dell'Orsini Per il C. aveva dimostrato di essere quanto mai tenace e acritico. Il 26 giugno il C. accedeva alla dignità vescovile, essendo nominato presule di Traianopoli in partibus ed era consacrato dallo stesso pontefice il 23 luglio. Il 29 genn. 1725 egli divenne assistente al soglio pontificio. Quando nel concistoro dell'11 giugno il papa comunicò la sua intenzione di elevarlo al cardinalato, si era già formata un'opposizione controdi lui e nove cardinali dettero voto contrario all'elezione. Tuttavia egli ottenne il cappello e il 23 luglio gli fu assegnato il titolo di S. Maria in Domnica. Il 5 settembre del medesimo anno il C. veniva dal pontefice nominato coadiutore dell'arcidiocesi beneventana con diritto di successione ed egli vi creava vicario il fratello Filippo, vescovo di Targa. Il 17 dicembre egli diveniva protettore dell'Ordine dei frati minori conventuali, come poi lo divenne dei gerosolimitani. Nel gennaio del 1726 era chiamato a far parte della Congregazione dell'Inquisizione e poco appresso gli veniva affidato dal papa l'incarico di compiere una visita apostolica nell'arcidiocesi di cui era coadiutore, che egli portò a termine dal febbraio al maggio, recandosi probabilmente nell'occasione anche a Napoli.
Non era il C. il solo beneventano che stava presso il papa. Si era venuta a formare un'intera cosca, da tutti indicata come "i beneventani", "de quali", dice il Valesio, "ve ne sono gran copia infinita" (Scatassa, p. 112). Anche Montesquieu li chiamò così, sostenendo: "ce sont les Bénéventins qui dirigent sa [di Benedetto XIII] faiblesse, et, comme ils sont gens de néant, ils avancent le gens de néant et reculent ceux qui seroient à portée". Si diceva che già nell'agosto del 1725 il C. avesse accumulato 2.000.000 di scudi. In contrasto con l'ascetismo del pontefice egli aveva arredato doviziosamente i suoi appartamenti in Vaticano, spogliando per questo gli appartamenti riservati ai principi. Chi aveva sostenuto che ci si sarebbe liberati di lui rinviandolo a Benevento con una pensione di 100 pistole, aveva dovuto ricredersi, perché egli aveva saldamente mantenuto il suo posto accanto all'Orsini, che trattava con estrema familiarità, rivolgendoglisi in dialetto. Benché fosse difficile avvicinare il papa, superando le barriere che ponevano a questo scopo "i beneventani", tuttavia qualcuno riusciva a denunciare al pontefice i sistemi del C., ma questo non serviva a scalzarlo dal suo cuore. Nel gennaio del 1727 si fornirono al papa le prove che il C. si era indebitamente appropriato di 11.000 scudi e si ottenne soltanto che Benedetto XIII glieli donasse con atto ufficiale. Questa voluta cecità del papa faceva sì che il C. giungesse ad appellarsi a lui se qualcuno, cui aveva venduto una carica o un benefizio, provava a non mantenere le promesse fatte per ottenerlo.
Esiste una tradizione storiografica locale che prende le difese del C. e che lo considera vittima di una reazione contro Benedetto XIII e i regnicoli, ma in genere tutta la storiografia è decisamente contro di lui, che considera l'artefice di tutti i mali che afflissero il pontificato di Benedetto XIII e il responsabile di ogni errore di quest'ultimo. Mentre si deve considerare vano il patetico tentativo della prima, non si può accettare però neanche l'atteggiamento della seconda, soltanto preoccupata della buona fama di Benedetto XIII. Al C. infatti questa tradizione attribuisce tre tipi di malefatte. Di aver venduto cariche e benefizi; e questo fu sufficientemente provato nel processo cui egli fu sottoposto, né la cosa avrebbe dovuto considerarsi altamente scandalosa, visto che era avvenuta frequentemente già in precedenza. Di aver poi depauperato le casse dell'erario e di aver condotto al passivo il bilancio dello Stato; ora, non solo questa accusa non è sufficientemente provata, ma in questo ambito sicuramente le sue responsabilità furono limitate, perché Benedetto XIII seguiva una politica economica e finanziaria ben precisa; anche se il maggiordomo C. Cibo condusse una lunga lotta, che finì per perdere, contro il C. per arrivare a una diminuzione delle spese del palazzo apostolico e anche se indubbiamente le attività scorrette del C. gravarono in qualche modo anche sulla Camera. La terza responsabilità che si attribuisce al C. è quella di errori politici commessi da Benedetto XIII, con riferimento in special modo alla questione del Tribunale della monarchia sicula e a quella sabauda, per le quali i veri e propri negoziatori si avvalsero dell'appoggio del C., nella misura in cui questo era necessario a chiunque volesse ottenere qualcosa dal papa.
Il 21 luglio 1725 Benedetto XIII aveva emanato un breve per richiamare i vescovi siciliani all'applicazione della bolla con cui Clemente XI aveva abolito il Tribunale della monarchia. Con un decreto del 5 dicembre Carlo VI aveva reagito a questo breve minacciosamente. Il papa fu a questo punto convinto a ricercare un compromesso con l'aiuto e i consigli, oltre che del cardinale A. Cienfuegos, anche del C., del cardinale F. Paolucci, segretario di Stato, e del cardinale N. Giudice, protettore della Sicilia. A costoro fu affiancato l'agente imperiale Pietro Perrelli, figlio di Domenico, amico del C., giudicato dal Giannone "uomo idiota e senza lettere", che invece rivelò molta abilità.
Durante il viaggio che Benedetto XIII compì a Benevento dal marzo al maggio 1727, egli, incitato sembra dal C. e dal Perrelli, scrisse ai vescovi siciliani una lettera che li invitava ad evitare urti con i funzionari civili, perché si era alla ricerca di un accordo. Anzi il 28aprile il C. scrisse da Benevento a N. M. Lercari, nuovo segretario di Stato e creatura sua, affmché scrivesse di nuovo ai vescovi siciliani accludendo nientedimeno una lettera imperiale. Al suo ritorno a Roma il papa fu affrontato dagli zelanti, che gli rimproveravano l'inopportunità della lettera ai vescovi siciliani ed il pontefice non seppe far altro che scrivere il 21giugno una seconda lettera ai vescovi che sconfessava la prima. Tuttavia la guerra delle missive papali non finì li, perché il Perrelli, pare con l'aiuto del C., riuscì ad ottenere dal papa un'ulteriore lettera, che annullando la seconda, ripristinava la prima.
Il testo del concordato che fu sottoposto nel marzo del 1728 ad una congregazione di cui faceva parte il C., era, si badi bene, il risultato di lunghe contrattazioni portate avanti dal cardinale P. Lambertini da Celestino Galiani, dal Perrelli e dal cardinale A. Cienfuegos. La responsabilità del C. quindi per il testo della bolla Fideli emanata il 30 ag. 1728 dal pontefice, che concedendo al sovrano l'istituzione di un giudice supremo dava modo a Carlo VI di istituire nuovamente il tribunale soppresso dalla bolla di Clemente XI, si limita in definitiva a non aver ostacolato le soluzioni prospettate da altri. Tanto è vero che uno dei più accaniti accusatori del C., il Pastor, sorvolando sul fatto che l'unico degli artefici non regnicoli o "imperiali" dell'accordo fosse il Lambertini, non può in fondo che incolpare il C. di aver conosciuto il testo dell'accordo prima che fosse ufficialmente sottoposto all'esame della congregazione.
Le controversie che avevano opposto Vittorio Amedeo II a Clemente XI vertevano sul regio patronato che il Savoia pretendeva sopra tutte le chiese dei suoi Stati, sulla lesa immunità ecclesiastica, sul dominio diretto di località in Piemonte e in Monferrato, che il papa sosteneva essere feudi della Chiesa. Angustiato soprattutto perché parecchi vescovati erano privi di presule, Benedetto XIII volle avviare una trattativa per cercare di risolvere le controversie e inviò presso il Savoia fra' Tommaso da Spoleto. Vittorio Amedeo II mandò invece a Roma Vincenzo Ferreri, marchese d'Ormea, che da ottimo diplomatico non curò soltanto la validità delle argomentazioni da sottoporre al papa, ma soprattutto le mosse psicologiche da porre in atto per conquistarselo. Nel giugno 1725riferì a Torino o di aver trovato nel Coscia uno strumento eccellente per i suoi scopi" (Pastor, XV, p. 524). Oltre a questo, pare che il C., dopo il riconoscimento di Vittorio Amedeo II come re di Sardegna del 9 dic. 1726, sia intervenuto per far sì che fosse il cardinale Lambertini a partecipare alle trattative che portarono alla risoluzione delle prime due controversie fra il Vaticano e il Savoia con la sottoscrizione dei concordati del 24 marzo e del 29 maggio 1727, che furono poi invalidati nel 1731da Clemente XII. Sembra che, come gli altri che si erano adoperati per la conclusione della vertenza, anche il C. ricevesse una ricompensa, ma è ignoto a quanto ammontasse.
Durante il pontificato di Benedetto XIII il C. compì parecchi viaggi nel Regno, a Benevento, dove si recò oltre al 1726 e al 1727, come già si è detto, anche nel 1729 (trattenendosi nel Regno fino a novembre) al seguito del papa che compì ivi una visita dal marzo al giugno, e a Napoli dove fu almeno due volte, accoltovi con molta deferenza dal viceré, cardinale M. F. d'Althan, che nel 1726 lo ospitò a palazzo reale e che lo onorò, quell'anno e in quello successivo, con pranzi ufficiali. Pare anzi che egli aspirasse adessere accolto nella nobiltà del seggio di Nido, ma, dopo essere stato ascritto dal 1722 al patriziato beneventano e nel medesimo 1727 a quello di Viterbo, il C., che nel 1729 sarebbe stato ascritto a quella di Ferrara, questa volta non vi riuscì.
Nell'estate del 1729, ammalatosi il papa, il C. entrò nello stato d'animo che avrebbe dovuto di lì a poco assaporare fino alla feccia e in grande agitazione cominciò ad inviare "robbe e pitture" a Benevento. Morto effettivamente, il 21 febbr. 1730, Benedetto XIII, il C. ebbe immediatamente la prova dell'ostilità che lo circondava. Il camerlengo, cardinale A. Albani, impose che tutti o i beneventani" lasciassero il palazzo vaticano e il C., inviata la sua roba in casa dell'amico marchese Abbiati al Corso, riuscì a sottrarsi al popolo tumultuante che sostava in piazza S. Pietro, nascondendosi in una portantina per ammalati. Diffusasi però la notizia della sua permanenza in casa dell'Abbiati, il palazzo fu attaccato e furono infranti dei vetri dai dimostranti, cosicché il C. lasciò segretamente la città e riparò a Cisterna presso M. Caetani, duca di Sermoneta.
Perché tutti gli aventi diritto potessero contribuire all'elezione del papa i cardinali capi d'Ordine scrissero il 27 febbraio al C. offrendogli ogni assistenza perché egli potesse entrare nel conclave, che ebbe inizio il 5 marzo. Nella lettera dei cardinali era anche inserito il suggerimento che egli lasciasse il governo di Avignone. Dopo qualche esitazione e reiterate richieste di indumenti ed altri beni fatti sigillare dai cardinali in Castel Sant'Angelo "sotto pretesto di sicurezza", il C. tornò a Roma, accompagnato dal Caetani, e prese alloggio per alcuni giorni nel convento di S. Maria in Traspontina, entrando in conclave il 4 aprile.
Si erano però già susseguiti due avvenimenti carichi di conseguenze per lui. Era cioè arrivato ai cardinali riuniti un memoriale anonimo da Benevento contro il C., che avrebbe dovuto divenire automaticamente arcivescovo della città. Nel libello, che si diceva compilato a nome del clero e del popolo, della città e diocesi di Benevento, si esponeva come negli ultimi anni fossero avvenuti "tanti e tanti abbusi e scandali e empietà... stupri... adulteri... sodomie e ogni più sfrenata lascivia... usure di ogni sorte... omicidi... infanticidii... falsificazione di monete... furti e rapine". Si chiedeva perciò che nella città fosse inviato "un autorevol ministro", che indagasse su quanto era avvenuto, affinché il futuro pontefice vi potesse eleggere un degno arcivescovo senza permettere che questi fosse il C. "causa principale e motore di tutti li mali suddetti". Cosicché prima della fine del mese di marzo i cardinali avevano inviato come commissario a Benevento monsignor Filippo Buondelmonte. Intanto il 4 aprile i canonici di Benevento, avuta notizia dell'invio del memoriale, si affrettavano a scrivere al C., sconfessando le accuse. Così facevano anche la nobiltà e il popolo. In effetti Cera a Benevento un partito che appoggiava il C. e un collaboratore del Buondelmonte confessava il 15 aprile: "Qui non si sono ritrovate le cose facili come si credevano. Li delitti, gli aggravi e le violenze ben si comprende che vi sono, ma non così piano n'è lo scuoprimento". Pur avendo dovuto rinunciare per le pressioni dei cardinali, il 10 aprile, al governo di Avignone, il C. asseriva di non essere odiato, ma amato e di essere piuttosto vittima di calunnie. Ma non era convincente e scoppiò all'interno del conclave uno scandalo che dette adito ad un vero e proprio caso, quando il 17 aprile il C. ebbe un voto.
Com'è noto, il 12 luglio fu eletto papa Lorenzo Corsini, che prese il nome di Clemente XII. Senza por tempo in mezzo questi, nell'agosto, istituì quattro congregazioni, tutte in un modo o nell'altro dirette a riparare quanto operato da o carpito a Benedetto XIII. La prima detta "De nonnullis", formata, in un primo momento da cinque cardinali, ai quali fu aggiunto prima il cardinal nepote, Neri Corsini e poi altri quattro porporati, doveva procedere ed arrivare quindi a rimedi legali contro quelle cose surrettiziamente estorte alla rettitudine e alla santa intenzione deldefunto pontefice, doveva cioè raccogliere le prove e incriminare i cosiddetti "beneventani", primo fra tutti il Coscia.
L'avviamento formale del processo contro di lui fu decretato da un motu proprio del 1º dicembre, mentre il C. cercava di mettersi sotto la protezione imperiale facendo innalzare leinsegne di Carlo VI sul suo palazzo e chiedendo al pontefice il permesso di allontanarsi daRoma per recarsi, per ragioni di salute, nel Regno. Otteneva soltanto l'autorizzazione a portarsi in qualsiasi località dello Stato della Chiesa. Mentre il papa inviava di nuovo monsignor Buondelmonte con il medesimo incarico a Benevento, il 20 dicembre il C. riceveva dalla Congregazione l'intimazione a rinunciare "absque excambio" all'arcivescovato.
È da notare che l'istruzione dei processo era segreta; pertanto la possibilità di difendersi del C. era affidata a lettere che egli scriveva al papa e che faceva stampare per diffonderle. In quella dei 29 dicembre il C. contestava la legittimità dell'invio a Benevento di un commissario, in quanto una qualsiasi ispezione nell'arcidiocesi doveva essere affidata a lui stesso, che se ne riteneva presule, e nel caso che l'ispezione fosse diretta proprio contro la sua persona - e sarebbe stato strano che essa fosse stata avviata dalla presentazione di un memoriale anonimo - il papa soltanto avrebbe potuto incaricarsi di condurla a termine. Altra ingiustizia ed irregolarità era quella di aver inviato un vicario, Giovanni da Nicastro, nell'arcidiocesi, quando ancora non erano state riconosciute le colpe del presule. Anche ingiusto era sia che si trattenessero i suoi mobili e la sua biblioteca ancora in Castello, sia che l'Inquisizione si intromettesse nell'istruzione del suo processo; egli infatti, sosteneva, non si era ingerito in materie di Stato, né aveva operato contro la religione o la S. Sede o contro il bene pubblico, anzi aveva sollecitato l'abolizione di gabelle. Seguivano alla lettera altre testimonianze favorevoli al C., che cercava così di organizzare la sua difesa. Si rese ben presto conto però che non sarebbe riuscito a resistere alla volontà del pontefice e obtorto collo rassegnò così la Chiesa di Benevento, il che provocò il ringraziamento ufficiale al papa dei consoli della città (30dic. 1730)e del capitolo metropolitano (13 genn. 1731).Del resto le accuse contro il C. si moltiplicavano. C'era stato almeno un altro memoriale, questa volta corredato di molte firme, che però a detta dei sostenitori del C., erano state almeno in parte estorte. Questi ultimi e dall'altra parte i denigratori mandavano a stampa le loro testimonianze e le loro argomentazioni; il C. stesso pubblicava una lettera in latino, seguita da una di Giuseppe Forziati, in cui egli protestava ancora una volta per aver dovuto lasciare la Chiesa di Benevento "nulla praevia citatione, nulla habita audientia".
A Benevento all'annuncio della rinuncia del C. all'arcivescovato, la folla si precipitò alla cattedrale e impadronitasi del campanile, dopo aver suonato a morto le campane, le suonò a stormo. Mentre le autorità ecclesiastiche incanalavano l'esultanza in manifestazioni religiose, si sigillarono gli appartamenti del C. e le proprietà che erano nel monastero di S. Vittorino. Anche nell'arcidiocesi, particolarmente a Fragnitello, feudo del C., si ebbero manifestazioni ostili al cardinale. A questo punto il timore del C. di perdere in breve termine la libertà divenne certezza, per cui si decise ad abbandonare il suo palazzo "ai Cesarini" e la città. Partì la sera del 31 marzo 1731 su un carrozzino insieme con il suo maggiordomo, conte Cutiello da Montefuscoli, e due uomini a cavallo. Segretamente attraversò lo Stato della Chiesa di posta in posta fino a Terracina; di lì passò nel Regno e da Fondi scrisse al viceré, L. T. d'Harrach, le ragioni che lo avevano indotto a lasciare Roma, chiedendo di essere ricevuto a Napoli e ponendosi sotto la protezione imperiale. Giunse a Napoli in gran segreto, tanto che il nunzio pontificio, l'arcivescovo di Nicosia R. F. Simonetti, non ne ebbe subito notizia e in seguito trovò difficili le indagini per rintracciarlo, poiché si era "tenuto del tutto occulto, senza parlare, né farsi vedere da alcuno".
La reazione del papa non tardò a sopravvenire e il 24 aprile nelle Literae executoriales della Congregazione "de nonnullis" era riportato il motu proprio del pontefice del giorno prima, con cui si affermava che il C. era incorso, secondo la costituzione di Innocenzo X, nella pena dell'interdetto e del sequestro dei beni, a causa del suo allontanamento dallo Stato della Chiesa senza il permesso dei papa. La venuta del C. a Napoli provocò un incidente fra le autorità pontificie e quella imperiale; infatti il nunzio, incaricato da Roma di indagare su chi avesse aiutato e trasportato il cardinale fin lì, provvide ad avviare le indagini senza curarsi di ottenere il regio exequatur. Finirono così esiliati sette ecclesiastici. Anzi, si fece di più; fu esiliato anche il prete che aveva lasciato affiggere alla porta della chiesa di Fragnitello il motu proprio papale. Il C. poteva essere soddisfatto dell'appoggio ottenuto a Napoli, le cui autorità locali, specie, parevano averne prese con decisione le difese. Egli sembrò rianimarsi, tanto che "all'imbrunir dell'aria" osava uscire in carrozza "passeggiando per l'amena riviera di Chiaia". Tuttavia la gotta lo tormentava ed egli, desiderando strumentalizzare la sua malattia, stampava il 16 sett. 1731, dopo una lettera al pontefice, l'attestato di tre medici, che testimoniavano il suo cattivo stato di salute e il suo bisogno di godere di aria buona. Benché il nunzio avesse ottenuto la promessa che non sarebbe stata permessa ulteriormente la pubblicazione di simili stampati apologetici, ne era uscito un altro il 15 settembre, a firma di G. Forziati, che ribadiva il diritto del C., il cui fratello Filippo era intanto stato arrestato, a difendersi e che protestava per l'avvenuta vendita dei mobili e della biblioteca custoditi in Castel Sant'Angelo. La Lettera exeggetica dell'abate Andrea Trabucchi, canonico del capitolo della metropolitana di Benevento, del 5 ottobre, riassumeva quanto era avvenuto in Benevento dopo la morte di Benedetto XIII e come, secondo i seguaci dei C., la commissione guidata dal Buondelmonte avesse agito scorrettamente, facendo "inique suggestioni... replicate minacce... orribili carcerazioni... per incutere forte et veemente terrore ne' testimoni".
Il 2 ottobre un motu proprio papale, che era stato preceduto da vari monitori e dalle Literae inhibitoriae del 21 agosto da parte della Congregazione, proclamava la perdita da parte del C., che non era rientrato nello Stato della Chiesa entro sei mesi, di tutti i benefici. Il C., che nel settembre aveva mandato un emissario dal nunzio, perché facesse sapere al papa che nonostante le dicerie nella casa dove alloggiava non c'erano "donne di conversazione", il 3 novembre protestò ufficialmente con il pontefice per la nomina dei nuovo arcivescovo di Benevento, avvenuta il 21 maggio 1731 nella persona di Snibaldo Doria. Continuava inoltre a dar grande pubblicità alle sue malattie, facendo pubblicare sulla gazzetta a stampa di essersi sottoposto a un consulto di medici, come a voler dimostrare che la sua salute non gli permetteva il ritorno a Roma. Tuttavia alla fine del marzo 1732, nonostante la "sorda protezione" di cui continuava a godere a Napoli da parte del viceré, egli si imbarcò su una galera reale e sbarcato a Terracina scrisse, il 10 aprile, a Roma di essere pronto a rientrare nella città, benché malato e provato, per obbedire alle ingiunzioni papali. Inianto l'Harrach, scrivendo al papa per annunciare il ritorno del C. diceva di sperare che le sue cose sarebbero state "tratadas con la moderación y regularidad correspondiente con la mas desapasionada iusticia". Arrivato a Roma il cardinale andò ad alloggiare nel convento di S. Prassede, dove il 13 aprile Clemente XII gli comunicò di doversi considerare detenuto.
Il C. era accusato di delitti avvenuti prima e dopo l'acquisto della dignità cardinalizia e di delitti commessi dopo la sua fuga. A questi ultimi si è già accennato. Per quelli precedenti all'avvento al cardinalato ci si basava sulla relazione del Buondelmonte, suffragata da un lungo elenco di testimonianze.
Egli avrebbe impartito ordini ingiusti, accumulato con malversazioni grandi somme, con cui aveva maritato o monacato numerose sorelle e acquistato feudi per il fratello Baldassarre duca di Paduli, ottenuto regali per fare accordare benefici, ricevuto senza ritegno donne anche nel palazzo arcivescovile. Divenuto cardinale aveva venduto a Niccolò Negroni la carica di tesoriere per 20.000 scudi, per 10.000 la tesoreria di Ferrara, l'appalto della suola da scarpe per 3.500 scudi, quello per fabbricare e vendere il sapone per 10.000 scudi, il fiscalato di Castro e Ronciglione per 200 doppie, una licenza per il giuoco del "biribisio" nel distretto di Roma per 700 scudi. Dall'università dei fornai aveva preteso 4.000 scudi per dirimere una controversia che questa aveva con la Congregazione dell'Annona (di cui egli faceva parte), ma aveva dovuto restituirli, perché, morto il papa, alcuni rappresentanti dell'università corsero a Cisterna, convinti a ragione che egli non potesse più nulla. Inoltre era accusato di aver fatto rescritti a nome dei papa, senza che questo ne fosse informato. Erano suoi complici e mediatori per vendere grazie e rescritti Barbato Arina, Otto de Filippis, suo maestro di casa, Valerio Loiale e l'abate Matteo Mussi. Per controbattere questa caterva di accuse l'avvocato Giovanni Filippo Toppi, difensore del C., oppose soprattutto argomenti formali: non si era dato luogo alla sua ricusazione dei giudici, era fuggito spinto dal timore, non avrebbe potuto essere citato essendo in luogo immune, era già successo che si vendessero le cariche, non si poteva provare che i rescritti non fossero stati ordinati oratenus dal papa.
La volontà di Clemente XII di colpire coloro che, istallandosi nella corte di Roma, vi avevano gettato un discredito che aveva travalicato i confini dello Stato della Chiesa era tuttavia inflessibile. Pertanto il processo, che per l'abilità dell'avvocato difensore avrebbe potuto ancora trascinarsi a lungo fra i cavilli giuridici, per volere dei papa fu concluso alla fine dell'aprile 1733. La sentenza uscì il 9 maggio e, considerata la dignità di cui era insignito il C., fu durissima. Essendo stato riconosciuto reo di concussioni, estorsioni, falsificazione di rescritti, violazione della fiducia di Benedetto XIII, atti tutti commessi per desiderio di ricchezze e cupidigia di denari, e inoltre di disobbedienza agli ordini papali e di propalazione di ingiurie e malevolenze, il C. venne condannato a dieci anni di relegazione in Castel Sant'Angelo, alla scomunica maggiore, con assoluzione riservata al papa, alla restituzione di quanto indebitamente si era appropriato - che poi ammontò a 39.000 scudi -, alla multa di 100.000 ducati, alla sospensione già inflitta della giurisdizione temporale e spirituale delle abbazie di S. Sofia e di S. Marco in Lamis, alla sospensione, durante il decennio della detenzione, dal diritto di voto attivo e passivo nei conclavi.
La severità della sentenza, anche se il C. non pare avesse amici fra i cardinali, turbò alcuni di essi, ma non uno oso esprimere riprovazione o invocare clemenza. Soltanto ancora per qualche tempo, Carlo VI fece qualche rimostranza al nunzio pontificio a Vienna, sostenendo che sembravano "essere intervenute non poche irregolarità così nella formazione dei processo, come nella sentenza data", e chiese che la pena fosse mitigata.
Immediatamente il C. fu portato inarce superiori del Castel Sant'Angelo, dove gli furono assegnate tre stanze; in un primo momento, egli, che sembrava stranamente privo di risorse, tanto da scrivere affannosamente alla cognata per essere sovvenuto, non volle accettare la sentenza, ma, venuto a più miti consigli, il 17 febbr. 1734 firmò una supplica per essere assolto dalla scomunica; il che otteneva il 23 febbraio. Avendolo ormai schiacciato e umiliato, Clemente XII poté anche mostrarsi generoso con lui, accordandogli nell'ottobre del 1735 di recarsi ai bagni di San Casciano, per curarsi la sua eterna gotta, e nel 1736 e forse nel 1737 a quelli di Agnano. Con un chirografo del 1º luglio 1738 da pubblicarsi durante i novendiali - come fu fatto - il papa gli restituì il diritto soltanto attivo di votare per l'elezione del futuro pontefice.
Il giorno della morte di Clemente XII (6 febbr. 1740) il C. inviò una lettera a tutti i cardinali. escluso Neri Corsini, in latino, per rivendicare il pieno diritto di partecipare al conclave. Anche con il suo contributo quindi il 17 agosto veniva eletto Benedetto XIV, che fu sollecitato dal cardinale F. Acquaviva e rivedere la causa del Coscia. Si oppose alla revisione il cardinale A. Lanfredini, né forse questo era nelle intenzioni del papa, che con un breve dell'8 genn. 1742 reintegrava il C. in tutti gli onori, annullando ogni pena temporale o spirituale comminatagli, ma non certo restituendogli l'arcidiocesi di Benevento, come pure egli avrebbe voluto, e chiedendogli di compilare una lettera di rinuncia a tutte le sue pretensioni. Da Napoli, dove si era trasferito con il consenso del papa già dall'anno precedente, il C. il 22 febbraio inviò il suo "contentamento". Da quel momento la sua vita si immerse nell'oscurità. Ne riemerse per un attimo nel giugno del 1747, quando fu invitato a corte per la nascita del principe Filippo di Borbone. Morì l'8 febbr. 1755 nella città partenopea. Aveva fatto testamento il 5 genn. 1753, lasciando case e terreni al fratello Baldassarre e arredi della sua cappella a varie chiese, e fu sepolto nella chiesa dei Gesuiti a Napoli.
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vat., Miscell., Arm. X, nn. 148-181, 198, 227, 255 (atti dei processo); Segr. di Stato, Napoli, 180-183, passim; Lettere di card., 91 C. 106; gia, cc. 111, 306; 91b, cc. 38 ss.; 159, cc. 3, 114, 197; Arch. Arcis, Arm. I-XVIII, nn. 1909-1912; Bibl. Ap. Vat., Barb. lat. 4686, passim; Barb. lat. 4687, passim; Vat. lat. 7249, cc. 240-248v; Vat. lat. 8631, cc. 67, 73-102; Vat. lat. 9405, cc. 28-44; Vat. lat. 12-531, cc. 181v-182v; Capp. lat. 163, cc. 367 ss.; Borg. lat. 234, cc. 28, 73, 95, 271; Borg. lat. 238, cc. 175, 229; Borg. lat. 241, cc. 9, 35, 87, 281; Roma, Bibl. dell'Acc. dei Lincei e Corsiniana, Cors. 1468 (41 C 4) e Cors. 1469 (41 C 5) (compendio del processo); Cors. 1191 (41 B 9), cc. 84,93, 175; Cors. 6514, n. 73; Roma, Bibl. naz., Fondi minori 513 (S. Onofrio 142), cc. 389-413; Bibl. Angelica, MS. 2192, cc. 384-429. Numerose memorie a stampa, prodotte nel 1730-1733 sono riunite in Bibl. Apost. Vat., R. G. Storia, III, 425; L. A. Muratori, Annali d'Italia, XII, Milano 1749, pp. 163 ss., 168 s., 179; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese... di Roma, VIII, Roma 1876, p. 177; XII, ibid. 1878, p. 423; C. de Brosses, Lettres familières, a cura di R. Colomb, II, Paris 1904, pp. 351, 370; Racconto divarie notizie…, in Arch. stor. per le Prov. napol., XXXII (1907), pp. 161, 163, 407, 411, 417, 622, 624; P. Giannone, Vita scritta da lui medesimo, a cura di S. Bertelli, Milano 1960, adIndicem;C.de Montesquieu, Voyage de Gratzà la Haye. Italie, in Oeuvres complètes, a cura di R. Caillois, Paris 1973, pp. 665, 674, 738; G. de Novaes, Elementi della storia dei sommi Pontefici, XIII, Siena 1806, pp. 85, 87 s., 182, 187-190; M. Schipa, Ilregno di Napoli, Napoli 1904, p. 459; E. Scatassa, Benedetto XIIIe i suoi artisti benev., in Rassegna bibl. dell'arteital., XVI (1913), pp. 112, 114, 160; XVII (1914), p. 140; A. D'Amato, Ilprocesso e la deposizionedei card. N. C., in Atti della Soc. stor. del Sannio, IV (1926), pp. 23-30; H. Benedikt, DasKönigreich Neapel unter Kaiser Karl VI., Wien-Leipzig 1927, pp. 269, 271, 290, 368, 375-379, 452 s. (con ulter. fonti); S. De Lucia, Il card. N. C., Benevento 1934 (con ulter. fonti); M. Rotili, FilippoRaguzzini e il rococò romano, Roma 1952, p. 57; L. Pastor, Storia dei Papi, XV, Roma 1962, ad Indicem (con ulter. fonti); A. Caracciolo, Ricerche sul mercante del Settecento I. Fortunato Cervelli, Milano 1962, adIndicem;M. Monaco, Critiche ed annotazioni delcard. Neri Corsini..., Modena 1967-1968, pp. 14, 31; G. De Antonellis, Appunti intorno alla figuradel card. N. C...., in Samnium, XLIII (1970), pp. 153-167; G. Catalano, Studi sulla legaziaapost. di Sicilia, Reggio Calabria 1973, pp. 119, 121 s., 126; G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti d. Bibl. d'Italia, p. 104; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica..., V, Patavii 1952, pp. 36, 118, 385.