ESTE, Niccolò d'
Figlio del marchese Leonello, signore di Ferrara, Modena, Reggio, e della prima moglie di questo, Margherita di Gianfrancesco Gonzaga, nacque a Ferrara il 20 luglio 1438. Rimasto orfano della madre l'anno successivo, aveva da poco compiuto i dodici anni quando perdette anche il padre, morto improvvisamente il 10 ott. 1450. In forza del testamento dell'avo Niccolò (III), l'E. avrebbe dovuto succedere al padre nel governo dei domini estensi. Tuttavia, poiché egli non aveva ancora raggiunto l'età legittima, e poiché, d'altro canto, i di lui zii Ercole e Sigismondo, figli legittimi di Niccolò (III) e fratellastri di Leonello, si trovavano alla corte dei re di Napoli ' dove erano stati inviati sin dal 1446, il Consiglio del Comune, convocato dal giudice dei Savi, indicò in un altro zio dell'E., Borso, il successore del defunto Leonello e lo riconobbe signore di Ferrara, di Modena, di Reggio e di Rovigo. Poco tempo dopo il papa Niccolò V convalidò con una sua bolla tale atto, dichiarando nulle tutte le precedenti disposizioni in materia e stabilendo che eredi degli Stati estensi sarebbero dovuti essere i figlì dello stesso Borso o, se Borso non ne avesse avuti, i suoi fratelli legittimi o legittimati. L'E. veniva in tale modo escluso, almeno sul piano legale, da ogni possibilità di successione ai domini che erano stati di suo padre: il pontefice si limitava a raccomandarlo alle cure paterne di Borso.
L'E. ricevette un'educazione esemplare, dato che crebbe a Ferrara, presso una delle corti più aperte alla cultura umanistica. Come il padre, ebbe a maestro Guarino Veronese, studiò con profitto le lettere e fu in corrispondenza con letterati del tempo. A partire dal 1459 i cronisti coevi registrano la presenza sua e del fratellastro Francesco alle cerimonie ufficiali della corte estense, accanto a Borso ed ai di lui familiari: come nel luglio del 1467, quando, dopo una breve vacanza nel Polesine, tornò a Ferrara per rendere omaggio allo zio Ercole, ch'era stato ferito nella battaglia della Molinella; o nel 1468, quando si recò a ricevere l'imperatore Federico III in viaggio per Roma. Fu benvoluto da Borso che, dimostrando una paterna indulgenza nei confronti delle sue intemperanze giovanili, lo scelse a far parte del Consiglio segreto. Tuttavia - a dire del Decembrio - agli impegni politici l'E. preferiva gli ozi, gli svaghi, le allegre compagnie e i passatempi licenziosi, cosa che non giovò molto alla sua reputazione.
Fuori dai territori del dominio estense l'E. poteva contare su sicuri appoggi: da tempo i signori di Mantova - sua famiglia materna - e il duca di Milano loro alleato operavano per preparare condizioni favorevoli ad una sua successione a Borso, col quale essi non intrattenevano buoni rapporti. Anche a Ferrara l'E. aveva un proprio entourage di fedeli, formato da giovani delle maggiori famiglie della città: circolo di amicizie che non tardò a trasformarsi in partito quando si pose concretamente il problema della successione. A Roma, nel maggio del 1471, Borso fu incoronato duca di Ferrara dal pontefice, che gli concesse anche di disporre per testamento della successione della nuova entità politica: è possibile che Borso - il quale nel 1461 aveva designato il solo Ercole come suo erede - abbia allora pensato di assegnare Ferrara al nipote, Modena e Reggio ai fratellastri Ercole e Sigismondo.
Tornato a Ferrara dopo i festeggiamenti, Borso iniziò a soffrire di febbri che via via peggiorarono. L'aggravarsi dello stato di salute del duca fece uscire allo scoperto le due fazioni che appoggiavano i pretendenti al trono. Ai primi di luglio si verificarono tumulti e risse nelle piazze cittadine; un inviato del Senato bolognese, che aveva offerto all'E. il sostegno della sua città, fu assassinato, si disse per ordine di Ercole. A metà luglio il papa Paolo II diede istruzioni al suo legato che si recava a Bologna, il cardinale F. Gonzaga, di sostenere l'E. nella successione; anche Lorenzo de' Medici e la Signoria fiorentina dimostrarono il loro favore nei confronti del figlio di Leonello, pur esitando ad assumere un impegno più diretto come chiedeva invece il signore di Mantova.
Ai primi di agosto, per porre termine ai disordini, Borso si ritirò nel Castelvecchio e ordinò ai due rivali di allontanarsi da Ferrara. Ercole ignorò l'ordine: si rifugiò nell'altro castello cittadino, tenendosi nell'ombra in attesa degli eventi. L'E. invece si recò a Mantova, contando di ottenere aiuto dal Gonzaga e soprattutto dal duca di Milano, che si trovava là.
La successione nel Ducato estense divenne un problema che coinvolgeva tutte le potenze della penisola: sul confine con Mantova stazionavano le truppe gonzaghesche, e il duca di Milano aveva radunato le sue genti d'arme a Parma. In quegli stessi giorni l'E. inviò il proprio segretario a Lorenzo de' Medici, sollecitando un aiuto. A sostenere Ercole si mosse allora Venezia, che con le navi lungo il Po portò le sue truppe più vicino a Ferrara. Il sostegno armato di Venezia, il controllo delle fortificazioni cittadine e l'alleanza con le personalità e gli uomini politici che meglio conoscevano gli affari degli Stati estensi e ne dirigevano la politica furono tutte circostanze favorevoli a Ercole, che, poche ore dopo la morte di Borso, il 19 agosto, fu proclamato senza contrasti duca di Ferrara. La notizia colse di sorpresa l'E. e i suoi sostenitori esterni che dovettero accettare il fatto compiuto.
In settembre Ercole emanò una grida invitando i sostenitori dell'E. a ritornare in patria, sotto minaccia di bando e della confisca dei beni: Ercole presentava infatti il rivale sconfitto come un ribelle fuggitivo, sostenuto dai nemici dello Stato. È la stessa colpa che all'E. fanno i cronisti ferraresi, quando scrivono: "perché l'è male uscire per le porte per intrare per le mure". Per benignità, o per una sottile beffa, Ercole inviò all'E. il panno per vestirsi a lutto.
L'E. non si dette per vinto, ma tutti i tentativi da lui compiuti per rovesciare il nuovo regime vennero tempestivamente scoperti e repressi con esemplare durezza da Ercole I, consigliato e guidato dal giurista Agostino da Rimini. Così un oste, che trainava con l'E. per fargli conquistare il castello del Finale di Modena, fu orrendamente straziato nelle piazze di Ferrara; così due -emissari dell'E., scoperti a trattare con il castellano della Stellata di Figarolo, furono impiccati. La repressione raggiunse anche alcuni esponenti delle grandi famiglie cittadine: Francesco Strozzi, vicino ad Alberto d'Este, altro fratellastro di Borso, fu messo al bando, e non fu mandato a morte solo per l'intervento dei signori di Mantova e di Milano. In una lettera a Lorenzo de' Medici del 15 dic. 1471 l'E. denunciò un tentativo compiuto da Ercole di farlo avvelenare per il tramite di Niccolò Ariosto, ferrarese; chiedeva inoltre al Magnifico di sostenere la causa della sua successione al Ducato di Ferrara, allora pendente presso la Curia pontificia a Roma. Non ottenne nulla: nel settembre del 1472, infatti, il papa confermò ad Ercole i poteri e il titolo ducale già concessi a Borso.
Negli anni che seguirono ogni tumulto, ogni episodio di opposizione e di resistenza al governo del nuovo duca vennero ricondotti dalla propaganda ufficiale, a ragione o a torto, a trame che l'E. tesseva da Mantova. Del resto, l'esule principe - per quanto il Gonzaga cercasse di dissuaderlo - non attendeva inerte il momento propizio per cercare di rientrare in patria e spodestare il duca. Nel 1476, finalmente, si indusse a venire allo scoperto arruolando armati e mobilitando i suoi amici in vista di un colpo di mano su Ferrara. Godeva in quel momento ancora di molti appoggi e di molte simpatie.
Tra i suoi amici vi era il letterato Cola Montano, che gli era stato presentato da due fiorentini - un Vespucci ed un Albizzi - che ricoprivano uffici nel dominio sforzesco. Tra i suoi sostenitori vi era il condottiero Roberto Sanseverino. Anche a Venezia aveva fautori; e proprio nel territorio di quella Repubblica arruolò la maggior parte dei mercenari che si misero al suo servizio e parteciparono poi all'impresa da lui organizzata. Sembra che un intervento in prima persona dell'E. nelle cose ferraresi fosse visto con favore anche dal duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, e dal signore di Bologna Giovanni Bentivoglio. Tra le ragioni che decisero l'E. a passare all'azione vi fu probabilmente la nascita, avvenuta il 21 luglio di quello stesso anno 1476, di Alfonso, il tanto sospirato figlio maschio - terzo dopo due femmine - di Ercole I, che avrebbe assicurato a quest'ultimo una successione legittima. Nonostante queste premesse, il tentativo dell'E. si risolse in un clamoroso fallimento.
Negli ultimi giorni di agosto, avvisato dai suoi informatori ferraresi che il duca si era allontanato dalla capitale per andare "a solazo" a Belriguardo, l'E. passò all'azione. La mattina del 10 settembre, a bordo di alcune imbarcazioni coperte di paglia raggiunse con i suoi mercenari un tratto delle mura di Ferrara dove erano in corso lavori di restauro. Sbarcato e penetrato nella città attraverso un'apertura provvisoria della cinta, l'E., insieme con i capitani al suo soldo e 600 fanti che inneggiavano alla "vela", la sua insegna, percorse l'abitato sino alla piazza. Lì, smontato da cavallo, cercò di radunare e di far sollevare i Ferraresi, tenendo un'allocuzione per indurli ad unirsi a lui contro Ercole I. Ma i cittadini - anche coloro che avevano conosciuto l'E. - si rifugiarono nelle loro case confusi e spaventati; nessuno si volle unire a lui, che inutilmente arringava il popolo e prometteva riduzioni del prezzo del grano. Ben presto fu chiaro che il colpo di mano dell'E. non era che un vano tentativo senza speranza. Due dei fratelli del duca, radunate qua e là le forze rimaste fedeli ad Ercole I, si diressero verso la piazza, seguiti dal popolo in tumulto. Ci furono tafferugli e gli insorgenti ebbero la peggio. Resosi conto del suo fallimento, l'E. richiamò i suoi capitani ed i suoi uomini e riprese le navi per fuggire sull'altra riva dei Po, verso il Bondeno.
Nei tafferugli non erano mancate le vittime: molti furono i feriti, e vi furono anche alcuni morti, fra i quali un ignaro studente ungherese che non aveva capito le grida che lo invitavano a inneggiare alla "vela".
L'E. fu inseguito nelle campagne lungo il Po e durante la notte fu catturato. Tradotto in Ferrara, venne decapitato il 4 sett. 1476 nel Castelvecchio. La stessa sorte toccò a molti suoi compagni d'avventura, e fra gli altri ad Azzo d'Este, suo cugino. La repressione, inizialmente, fu durissima. Oltre cento degli armati che avevano partecipato all'impresa vennero uccisi mentre cercavano di salvarsi con la fuga e i loro corpi rimasero insepolti nelle campagne attorno a Fertara. Molti cittadini, implicati nel fallito colpo di Stato, furono scoperti e impiccati nei giorni successivi.
Un fallimento così profondo derivava dal fatto che all'E. erano venuti a mancare il consenso e l'appoggio degli antichi fautori suoi e di suo padre rimasti a Ferrara. Senza dubbio, egli aveva sottovalutato la capacità di Ercole I nell'assicurarsi il consenso popolare, unendo autoritarismo e repressione ad atti di clemenza. Il duca, ad esempio, ìntervenne personalmente concedendo la grazia ai soldati che senza colpa avevano prestato aiuto all'E.; e, d'altro canto, fece intendere che la durezza della punizione riservata a quest'ultimo era stata voluta non da lui, ma dai suoi ministri. In quest'ottica va interpretata la sua volontà di rendere onore al nipote, ordinando per lui esequie e sepoltura degne del suo rango: con una solenne cerimonia funebre il corpo dell'E. fu infatti inumato nel sepolcro degli Estensi in S. Francesco.
L'E. non lasciava né famiglia né discendenti.
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