CONTI, Niccolò de'
Di famiglia originaria di Venezia, nacque a Chioggia attorno al 1395 da Giovanni. Alcuni documenti ci attestano l'esistenza di una sorella di nome Lucia, che sposò un chioggiotto di nobile casato, Andrea Viviani, e di un fratello di nome Giovanni. Dalla moglie indiana, morta di peste al Cairo fra il 1438 e il 1439, che conobbe e sposo nel corso delle sue lunghe peregrinazioni, ebbe quattro figli, due dei quali rimasero anch'essi vittime al Cairo della stessa epidemia di peste, mentre gli altri due, di nome Maria e Daniele (che sposò Elisabetta Vacca fu Giovanni), tornarono con lui in Italia.
Nulla si sa della sua infanzia: le prime notizie che possediamo su di lui ce lo indicano presente a Damasco, da dove nel 1414 ebbero inizio le sue lunghe peregrinazioni nel Medio e nell'Estremo Oriente. Dopo aver appreso la lingua moresca, durante il suo soggiorno in quella città, egli si aggregò ad una carovana di árabi ed assieme con essi attraversò il deserto siriaco, il vasto territorio compreso fra Damasco e l'Eufrate, e percorse la Mesopotamia per fermarsi a Bagdad. Poi, navigando lungo il Tigri e l'Eufrate ed attraverso i canali che uniscono questi due fiumi e che da essi si diramano, giunse a Bassora e, successivamente, alla foce dello Shatt al-'Arab. Navigò in seguito tutto il golfo Persico fino a Bandar 'Abbās ed alla vicina isola di Hormūz, dopo la quale il primo porto toccato dalla nave fu quello di Kalhat nel golfo di 'Omān. Da Kalhat a Cambay il C. impiegò un mese di navigazione, per cui è presumibile che essa si sia svolta prevalentemente lungo le coste. Dopo venti giorni toccò due città, poste sul mare, appartenenti certamente a quella parte della costa che prende il nome di Kanan: la città di Pachamur, corrispondente all'attuale Barkur, a nord di Mangalore, e la città di Helly, oggi scomparsa.
A questo punto dalla zona costiera il C. si inoltrò anche verso l'interno, ma non è possibile ricostruire con precisione il suo itinerario. Parlando del viaggio di andata non nomina nessuna città - il che ci fa presumere che non abbia compiuto nessuna sosta di un certo significato - mentre, durante il ritorno, si fermò a Pelagonda (Penukonda), Odesghiria e Cenderghiria, centri, questi ultimi due, dei quali gli studiosi non sono riusciti a trovare i corrispondenti odierni. Questa parte dell'itinerario del C. resta tuttavia la più discussa e controversa da quanti se ne sono occupati anche perché in essa numerose, più che in altri passi, appaiono le notizie forniteci dal C. sulla base di informazioni ricevute da altri, o addirittura le aggiunte del Bracciolini, che compilò la relazione.
Ad ogni modo è assai probabile che, tornato dall'intemo sulla costa del Malabar, il C. abbia raggiunto prima i dintorni di Madras e poi Malapur, dove era vivo il culto di s. Tommaso, venerato dai nestoriani. Lasciata poi l'India al di qua del Gange, il C. navigò verso Sumatra, superando, alla sua destra, l'arcipelago delle Andamane. Neppure in questo caso ci dice dove si è fermato, nonostante abbia compiuto una sosta piuttosto lunga, ma è quasi certo che l'emporio di sei miglia di circuito al quale approdò si trovasse sulla costa settentrionale, nel territorio degli Accinesi.
Piuttosto imprecise sono le notizie sullo sviluppo costiero di Sumatra forniteci dalla relazione del C., ed anche per quel che riguarda gli abitanti dell'isola, accanto a dati attendibili, si possono trovare riferimenti di natura favolistica.
Da Sumatra egli passò alla penisola trarisgangetica e, dopo sedici giorni di navigazione, spinto da una tempesta, approdò sulla costa della regione di Tenasserim, in Birmania, alla città dello stesso nome, posta sull'omonimo fiume. Subito dopo, viaggiando parte via terra e parte lungo il mare, si diresse alla volta del Gange, lungo il quale proseguì prima per quindici giorni fino a Cernove e poi per tre mesi fino alla famosa città di Maarazia, da dove continuò verso certi monti ricchi di diamanti posti ad oriente, per tornare a Cemove, non più però attraverso il Gange, e giungere infine a Buffetania.
Anche questa parte dell'itinerario del C. ha sollevato numerose discussioni e perplessità fra i critici del testo della sua relazione, soprattutto per quel che riguarda l'identificazione di Buffetania. Infatti dovrebbe trattarsi di un centro già raggiunto in precedenza, in quanto Poggio Bracciolini usa l'espressione "rediit", ed in questo caso l'ipotesi più probabile è che debba trattarsi di Pudifetania, sulla costa orientale del Deccan.
L'itinerario da lui percorso lungo la penisola indocinese non presenta invece dubbi: dalle foci del fiume Kuladan giunse, in sei giorni, alla città dallo stesso nome (forse l'attuale Mrohung), posta su un canale che si diparte dal fiume verso NE, e di qui, tagliando l'Arakan, il quale proprio ad E della città presenta un'interruzione che permette di valicare facilmente la catena, in poco più di un mese arrivò al fiume Irrawaddy, per toccare infine la città di Ava dopo un altro mese di navigazione controcorrente.
Anche in questo tratto della narrazione numerose appaiono le informazioni avute dal C. per via indiretta o gli interventi e le digressioni introdotte dal Bracciolini: assai evidente è, ad esempio, il richiamo all'Historia naturalis di Plinio nella parte dedicata alla cattura degli elefanti. Particolarmente discusso è poi il passo contenente accenni a città e territori della Cina meridionale, dove è assolutamente da escludere che il C. si sia recato.
Da Ava ripartì dirigendosi verso il mare, che raggiunse dopo diciassette giorni, là dove sbocca un fiume non grande, precisazione che porterebbe ad escludere l'Irrawaddy a favore del Sittang, lungo il quale oggi corre la ferrovia che da Rangoon porta a Mandalay. Alla foce del Sittang, il C. trovò la città di Zeython; poi, entrato in un altro fiume (forse qualche ramo dell'Irrawaddy), dopo dieci giorni arrivo a Panconia o Pauconia. Si fermò quindi ben quattro mesi a Pegu, che un breve fiume mette in comunicazione con il delta del Sittang e che un altro corso d'acqua unisce all'Irrawaddy.
Riprendendo poi la via del mare. dopo un mese di navigazione passò davanti a quelle che lui chiama le due Giave, poste a cento miglia di distanza l'una dall'altra: doveva trattarsi dell'isola di Giava propriamente detta e dell'isola di Borneo. Sostò a lungo (complessivamente per nove mesi) su tutte due: lo colpirono soprattutto la ferocia dei costumi dei loro abitanti ed alcuni particolari della fauna dell'isola di Borrieo. Egli ci ha fornito delle notizie anche su due isole poste più ad Oriente, a quindici giorni di distanza dalle precedenti: poiché egli fa presente che producevano noci moscate e garofani è lecito ipotizzare che si riferisse a Celebes ed alle Molucche. Non andò però oltre queste isole, come qualcuno ha voluto sostenere, perché, riprendendo il resoconto dei suoi viaggi, afferma che, lasciate le due Giave, si diresse verso occidente per approdare, dopo un mese di viaggio, a Ciampa, il punto estremo al quale egli pervenne sul continente asiatico.
Da Ciampa iniziò infatti il viaggio di ritorno: in un mese, più o meno il tempo impiegato in precedenza, dall'Indonesia tornò in India, al di qua del Gange, fermandosi a Coloen, da identificarsi con la moderna Quilon. Da Coloen si recò a Coscin o Cocym, città attraversata dal fiume omonimo e posta più a N, sulla costa del Malabar, a tre giorni di distanza. Toccò in seguito Kranganur o Cranganore (posta a N della laguna di Colonguria che si trovava a sua volta a N di Coscin), Paluria, Meliancot (centri sulla cui identificazione sono state avanzate supposizioni discordanti), ed infine Calicut, allora uno degli empori più ricchi e frequentati delle Indie orientali, da dove si allontanò per poi ritornarvi e raggiungere, in quindici giorni, Cambay.
Ripreso il mare alla volta dei Mar Rosso, in due mesi giunse all'isola di Socotra, distante cento miglia dal continente africano. Con altri cinque giorni di navigazione arrivò poi ad Aden e da qui, in altri sette giorni, a Berbera. Un mese di ulteriore navigazione lungo il Mar Rosso lo condusse a Gidda ed altri due mesi, resi difficili dalle condizioni dei mare, gli permisero di arrivare ad un porto della penisola del Sinai, da dove il viaggio fino al Cairo si svolse via terra.
In Egitto dovette attendere per ben due anni il salvacondotto del sultano per poter attraversare le terre a lui soggette. Dovette anche rinnegare la fede cristiana per aver salva la vita e venne derubato delle sue sostanze. In questo stesso periodo, inoltre, a causa di un'epidemia di peste perse, come si è detto, la moglie, due figli e gran parte dei suoi servi. Sempre durante la sua permanenza al Cairo, nel 1437 avrebbe incontrato il viaggiatore catalano Pero Tafur, se vogliamo prestar fede ad una testimonianza di costui, a proposito della quale sono state però formulate numerose riserve. Riserve che sono state espresse pure a proposito delle congetture avanzate dal Bellemo, il quale ha sostenuto, sulla base di certe disposizioni contenute nel testamento del C., che il viaggiatore chioggiotto, prima di ritornare in Italia avrebbe soggiornato in Spagna ed anche alle isole Baleari fra gli ultimi mesi del 1438 e la prima parte del 1439.
Ritornato ad ogni modo in Italia nel 1439, si recò a Firenze, dove si stava allora svolgendo il concilio, per implorare dal pontefice Eugenio IV il perdono per essersi convertito all'islamismo. In quella circostanza Poggio Bracciolini, allora segretario del pontefice, poté ascoltare e raccogliere il resoconto che il C. fece delle sue peripezie alla presenza anche di altri dignitari e dotti.
Rientrato infine a Chioggia fra il 1449 e il 1450, dopo un decennio nel corso del quale risiedette con tutta probabilità a Venezia, dedicandosi a vari traffici di natura commerciale., ricoprì numerosi incarichi affidatigli dal Consiglio della sua città natale. Ricorderemo solo quelli più significativi. Nel 1453 fu eletto procuratore della chiesa di S. Francesco. Nel 1454 fu inviato a Venezia, insieme con un altro concittadino, per trattare alcuni problemi affidatigli dal podestà. Assieme con altri concittadini si recò nuovamente a Venezia, per conferire con il doge, anche l'anno successivo. Nel 1460 venne eletto procuratore della chiesa di S. Croce. Nel 1461 fu inviato a Faenza per acquistare grano e nel 1462 nelle Puglie per acquistare olio. Nel 1463 fu eletto nella giun ta incaricata di provvedere frumento. Ricevette anche il titolo di conte palatino, con la facoltà di creare notai.
Morì probabilmente a Chioggia nel 1469: risulta infatti che il testamento venne aperto il 10 ag. 1469 dal podestà Nicolò Mocenigo.
Il resoconto dei viaggi del C. fu inserito da Poggio Bracciolini nel quarto libro delle sue Historiae de varietate fortanae, redatto nel 1447 (ed. a cura di D. Georgio-G. Oliva, Lutetiae Parisoruni 1721 pp. 126-152) e conobbe subito una larga diffusione come si può desumere dal notevole numero di manoscritti coevi che sono giunti fino a noi. Il Longhena ne aveva individuati trentuno (ben ventotto appartenenti al XV secolo), di cui ventiquattro conservati in Italia (ben dieci - fra l'altro tutti, tranne uno, del XV secolo - a Roma nella Biblioteca Apostolica Vaticana; sei a Firenze, fra i quali uno, in pergamena, che si conserva alla Biblioteca nazionale, con la data del 1448, il più vicino quindi all'anno di compilazione fra tutti i manoscritti recanti una data; tre a Milano e i rimanenti a Venezia, San Daniele dei Friuli, Ravenna e Parma), gli altri all'estero (tre nella Biblioteca nazionale di Parigi, due ad Oxford ed i rimanenti a Lione ed alla Biblioteca universitaria di Gottinga: quest'ultimo sarebbe la copia offerta al pontefice). Che l'interesse per il trattato dell'umanista fiorentino fosse rivolto prevalentemente alla parte dedicata alle vicende del viaggiatore chioggiotto si desume dal fatto che ben tredici di questi manoscritti contenevano solo il quarto libro del De varietate fortunae, a cominciare proprio dal più vecchio di tutti, quello della Biblioteca nazionale di Firenze recante la data del 1448.
La prima edizione del testo latino del De varietate fortunae, limitata al solo quarto libro, dal titolo India recognita, stampata a Cremona, fu curata da Ulrico Scinzenzeler e porta la data del 5 febbr. 1492 (se ne conosce una sola copia, quella della British Library). Da questa edizione cremonese venne in seguito ricavata la traduzione portoghese, dovuta a Valentini Fernandez, pubblicata a Lisbona nel 1502, che servì a sua volta come testo per la prima edizione in lingua italiana, inserita dal Ramusio nella sua famosa raccolta Delle navigazioni et viaggi (nella recente edizione einaudiana curata da M. Milanesi il racconto del C. è nel secondo volume, Torino 1979, pp. 481-820). Si conoscono anche due edizioni spagnole del 1503 (Siviglia) e del 1529 (Logrono), dovute a Rodrigo de Santaella. Tre sono le edizioni olandesi, tutte relativamente recenti: la prima, a cura di J. H. Glazenmaker, fu stampata ad Amsterdam nel 1664 da Abraham Wolfgang; la seconda e la terza furono stampate a Leida nel 1706 e nel 1707, entrambe da Pieter van der Aa. Due sono invece le edizioni inglesi: una del 1625; l'altra del 1857, curata da R. H. Major ed edita dalla Hakluyt Society.
La diffusione pressoché immediata dei dati e delle notizie contenute nel resoconto del viaggio del C. si può dedurre pure dall'analisi delle principali rappresentazioni cartografiche della metà del Quattrocento, a partire dalla carta del 1447 (anno nel quale, lo ricordiamo, fu redatto il De varietate fortunae) della Biblioteca nazionale di Firenze e dal famoso mappamondo del camaldolese fra' Mauro, in quest'ultimo caso soprattutto per quel che concerne la valle del Gange e dell'Irrawaddy. Sempre in quegli stessi anni papa Pio II nei capitoli X e XV della sua Cosmographia seu rerum ubique gestarum locorumque descriptio, composta per l'appunto attorno alla metà dei XV secolo, facendo riferimento rispettivamente alla Cina ed alla Birmania, riporta, pur avanzando alcune riserve, le notizie fornite al riguardo dal C., riprendendo quasi alla lettera il testo del Bracciolini.
La fortuna conosciuta dalla relazione del viaggio del C. presso i contemporanei e anche in seguito si spiega col fatto che tra i viaggiatori medievali egli occupa un posto di notevole rilievo, accanto a Marco Polo e ad Ibn Battútah, non solo per l'ampiezza e l'eccezionalità del suo itinerario, ma per le sue notevoli capacità di osservazione e quindi per la sostanziale esattezza delle notizie che ci seppe trasmettere; esattezza che ha trovato conferma, in molti casi, nelle relazioni dei successivi viaggiatori.
Le informazioni trasmesseci dalla relazione dei suoi viaggi si sono dimostrate generalmente esatte sia per quanto riguarda le indicazioni delle direzioni e delle distanze, sia anche per quel che concerne le particolarità topografiche fornite in riferimento alle piùimportanti città da lui ricordate e descritte. Tendenzialmente esatte sono state trovate dai viaggiatori moderni pure le indicazioni relative ai costumi dei vari popoli delle Indie, ai quali è dedicata in larga misura la seconda parte della relazione, una specie di piccolo trattato di natura antropogeografica (numerose sono in essa pure le descrizioni di animali tipici e di piante rare di quelle terre) che segue alla narrazione vera e propria del viaggio.
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