CONTI, Niccolò dei
Fu veneto e propriamente di Chioggia. Dalla data della sua morte, avvenuta nel 1469, e dalle notizie che abbiamo sugli ultimi venti anni della sua vita possiamo dedurre entro quale periodo sia da porre la sua nascita.
Se nel 1468 è nominato insieme con altri tre cittadini per provvedere alle cose frumentarie, se fra il 1460 e il 1468 è investito di altre cariche che lo portano anche lontano dalla sua città, è da presumere che il C. fosse avanti negli anni, ma non decrepito. Inoltre, se accogliamo la narrazione di Poggio Bracciolini - quello fra i contemporanei del C. che più merita fiducia per ciò che si riferisce a lui - dobbiamo porre fra il 1414 e il 1439 il viaggio del C. in Asia; e poiché si sa che si portò in Asia giovanetto, è probabile che sia nato intorno al 1395.
N. dei C. si dà ancor giovinetto ai commerci e verso il 1414 lo troviamo per questo scopo a Damasco. Da Damasco imprende lunghi viaggi per l'Asia meridionale e l'Asia insulare, e ritorna in patria soltanto dopo 25 anni. Costretto, nella via del ritorno, ad abiurare la propria fede, appena tornato in Italia si affretta a chiedere al pontefice d'essere riammesso nel grembo della Chiesa (intorno al 1439). Poi nella vita del nostro viaggiatore c'è una parentesi di quasi un decennio (1439-1449); e noi supponiamo che questo periodo sia stato di vivace attività commerciale, nella sua Venezia, dove, sfruttando le conoscenze apprese durante le sue navigazioni, egli continua a mercanteggiare e ad arricchire. Il 1449 è l'anno del suo testamento, e da quest'anno comincia l'ultimo periodo della sua vita, quello del godimento dell'agiatezza, alternato con incarichi a lui commessi dai suoi concittadini. Ma la ragione prima, per cui il suo nome è famoso, deve ricercarsi nei viaggi che egli fece nella sua giovinezza e nella forte maturità, dal 1414 al 1439 all'incirca.
Di questi viaggi abbiamo due fonti, di assai diverso valore; l'una italiana, l'altra spagnola: Francesco Poggio Bracciolini da Terranova (Toscana) che nel IV libro del suo De varietate fortunae, composto nel 1447 e dedicato al pontefice Nicolò V, espone i viaggi compiuti dal C.; e Pedro Tafur, che narra le sue varie peregrinazioni nei paesi del Mediterraneo, durante le quali, essendogli accaduto d'incontrare il C., insieme con le proprie vicende mescola i casi toccati al C., ch'egli espone in una prosa che ha forte sapore di fantasia.
La narrazione del Bracciolini, contemporaneo del C. (1380-1459), suscitò presso i contemporanei un interesse largamente dimostrato dal numero grande dei manoscritti che ci restano del De varietate fortunae: 31, dei quali 24 in Italia e 7 in Francia, Germania e Inghilterra; si hanno anche 2 traduzioni italiane. Quasi tutti i manoscritti, meno due, sono del Quattrocento, qualcuno di poco posteriore all'anno di composizione del trattato; anche le due traduzioni sono dello stesso secolo. Molte sono pure le edizioni del testo latino e di traduzioni in portoghese, in spagnolo, in olandese e in inglese; v'è inoltre il riassunto del Ramusio, tratto dalla traduzione portoghese, e ripubblicato più volte nell'Ottocento. La prima edizione del testo latino è del 1492; la seconda è del 1723 e fu stampata a Parigi; dell'Ottocento e dei primi anni del secolo presente sono altre cinque edizioni, intere o quasi, ripetizioni del testo del 1723 o collazionate con qualcuno dei manoscritti delle biblioteche italiane.
Il viaggio del C. ha principio da Damasco, dove l'aveva condotto il desiderio dei traffici. In questa città, centro notevole commerciale e punto di partenza delle carovane, apprende l'arabo; poi, unitosi a una numerosa carovana, attraverso il deserto siriaco, si reca a Baghdād. Poco vi si trattiene: navigando sul Tigri, sui canali che uniscono il Tigri all'Eufrate e sull'Eufrate, arriva a Bassora, e poi alle foci dei due fiumi gemelli, donde ha la visione dell'Oceano Indiano. Navigato tutto il Golfo fìno a Bandar ‛Abbās e a Hormūz fa sosta sulla costa arabica al porto di Kalhat, ora non più esistente che come umile villaggio, dove apprende un po' di persiano, e di qui in un mese si porta, forse costeggiando, a Kambāyah. Da Kambāyah, movendo verso il sud, lungo la costa, incontra Pachamuria o Barkur ed Helli - città questa che un tempo sorgeva presso il monte Delly - entrambe poste nel paese dello zenzero, del qual prodotto enumera le varietà. Dal mare penetra dentro terra e compie un ampio giro per il Deccan, toccando Bizenegalia (Vijiayanagar), Pelagonda (Penukonda), Odesghiria e Cenderghiria. Torna quindi alla costa malabarica, press'a poco là donde era penetrato nell'interno, e da Pudifetania naviga verso Caila (Kayal), presso il Tambraparni, nell'insenatura di Manar, vede Ceylon, di cui dà qualche cenno senza però dire di esservisi fermato, e poi tocca Malpuria o Mailapur, presso Madras.
Dalla costa del Coromandel naviga a Sumatra, passando fra le isole Andamane e il Capo Negrais. A Sumatra si ferma in qualcuno dei centri del nord, forse nella terra degli Accinesi che ebbe in quei tempi periodi di vera floridezza; dell'isola dà cenni circa la flora e ricorda i Batacchi, gente fiera e sempre in lotta con i vicini.
Partito da Sumatra è sbattuto da una tempesta sulla costa del Tenasserim, donde, forse per compiere il disegno interrotto, si dirige al Gange. Qui la narrazione di Poggio diventa assai vaga: il C. risale il Gange per tre mesi, trova parecchie città, poi per terra ritorna al centro più vicino alla foce del Gange, Cernove, e di qui alla costa del Malabar, a Pudifetania, forse centro dei suoi commerci.
Da Pudifetania muove di nuovo verso est e naviga per un mese fino alla foce del fiume Rachano o Arakan. Risalito il fiume, è raggiunta la città dello stesso nome, forse Mrohaung, poi è attraversata la catena dell'Arakan ed è toccato, dopo parecchi giorni, il fiume Irawady (che il Conti chiama il fiume di Dava). Pure visitata è Ava, già capitale d'un potente regno.
Qui hanno fine le peregrinazioni terrestri del C. Ciò che poi gli fa dire il Bracciolini circa terre più interne, è notizia dotta che il narratore aggiunge o è informazione che dà il viaggiatore stesso, ben guardandosi dal riferirla come cosa propria. Nel che ci conferma il testo. Difatti il C., dopo la parentesi, diremo così, cinese, ricominciando il suo racconto dice che partito da Ava giunge un po' per terra e un po' per fiume a Xeythona e di qui a Panconia, l'uno e l'altro centri dell'Indocina di qua dalla penisola di Malacca.
A Panconia (forse Pegu) il C. si ferma quattro mesi, di qui va a due isole che chiama Giava - la Giava Maior (forse Borneo) e la Giava Minor (Giava propria) - e anche in esse dimora parecchi mesi. A Sandai e a Banda non va, ma di esse riferisce notizie avute da altri. Le due Giave sono le estreme terre toccate: da esse, dopo una deviazione alla penisola indocinese, in cui approda in una città chiamata Ciampa, comincia la via del ritorno: Coloe (Quilon), Cocin (Cochin), Colonguria (Kranganur), Paluria (il villaggio odierno di Palur), Meliancota (forse Malappuram), Collicuthia (Calicut) e Cambahita (Kambāyah) accolgono il C., che da Kambāyah torna a Calicut e quindi attraversa il mare arabico approdando all'isola di Socotra. Adena (‛Aden), Barbora (Berbera), Gidda e un porto presso il monte Sinai sono le ultime località visitate. Dalla spiaggia del M. Sinai va al Cairo, e dal Cairo rimpatria.
Nella seconda parte della relazione di Poggio, che fu definita da taluno un trattatello di antropogeografia, c'è un bel numero di notizie e di fatti che indubbiamente il narratore deve aveie attinto dal racconto del C., ma non poco è anche quello che Poggio aggiunge da altre fonti. Vi è narrata la vita, vi sono descritti i costumi degl'Indiani, vi sono larghi ceimi sulla religione, sulla flora e sulla fauna del paese.
Da Poggio sappiamo che i viaggi del C. durarono 25 anni, dei quali soltanto quattro, a un dipresso, sappiamo in che modo e dove siano stati spesi. D'altronde, poiché il C. fu uomo d'affari e sfidò tanti pericoli soltanto per intraprendere commerci e arricchire, dobbiamo considerare speso nell'attività della mercatura tutto intero quel lungo periodo.
Certo i lunghi viaggi resero in lui assai viva la capacità dell'osservare, e per questo troviamo tanto interessante e meritevole d'attenzione la sua narrazione, la quale fin che riferisce cose a cui nulla poteva aggiungere Poggio, è da credere sia fedele riassunto delle cose osservate e narrate.
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