ESTE, Niccolò d'
Terzo di questo nome, nacque in Ferrara il 9 nov. 1383 dal marchese Alberto (V), signore di Ferrara, e da Isotta Albaresani.
Una tradizione tardocinquecentesca vuole che Alberto, in prossimità della morte, avvenuta il 30 luglio 1393, regolarizzasse la sua unione con l'Albaresani per legittimare il giovanissimo successore. Il fatto è da escludere, dato che l'E. era già stato ufficialmente legittimato da papa Bonifacio IX nel 1391, su istanza del padre, e che la moglie di questo, Giovanna de' Roberti, era nel 1393 ancora in vita.
Presentato al popolo ferrarese nello stesso giorno (1° ag. '93) dei funerali del padre ed erede di un dominio che comprendeva, oltre alla stessa Ferrara, Modena, Adria, Comacchio, Rovigo e diversi possessi in Romagna, l'E. non aveva ancora compiuto dieci anni quando si venne a trovare al vertice dello Stato estense. Il genitore aveva predisposto accuratamente ogni cosa: il Consiglio di reggenza, composto da Filippo de' Roberti, da, Tommaso degli Obizzi, dal referendario Bartolomeo della Mella, da Giovanni del Sale e da sei membri eletti ogni due mesi dal popolo, avrebbe curato la formazione del giovane marchese e protetto gli interessi della signoria; Bologna e, soprattutto, Venezia, avrebbero garantito della tranquillità della successione.
Malgrado tutto ciò, e malgrado le bolle papali che vennero poco dopo la morte di Alberto a confermare i diritti dell'E. sul marchesato estense, il primo decennio del suo potere fu turbato da una serie di sconvolgimenti.
Cominciò Azzo, figlio di Francesco d'Este, pretendendo per sé il dominio e muovendosi da Firenze, dove risiedeva, verso Ferrara, dopo aver ordito un complotto con cittadini di quel luogo. La scoperta del progetto lo obbligò però presto al ritorno in Toscana. Fu poi Francesco Novello da Carrara a prendere l'iniziativa, spingendo la moglie Taddea a richiedere all'E. di soddisfare i propri diritti sull'eredità del padre Niccolò (II) lo Zoppo (zio dell'E. e già marchese estense). La richiesta era insidiosa, data la difficile situazione economica in cui versava lo Stato: a risolvere la questione intervenne Venezia, più che mai impegnata a difendere il favorevole regime esistente in Ferrara, che impose all'E. il saldo di 23.488 ducati d'oro a beneficio del Carrara sotto titolo di dote della moglie e di liquidazione di un debito precedentemente contratto dagli Estensi (ciò nel febbraio 1394). Ad istanza di Azzo, si ribellavano intanto alcuni castelli del Frignano, e l'E. - ovvero il Consiglio di reggenza per lui, per quanto i biografi siano concordi nel sottolineare la precocità del suo impegno di governo - dovette ricorrere all'aiuto lucchese per riportare alla normalità la situazione. Attirati alla sua parte alcuni feudatari estensi - tra cui Francesco da Sassuolo - appoggiato da Giangaleazzo Visconti, alleato al conte Giovanni di Barbiano, ai da Polenta signori di Ravenna e a Cecco Ordelaffi. signore di Forlì, Azzo tentò nel 1394 una nuova incursione nello Stato dalla parte del Po di Primaro. Una ennesima sconfitta lo costrinse a ripiegare nel Modenese, ove iniziò gravi scorrerie. Con l'aiuto di Venezia, Firenze e Bologna, nel gennaio '95 l'E. respinse un nuovo assalto al Ferrarese del rivale; poco dopo, mutata strategia, il Consiglio di reggenza tentò la strada dell'intesa segreta con il conte di Barbiano, offrendogli i castelli di Lugo e Conselice e in Più 30.000 ducati d'oro in cambio della testa di Azzo. Il conte accettò, poi si accordò con il pretendente estense di cui era in cuor suo rimasto il più strenuo sostenitore e, dopo averne finto l'uccisione, riuscì ad impadronirsi con l'inganno del premio convenuto.
La risposta ferrarese alla beffa fu decisa. Per reperire denaro il Polesine di Rovigo venne impegnato alla Repubblica veneta in cambio di 50.000 ducati, e con gli stessi Veneziani, i Fiorentini e i Bolognesi si compose una lega le cui forze vennero poste al comando di Astorgio Manfredi, signore di Faenza. Nella battaglia di Portomaggiore le forze rivali vennero debellate; Azzo, prigioniero, venne affidato alla custodia del Manfredi malgrado le proteste di Ferrara, tenuta, da successivi accordi, al pagamento di una pensione annua per il mantenimento dell'ostaggio. La guerra non era però finita: sempre in quell'anno il feudatario ribelle Francesco da Sassuolo strappava agli Estensi Sassuolo, ed il conte di Barbiano si impadroniva di Vignola.
Nel giugno 1397 l'E. sposò, tredicenne, Gigliola da Carrara, figlia di Francesco Novello (il matrimonio, combinato dai Veneziani in chiave antimilanese, fu duramente osteggiato da Giangaleazzo), e nel frattempo, e di conseguenza, Ferrara entrava nella grande lega antiviscontea che la vedeva unita ai Gonzaga, ai Fiorentini, ai Bolognesi, ai Malatesta di Rimini e ai Padovani. Le sette galere armate dagli Estensi a Venezia diedero un significativo contributo alla disfatta sul Mincio delle forze milanesi; il 26 maggio 1398 una tregua interruppe il conflitto.
Sempre in quell'anno Venezia intervenne per risolvere la questione sorta tra Ferrara e Astorgio Manfredi intorno al problema della prigionia di Azzo d'Este. Il signore faentino ne alzava continuamente il prezzo e, prima che i Ferraresi si risolvessero all'intervento militare, la Repubblica risolse di prendere essa stessa in custodia il prigioniero, relegandolo in Candia, purché lo Stato estense pagasse 3.000 ducati annui di pensione.
La Serenissima, e il Consiglio di reggenza, vegliavano sull'E. e sulla stabilità dello Stato, ma l'equilibrio venne pericolosamente a rompersi nel luglio del 1398, quando Francesco Novello da Carrara entrò in Ferrara con numerosa scorta d'armati, e qui fece imprigionare Bartolomeo della Mella e sostituì i membri dei Consigli cittadini con elementi a lui fedeli. Dopo il matrimonio della propria figlia con l'E., appariva sempre più evidente lo sforzo del signore padovano teso ad instaurare una situazione di predominio nella città padana. La Repubblica veneta, per contenere gli effetti del mutamento, invitò il Carrara e l'E. nel settembre successivo a Venezia. In questa occasione, e per rafforzarne il sempre più debole potere, il Senato veneziano confermò l'ascrizione al patriziato del giovane Estense. Ma con i Consigli, cittadini occupati da esponenti di fiducia padovana, e con il Consiglio di reggenza ormai del tutto asservito al Carrara, l'E. cominciò ad assumere iniziativa autonoma, scompaginando le trame di Francesco Novello. Gli avvenimenti militari gli diedero forza: alleato ai Bolognesi, sconfisse nel marzo '99 Giovanni di Barbiano recuperando così Vignola; ma fu soprattutto il fallimento di una nuova intrapresa del Novello a determinare la possibilità del mutamento decisivo. Una malattia venerea lo colpì improvvisamente, con grave rischio per la sua vita; il Carrara, apertamente, predispose ogni intervento necessario a favorire la sua presa di potere nel momento della prevedibile fine del marchese. Questi al contrario guarì, e subito allontanò dai Consigli i padovani e cominciò a limitare le prerogative del Consiglio di reggenza, che avrebbe comunque continuato ad esistere, con poteri sempre più ridotti, fino al 1402, quando l'E. lo trasformò in Consiglio privato.
Ricostituiti in tal modo gli equilibri interni ferraresi e sventata soprattutto definitivamente la minaccia carrarese, l'E., nel settembre del 1.400, si recò a Milano, ad incontrare il duca visconteo, provocando in tal modo le apprensioni padovane e veneziane. Non si sa cosa i due contrattassero: molto probabilmente il marchese intendeva affermare con spettacolarità la sua conquistata autonomia da quei due Stati - e soprattutto da quello carrarese - dai quali tante volte, nel bene e nel male, era venuto a dipendere.
Fatto sta che nel quadro delle successive iniziative militari viscontee (quali la presa di Bologna) l'E. si mantenne rigidamente neutrale.
Il rafforzamento del potere dell'E. è anche dimostrato dalla sua decisione di riaprire i battenti, il 18 ott. 1402, dell'università ferrarese, che era stata chiusa per motivi economici otto anni prima, poco dopo la sua fondazione. Ad insegnarvi vi chiamò celebri maestri forestieri, tra i quali il giuscivilista Pietro d'Ancarano, che lasciò lo Studio bolognese, il canonista Antonio da Budrio e Giovanni da Imola.
Moriva nel 1402 Giangaleazzo Visconti, e dall'interno come dall'esterno dei suo Stato, in virtù del vuoto di potere venutosi a creare, si levavano le ambizioni di molti, e anche quelle dell'E., alimentate da papa Bonifacio IX, che intendeva provvedere al recupero di Bologna e degli altri luoghi strappati al dominio pontificio dai Milanesi, e che per questo inviò a Ferrara il cardinale Baldassarre Cossa per indurre il marchese ad entrare in una lega. Nel maggio 1403 questi accettò, divenendo capitano generale delle forze collegate: l'accordo prevedeva la restituzione a Ferrara delle terre di Nonantola e Bazzano, che la signoria aveva perduto nel corso degli anni precedenti, la diminuzione del censo annuo che Ferrara pagava alla Camera pontificia, nonché la cessione di Reggio e Parma una volta che queste due città fossero state conquistate dalle armate della lega.
All'inizio di giugno presero il via le operazioni militari, che assicurarono subito, ai collegati, cospicui successi. Quando però l'E. venne a trovarsi sotto le mura di Parma, pronto ad espugnare quell'importante luogo, l'azione venne interrotta dalla notizia del trattato di Caledio - 25 ag. 1403 - concluso con i Milanesi dal cardinale Cossa e da Francesco Gonzaga ad insaputa degli altri alleati.
Il frutto dell'iniziativa ferrarese, con il trattato subito, veniva a ridursi a ben poco: di fatto si legittimava soltanto il possesso estense di Crevalcore, nel distretto bolognese, che poco tempo prima si era ribellato ai Visconti e aveva compiuto spontanea dedizione a Ferrara. Il cardinale Cossa, invece, non mostrò alcuna intenzione di restituire all'E. Nonantola e Bazzano (malgrado anche i Veneziani presentassero istanza in tal senso). In più, le città di Reggio e Parma erano venute a trovarsi nelle mani del capitano di ventura Ottobuono Terzi, uomo aggressivo e determinato che da subito parve poter minacciare pericolosamente la signoria ferrarese.
Nel 1404 erano intanto venuti a trovarsi contrapposti Carraresi e Veneziani, questi ultimi intervenuti a bloccare l'iniziativa padovana sulle città viscontee di Verona e Vicenza. L'E. assunse da prima il ruolo di mediatore tra i due contendenti, ma nel settembre dello stesso anno non seppe resistere alla tentazione di scendere in campo al fianco dei Padovani per riconquistare al proprio dominio quel Polesine di Rovigo che qualche anno prima si era risoluto a cedere in pegno alla Serenissima. La scelta si dimostrò oltremodo improvvida: la Repubblica veneta aveva ormai tramutato la natura del proprio intervento e dall'esigenza di contenere le mire espansionistiche padovane si era così risolta alla costituzione di un proprio Stato di Terraferma; impadronitasi di Vicenza e di altri importanti luoghi della Marca puntava con decisione all'annientamento dei signori carraresi. Nella pace del 25 maggio 1405, cui fu costretto dopo una continua serie di sconfitte, l'E. dovette cedere definitivamente il Polesine e, in più, impegnarsi al blocco della produzione di sale a Comacchio. Come ulteriore conseguenza, il Carrara, ormai però prossimo alla definitiva disfatta, rivolse le proprie truppe contro l'ex alleato.
Come già detto, nel 1403 Reggio e Parma erano venute a trovarsi sotto il dominio di Ottobuono Terzi, protetto dai Veneziani e temibile rivale del signore estense. In risposta alle continue scorrerie di Ottobuono in territorio modenese, l'E. si impegnò nel maggio 1408 in una lega, insieme con Milano, con Pandolfo Malatesta signore di Brescia e con Cabrino Fondolo signore di Cremona. L'alleanza non diede però alcun risultato, mentre la contemporanea impresa del cardinale Cossa contro Manfredo di Barbiano assicurò al marchese il castello, che era già appartenuto agli Estensi, di Conselice. Una nuova intesa contro Ottobuono Terzi. nel 1409, diede infine i frutti sperati, perché l'E., attirato il rivale in un tranello - un incontro presso il castello di Ribiera per trattare un accordo di pace -, lo fece assassinare da Muzio Attendolo Sforza. Poco dopo l'E. conquistava Reggio e Parma, riuscendo ad eludere le istanze veneziane tese a garantire il mantenimento del possesso dei due luoghi alla famiglia Terzi, ora rappresentata da lacopo. Con il successo non solo veniva eliminato un temibile nemico, ma veniva anche riportato l'ordine nei ranghi dei feudatari ribelli del dominio - primi tra tutti i signori di Sassuolo - che si erano resi nel recente passato particolarmente pericolosi proprio grazie all'appoggio loro prestato dai Terzi.
Sventata la seria mìnaccia, ed ampliato significativamente il suo Stato, nel 1410 l'E. si recò a Bologna ad incontrarvi il pontefice Alessandro V che gli attribuì, in quell'occasione, la Rosa d'oro. Poco dopo papa Alessandro moriva ed il 17 maggio dello stesso anno venne chiamato a succedergli Baldassarre Cossa, che assunse il nome di Giovanni XXIII.
Lo Stato della Chiesa si trovava allora in difficoltà, soprattutto a causa delle aggressive iniziative del re di Napoli, Ladislao di Durazzo. L'E., la cui esperienza nei rapporti con il Cossa non era certo positiva, cercò di approfittarne: quando nel maggio 1411 Bologna si ribellò al pontefice, trovò nell'E. un sicuro alleato. L'8 giugno successivo fu la volta della sollevazione di Forlì, che offrì la dedizione all'Estense. Egli dovette però subito rinunziare al possesso per l'ingiunzione del papa. Con la pace del 17 giugno 1412 tra lo Stato della Chiesa e Ladislao si chiudeva infine anche questo ciclo di lotte. In quello stesso anno l'E. iniziò la costruzione della torre del duomo di Ferrara e sempre in quell'anno favorì la nascita dello Studium parmense, e ciò a dimostrazione di un interesse particolarmente "illuminato" nella gestione dei suoi domini.
Il 6 apr. 1413 l'E. da Venezia partì per un pellegrinaggio verso la Terrasanta. Durante il percorso si fermo a visitare Pola, Zara e sulla via del ritorno anche Cipro. Sul S. Sepolcro egli cinse della spada di cavalieri Alberto del Sale, Pietro Rosso, Francesco da Roma, Feltrino Boiardo e Tommaso Contrari; sul monte Calvario, Alberto del Sale gli calzò uno sperone d'oro al piede sinistro, riservandosi l'E. la calzatura del destro per un futuro pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia. Il 6 luglio era già di ritorno in Ferrara, pronto ad accostarsi a Ladislao di Durazzo per una nuova impresa contro il pontefice. Fu un accordo di breve durata quello che unì i due: con il rafforzamento sul piano militare di Giovanni XXIII, grazie all'intervento in suo soccorso dell'imperatore Sigismondo, l'E. decise di passare alla sua parte.
Il 18 febbr. 1414 il pontefice passo per Ferrara; il 19 giugno successivo, quando era già possibile prevedere l'accordo - che si sarebbe poi concluso ad Assisi - tra le forze riunite intorno al papa e all'imperatore e quelle capeggiate da Ladislao, l'E. partì per un nuovo pellegrinaggio, questa volta diretto a Saint-Antoine di Vienne, nel Delfinato (lì sarebbe tornato, con lo stesso scopo, anche nel 1434). Il marchese ebbe modo di incontrare a Braysur-Somme il re di Francia Carlo VI, ma sulla via dei ritorno venne preso in ostaggio a San Michele Mondovì dal locale castellano, che lo liberò solo dopo il pagamento di un riscatto.
La situazione politica italiana andava frattanto nuovamente mutando. Protagonista, in questa nuova fase, era Filippo Maria Visconti, che nella sua ambizione di rafforzare lo Stato milanese intendeva altresì procedere alla ricostituzione del dominio già conquistato dal padre Giangaleazzo. Un simile progetto non poteva non allarmare quegli Stati, soprattutto padani, che avevano partecipato appena un decennio prima allo smembramento dei possessi viscontei. Lo stesso E. nell'ottobre 105 aderì alla lega antiviscontea. La guerra procedette a fasi alterne per cinque anni; intimorito infine dalla potenza viscontea, l'E. si adoperò nella ricerca di una pace onorevole. Recatosi di persona a Milano per conferire con il duca, il 13 nov. 1420 lasciò al Visconti Parma e parte del Reggiano, mentre conservò la città di Reggio a solo titolo di vassallaggio. Il 22 gennaio dell'anno successivo, Filippo Maria gli donava liberamente le terre di Castellarano, Rodeglia, Gavardo e Carpineto.
Con quest'ultinio accordo si chiudeva un ciclo delle iniziative dell'Este. Gli equilibri erano ormai mutati: Visconti e Veneziani occupavano del tutto la scena padana con forze ben maggiori di quelle disponibili allo Stato estense ed era impensabile potersi ancora affidare ad iniziative autonome. Da allora in poi l'E. cercò di mantenersi equidistante dai due Stati più forti, tentando semmai di mediare tra le differenti posizioni, con ciò garantendo l'integrità del proprio dominio.
Nel 1416 era intanto defunta, senza lasciare prole, la sua prima moglie, Gigliola. Due anni più tardi egli si uni in matrimonio a Parisina, figlia di Andrea Malatesta signore di Cesena. All'arrivo in corte, la quattordicenne consorte venne accolta, tra gli altri, dai numerosi figli naturali dell'E. - la cui propensione "libertina" era già divenuta proverbiale: tra i vari detti diffusi a proposito in Ferrara v'era quello "di qua e di là del Po sono tutti figli di Niccolò" - tra i quali v'erano anche Ugo, Leonello e Borso, nati dalla sua relazione con Stella dei Tolomei, detta anche dell'Assassino o dell'Assisino. La nascita di due gemelle, Ginevra e Lucia, e di Alberto assicurò all'E. la prima discendenza legittima, ma la scoperta di un'intesa amorosa tra Parisina e suo figlio Ugo, agli inizi del maggio 1425, generò una tragedia le cui conseguenze si sarebbero per sempre ripercosse sul suo animo. Rinchiusi i due amanti nelle carceri del castello, egli promosse contro di loro un ordinario processo che ne sentenziò la morte. Il 21 maggio la sentenza veniva eseguita. La vicenda avrebbe poi conosciuto una singolare fortuna letteraria e fu cantata, tra gli altri, da Byron.
Contemporaneamente allo svolgersi del dramma si venivano creando le premesse di un nuovo conflitto tra Filippo Maria Visconti e la Repubblica veneziana. I malumori antimilanesi espressi con sempre maggiore decisione dalle popolazioni del Bresciano e le richieste di appoggio a Venezia presentate dai guelfi locali condussero nel marzo 1426 allo scontro. In quest'occasione l'E. venne meno al principio della neutralità tra i due Stati che aveva caratterizzato la sua ultima azione di governo. Le possibilità di una vittoria veneziana erano notevoli, e l'eventualità di una estensione oltre il Mincio del dominio della Repubblica avrebbe rischiato di porre Ferrara, tenendosi questa fuori dalla mischia, in una posizione di debolezza e dipendenza. L'E. entrò così nella lega, che già univa ai Veneziani i Fiorentini, divenendone capitano generale. Pure in questa veste, però, riuscì a svolgere ruolo di mediazione: una prima pace tra i due contendenti venne ratificata proprio in Ferrara il 3 maggio 1428.
In questo stesso periodo l'E. provvide alla costruzione della fortezza poi detta di Castelnuovo, sul Po, che destinò ad abitazione della sua amante Filippa Dalla Tavola; nel 1429 sposò Ricciarda, figlia di Tommaso (II) marchese di Saluzzo. Nello stesso anno ottenne da papa Martino V la legittimazione del figlio Leonello, nato, come detto, dalla sua unione con Stella dei Tolomei. Con tale riconoscimento l'E. dissipava di fatto ogni dubbio circa la sua successione, e ciò a scapito, e non senza contestazioni, dei diritti degli altri figli - dall'ultima moglie Ricciarda ebbe Ercole e Sigismondo - nati legittimi.
Nel 1430 cominciò l'ultimo, e probabilmente più luminoso, periodo della vita dell'E.: la Garfagnana, per evitare l'intervento fiorentino, gli si consegnò in spontanea dedizione - il possesso, nella forma di una investitura di vicariato, gli fu riconosciuto tre anni dopo dall'imperatore Sigismondo nell'occasione di un suo passaggio per Ferrara -; nel 1431 ottenne dal re di Francia il privilegio di inquartare nello stemma estense i gigli d'oro di quella corona. In quello stesso anno riuscì a mantenersi neutrale nella ripresa del conflitto tra Filippo Maria Vìsconti e Venezia; l'8 apr. 1433 portò anzi a compimento una nuova opera di mediazione favorendo l'accordo che venne in quel giorno siglato dai contendenti ancora in Ferrara. Qualche mese dopo il duca milanese gli dava mandato di sovraintendere alla corretta applicazione della pace ferrarese.
Lo Stato estense occupava ormai un ruolo primario nel quadro degli equilibri italiani, e per di più senza perseguire in quelle autonome quanto rischiose iniziative politico-militari che avevano contraddistinto le vicende del marchesato nel recente passato. Tali iniziative, in un'area dominata da Milano e Venezia, avrebbero esclusivamente svelato i limiti di uno Stato piccolo quale il ferrarese. L'intensa ed accorta attività diplomatica riuscì d'altro canto ad assicurare all'E. cospicui successi, e non solo per la funzione, che il marchese esercitò, di "guardiano" ed elemento riequilibratore all'interno della conflittualità milanese-veneziana. Parteggiando per papa Eugenio IV nella disputa che vedeva opposto quest'ultimo ai padri conciliari di Basilea, l'E. meritò di ospitare in Ferrara l'assemblea, lì trasferita d'autorità dal pontefice il 18 sett. 1437. Nel successivo anno 1438 l'E. accolse in quella città l'imperatore greco Giovanni VIII Paleologo, oltre naturalmente allo stesso papa, al patriarca di Costantinopoli Giuseppe, al despota di Morea Demetrio ed a una prestigiosissima schiera di personalità della Chiesa greca e romana convenute a convegno su un progetto di unione.
La prestigiosa assise non poté però concludersi in Ferrara. Niccolò Piccinino, alla testa delle truppe viscontee, e calato in Romagna col dichiarato scopo di proteggere il concilio, cominciò invece a guerreggiare in quella regione, costringendo presto Bologna, Imola, Forli e Ravenna a pronunciarsi in favore del Visconti e minacciando la stessa sede sinodale. Quando un'epidemia di peste si aggiunse alla minaccia militare, Eugenio IV, il 10 genn. 1439, decretò il trasferimento dell'assemblea a Firenze.
Importanti risultati l'E. raggiunse anche sul piano dell'espansione territoriale dello Stato, senza mai impegnarsi in azioni militari. Nel 1436-37 trattò con Eugenio IV la restituzione agli Este di Lugo, che venne ceduta, a beneficio di Leonello, dietro il pagamento di 14.000 fiorini; nel 1440 lo stesso pontefice gli vendette per 11.000 ducati Bagnacavallo e Massalombarda. Nel 1438, ancora, la Repubblica veneta, per prevenire un possibile avvicinamento degli Este ai Visconti, di nuovo sul piede di guerra nei territori di Brescia e Bergamo, restituì liberamente al marchese quel Polesine di Rovigo che tante altre volte, e in modo ben più impegnativo, Ferrara aveva inutilmente tentato di riconquistare.
La "generosità" veneziana era saldamente motivata: le decise affermazioni della Repubblica sui Viscontei non potevano non impensierire l'E. che proprio nel mediare tra le due forze aveva conosciuto le maggiori fortune. L'E. riuscì però egualmente a soccorrere i Milanesi, non ostacolando, oppure, più probabilmente, favorendo, il passaggio alla parte viscontea del figlio Borso e degli armigeri che questi comandava, fino a quel momento schierati al fianco della Serenissima; nonché adoperandosi per la realizzazione di quel matrimonio tra Bìanca Maria, figlia di Filippo Maria Visconti, e Francesco Sforza, condottiero dei Veneziani, che avrebbe rappresentato, con tante conseguenze, la prima tappa dell'avvicinamento tra le due personalità. La nuova pace fra Milano e Venezia, firmata a Cavriana il 20 nov. 1441, sancì ancora, di fatto, la superiorità della Repubblica veneta, e fu per questo che, nei suoi ultimissimi giorni, l'E. si avvicinò con maggior decisione ai Visconti, divenuti ormai parte troppo debole del suo sistema di equilibri.
La svolta fu improvvisa: il duca milanese, subito dopo la conclusione del conflitto, nominò addirittura l'E. suo governatore generale, consegnandogli la gestione dei possessi. Ciò suscitò naturalmente le reazioni veneziane e l'ostilità di Francesco Sforza, le cui ambizioni sull'eredità del suocero erano notevoli, e che rimaneva turbato dal levarsi sempre più insistente della voce di una successione nel Ducato a vantaggio del figlio dell'E., Borso.
L'E. affidò il governo del dominio a Le.onello e raggiunse Milano in compagnia di Uguccione Contrari. Dopo appena un mese, il 26 dic. 1441, un improvviso male, forse dovuto alla somministrazione di un veleno, pose fine alla sua esistenza. Il 10 genn. 1442 il suo corpo, senza solennità, veniva sepolto in Ferrara nella chiesa di S. Maria degli Angeli.
Il suo testamento sottoscritto nello stesso giorno della morte, disponeva, con precisione, l'ordine di eredità e di successione. Veniva favorito Leonello, quindi i figli legittimi di quest'ultimo, oppure, in loro mancanza, quelli naturali. Non avendo Leonello discendenza alcuna, tutti i diritti sarebbero passati ad Ercole e Sigismondo.
La misteriosa - e brusca - scomparsa dell'E. privò la scena italiana di uno dei suoi più brillanti protagonisti. Nel corso della sua lunga esperienza di governo egli seppe superare gravissime difficoltà sul piano interno, con un potere che gli fu duramente contestato; ma soprattutto riuscì, in una situazione politica generale assai movimentata, caratterizzata dalla formazione e crescita di aggregazioni statali più vaste, gli Stati regionali, a garantire la sopravvivenza della signoria.
Ma, al di là dei successi politici, fu la personalità stessa dell'E. a distinguersi particolarmente: affidato in gioventù dal padre Alberto alla tutela e all'insegnamento del celebre letterato Donato Albanzani, l'E. non divenne propriamente un principe umanista, e la sua cultura rìrnase ad un livello, secondo i canoni correnti, assai superficiale. E tuttavia provvedimenti quali la riapertura dell'università di Ferrara, la fondazione di quella di Parma, l'ordinamento della biblioteca marchionale, l'ospitalità prestata a prestigiosi uomini di scienza denotano una particolare sensibilità intellettuale. Il favorito figlio Leonello, se venne nel 1422 mandato ad apprendere l'arte della guerra da Braccio da Montone, ebbe pure per maestri personalità come Guglielmo Capello e Guarino da Verona, che sotto la protezione dell'E. gestì in Ferrara una scuola aperta pure ad allievi forestieri. Anche il grecista Giovanni Aurispa e i medici e filosofi Michele Savonarola e Ugo Benei trovarono accoglienza in Ferrara.
In Fiandra l'E. scritturò cantori , ma protesse ogni genere di arte e industria: orologeria, oreficeria, ricamo, arazzeria, miniatura, musica. Chiamò dalla Toscana i miniatori Giovanni Falconi e lacopino d'Arezzo, a Verona contattò il Pisanello, che era certamente in Ferrara nel 1435; perlomeno dal 1436 stipendiò artisti fiamminghi per la tessitura di arazzi. Realizzò in tutto il dominio, e soprattutto in Ferrara, castelli, chiese, palazzi - tra tutti basti citare quello di Belriguardo - ponti (proprio per un consulto su questa materia nel 1436 invitò in città il Brunelleschi), sempre cosciente del diretto rapporto intercorrente tra crescita civile ed economica, magnificenza e stabilità politica dello Stato. J. Burckhardt (La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1975, p. 46) definì la signoria estense come "una singolare via mezzo tra la violenza e la popolarità". Spietato con gli oppositori, l'E. espresse più volte il desiderio che i suoi sudditi superassero in ricchezza quelli degli altri Stati: in tempi di carestia i poveri potevano procurarsi a basso prezzo il grano grazie alle sovvenzioni marchionali. Nello stesso tempo, per i gravosi impegni dello Stato, le imposizioni fiscali dirette e indirette raggiungevano i più alti livelli. Questa politica attenta, più che significative riforme o innovazioni - tra queste può essere ricordata l'introduzione nel 1422 del pubblico registro degli strumenti - trasformò il volto dello Stato e soprattutto quello di Ferrara, che cominciò ad esercitare, tra le prime capitali della Rinascenza, una singolare forza d'attrazione.
Un significativo ritratto dell'E. tracciò Enea Silvio Piccolomini, il quale, dopo averne esaltato il ruolo politico soprattutto come mediatore del, conflitto tra Milano e Venezia, lo descrisse come "vir pinguis, laetus, voluptati deditus", aggiungendo poi "concubinas habuit multas ex quibus liberos plurimos suscepit". Ulteriori testimonianze del suo aspetto fisico sono nei ritratti, primi tra tutti i due, su medaglia, attribuiti al Pisanello; quanto alla sua dedizione ai "piaceri" basti ricordare come egli, nel corso della sua vita, si adoperò per riconoscere - almeno - ventidue figli generati al di fuori del matrimonio.
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