DELL'ANTELLA, Niccolo
Nacque a Firenze il 4 luglio 1560 da Filippo di Giovanni e da Maria Capponi.
Dei cinque figli nati da questo matrimonio, Niccolò, Cosimo e Francesco furono avviati alle tradizionali carriere delle famiglie dell'oligarchia fiorentina. In particolare Cosimo (Firenze 1563-1640), dopo aver studiato a Padova e Pisa divenne istitutore e aio delle figlie di Cosimo II, Margherita e Anna.
Cavaliere dell'Ordine di S. Stefano dal 1607, per ragioni di opportunità politica essendo preferito al fratello Niccolò, che ricopriva la carica di auditore della Religione di S. Stefano, fu titolare della commenda istituita per i due fratelli dal testamento del cugino Cosimo Dell'Antella, già vicario generale dell'arcidiocesi di Firenze. Nel 1629 fu nominato senatore. Ricoprì inoltre numerosi incarichi nelle principali magistrature fiorentine.
Il figlio minore di Filippo, Francesco (Firenze 1567-1624), fu invece cavaliere professo dell'Ordine di Malta e dal 1609 maggiordomo del granduca Cosimo II, uno dei vari incarichi di corte riservati ai membri dell'aristocrazia.
Il D. è comunque la figura di maggior spicco della famiglia. Dopo avere studiato a Pisa, Padova e Perugia si laureò in utroque iure nello Studio pisano il 14 sett. 1585. Immatricolatosi quindi all'arte dei giudici e notai poté intraprendere non solo la carriera forense ma anche quella politica.
Nelle varie magistrature della città di Firenze, infatti, accanto ai consiglieri, eletto per tratta tra i cittadini fiorentini abilitati agli uffici, vennero prendendo sempre maggiore importanza i funzionari stabili, che potevano svolgere mansioni di carattere amministrativo e finanziario (come i cancellieri, i provveditori e i camarlinghi) oppure di carattere legale (come gli auditori, i consultori o gli assessori). Questi ultimi dovevano essere dottori in legge ed erano chiamati a sbrigare tutte le cause, pendenti davanti al magistrato, che non potevano essere svolte da un tipo di personale non specializzato come era quello dei cittadini eletti per tratta.
Ragioni di indole politica, soprattutto, ma anche il numero esiguo di dottori in legge fra i membri dell'oligarchia fiorentina, avevano fatto sì che per tutto il Cinquecento e in particolare sotto Cosimo I questa sorta di consultori legali, che tanta parte avranno nel processo di riorganizzazione dello Stato attuato dal giovane principe, fosse in prevalenza di origine non fiorentina. Scelti spesso fra i giudici di Ruota, che per legge dovevano essere forestieri, tali dottori, dopo essere stati nominati assessori o consultori nelle varie magistrature della città, potevano percorrere i vari gradini della burocrazia fino a divenire i più diretti consiglieri del principe.
Il tentativo di Cosimo I di confinare l'aristocrazia fiorentina dentro il Senato e le magistrature, ricorrendo ad una burocrazia formata da uomini estranei alla città e spesso di origine borghese, non resse tuttavia, sotto i suoi successori, alla riscossa del patriziato che, già agli inizi del sec. XVII, riuscì ad inserirsi nei posti per designazione e in alcuni dei settori della burocrazia. Questo rilancio della posizione sociale e politica della nobiltà, per il quale Diaz ha usato il termine "rifeudalizzazione" si acuì nel terzo decennio del secolo sotto il governo della reggenza e il D., che non a caso fu uno dei membri del Consiglio di reggenza, ne può essere considerato un tipico esempio.
Nominato scudiero di corte del granduca Ferdinando I nel 1587, il D. iniziò la sua carriera di consultore legale cinque anni dopo, grazie anche all'influenza esercitata a corte dallo zio Donato. Nel 1592 infatti il granduca volle sottoporre al Senato de' quarantotto e alla Pratica segreta un progetto per contenere l'espandersi della manomorta ecclesiastica in Toscana.
Di fronte all'atteggiamento prudentemente favorevole alla Chiesa e quindi contrario ad ogni intervento in questo campo dei due organi di governo fu deciso di sottoporre la questione ad una commissione di giuristi, fra i quali appunto anche il Dell'Antella. Purtroppo il parere del D. risulta fra quelli dispersi; si sa tuttavia che l'atteggiamento prevalentemente ostile della maggioranza dei membri della commissione costrinse Ferdinando a recedere dal suo proposito.
Allo stesso periodo risale anche la nomina del D. ad assessore dell'arte dei fabbricanti (29 genn. 1593), carica che conserverà fino alla morte. Eletto quindi tra i membri del Consiglio dei duecento nel 1599 poté intraprendere, accanto all'attività più specifica di consultore legale, anche il tradizionale cursus honorum riservato ai cittadini fiorentini abilitati agli uffici.
Il vero salto di qualità nella sua carriera politica avvenne però con la nomina ad auditore della Religione di S. Stefano del 28 dic. 1605. A questa carica, infatti, che fu sempre "una delle più cospicue, delle più autorevoli e graziose che dia il granduca, suole assumersi uno dei primi cavalieri legali della nostra città in cui sia prudenza e testa".
Nel maggio 1608 il D. ottenne la nomina a senatore, riconoscimento, anche formale, dei servizi resi al granduca. A questa data la famiglia dell'Antella venne ad essere presente con due membri nel Senato de' quarantotto, un privilegio concesso a poche tra le importanti famiglie dell'aristocrazia fiorentina. Divenuto senatore, il D. venne anche proposto come luogotenente del granduca nell'Accademia del disegno, dalla quale dipendevano gli architetti, i pittori e gli scultori.
La progressiva ascesa del D. segna un'altra importante tappa nel 1610, quando, con la morte del primo auditore Paolo Vinta, gli furono attribuite alcune delle sue mansioni. Tra queste "la sottoscrizione di tutte le lettere che scrive il magistrato dei consiglieri et d'altri magistrati per le elemosine che si distribuiscono ai luoghi pii ogni tre mesi, le licenze dei possessori dei beni ecclesiastici et delle speditioni che vengono da Roma, da qual si vogli tribunale o ministro in qual si voglia materia che non si possono eseguire senza licenza di qua, le licenze dell'armi prohibite che si mettono e cavano di Firenze et che si trasportano da un luogo all'altro, la licenza delle cose che si danno alla stampa in questo di Firenze". Nello stesso anno fu nominato consultore dei Nove conservatori, carica che aveva ricoperto anche in precedenza "servendo il magistrato ... senza premio né ricognizione alcuna ordinaria né straordinaria".
Questi nuovi impegni non lo distolsero comunque dal continuare ad interessarsi prevalentemente di questioni giuridiche. Nel 1612 figurò infatti insieme con Giovanni Venturi, Giulio Arrighetti e Bernardo Neretti, tutti avvocati, tra i riformatori del Collegio degli avvocati, incaricati di meglio regolamentare i requisiti richiesti per l'ammissione all'arte dei giudici e notai e quelli per potere accedere al Collegio, nonché l'autorità e i diritti che gli avvocati di Collegio dovevano avere.
L'anno successivo il D. preparò, insieme con Pietro Cavallo auditore fiscale, un memoriale sulla Ruota civile o Consiglio di giustizia della città di Firenze.
Nella loro relazione i due fanno risalire il cattivo funzionamento della giustizia dello Stato anche all'insufficiente paga dei giudici di Ruota. La somma di 500 scudi, oltre all'abitazione, rimasta invariata dal 1502, se poteva essere considerata sufficiente allora, "hoggi - scrivono - per essere il vivere grandemente rincarato viene a rimanere provisione assai scarsa".
La legge 1° sett. 1613, aderendo a questa ipotesi, cercava di migliorare la situazione aumentando lo stipendio dei giudici di 200 scudi l'anno, da pagare, come era stato proposto dai due auditori, con l'istituzione per le cause commissarie ordinarie e delegate di "certa tassa sotto il nome di sportule con qualche regola o tariffa da arbitrarsi et ordinarsi da chi di mano in mano dipendesse la causa ...".
Infine dal maggio 1615 figurò come assessore della Magona "al quale attiene il decidere le cause spettanti al negozio del ferro".
Nel 1617 il D. subentrò, come era allora consuetudine, al cugino Donato nella carica di soprassindaco dei Nove, carica che la famiglia tenne ininterrottamente dal 1587 fino al 1621. Questa nomina gli apriva l'accesso alla Pratica segreta, consiglio ristretto dei più alti funzionari della burocrazia, dove il D. assunse un ruolo di primo piano. Molti processi - si legge infatti in una memoria anonima e senza data - "che dovrebbero essere visti dal segretario che riferisse alla Pratica, oggi devono essere visti dal fiscale, occupatissimo in altro, o da alcuni dottori della Pratica nella quale oggi non è altro dottore che il consigliere Dell'Antella, o devono essere visti dal cancelliere e così non si spediscono se non con lunghezza grandissima".
Nello stesso anno il D. dovette interessarsi di nuovo all'annosa questione della manomorta ecclesiastica. Espose all'ambasciatore toscano a Roma, Pietro Guicciardini, un nuovo progetto per limitare l'espansione della proprietà ecclesiastica in Toscana. Nel "negotio", forse direttamente preparato dal D., si proponeva l'erezione di un "Monte sopra le publiche entrate con fondo buono e sicuro di valsente di 150.000 (1 200.000 scudi ... che fruttasse a ragion di quattro per cento o quattro e un quarto" dove gli ecclesiastici potessero investire il ricavato dei beni da loro venduti. Tale Monte, che doveva essere non redimibile e non alienabile senza licenza della S. Sede, avrebbe permesso un utile maggiore agli enti ecclesiastici, dal momento che, come era sottolineato nel progetto, in un'agricoltura come quella toscana, bisognosa di una gran quantità di capitale e di lavoro, essi non riuscivano a ricavare nella migliore delle ipotesi più del 2,50%.
Anche questo tentativo era però destinato a fallire; il Guicciardini, infatti, che doveva dare il suo parere circa la proponibilità al pontefice del "negotio" rispose negativamente. La Chiesa, disse, non mira tanto al profitto che può ricavare dai suoi beni quanto al loro incremento "perché quanto più si augmentano e multiplicano i loro beni, tanto più hanno modo di multiplicarsi loro stessi et così aumenta il numero dei suggetti alli ecclesiastici et si diminuisce quello dei vassalli dei principi laici ...". Essa inoltre, aggiunse l'ambasciatore, non vede di buon occhio la concorrenza che i Monti degli Stati laici vengono a fare a quelli di Roma e lo stato di dipendenza che in questo modo i luoghi pii verrebbero ad avere con i principi dei vari Stati.
Consigliere di Ferdinando I e poi di Cosimo II, alla morte di quest'ultimo, nel febbraio 1621, il D. venne chiamato a fare parte del Consiglio di reggenza, espressamente voluto dal granduca a causa della minore età del figlio Ferdinando. Di tale Consiglio facevano parte, oltre alle due tutrici, anche l'arcivescovo di Pisa Giuliano de' Medici, il conte Orso d'Elci già ambasciatore in Spagna e il marchese Gian Francesco Del Monte, comandante generale delle milizie toscane. Con un "appuntamento" annuo di 2.000 scudi questa carica sanciva la definitiva affermazione non solo politica, ma anche sociale del D., che nel frattempo, quasi a voler confermare anche esteriormente la sua affermazione, aveva provveduto ad iniziare la costruzione del nuovo palazzo in piazza S. Croce.
Dal matrimonio contratto con Costanza Del Barbigia l'11 ott. 1593, con una dote di 5.800 fiorini, il D. aveva ricevuto anche una casa posta nella piazza S.Croce; dopo l'acquisto fatto dallo stesso D. di un'altra casa confinante con questa, egli poté concepire la costruzione del palazzo ancora oggi esistente nella piazza fiorentina (1619-1620). All'opera parteciparono l'architetto Giulio Parigi e, fra i pittori che dipinsero la facciata prospicente la piazza, il Passignano, il Rosselli, Giovanni da San Giovanni, Ottavio Vannini e Fabrizio Boschi.
Poco prima della morte, nel marzo 1630, il D. intervenne sul problema del ruolo dell'aristocrazia ai vertici dello Stato, sollevando la questione della precedenza da accordarsi ai membri del Senato sugli auditori, con uno scritto dal titolo Ragioni di precedenza a favore dei signori senatori con i signori auditori, nel quale rivendicava il ruolo centrale del Senato, roccaforte dell'oligarchia fiorentina, paragonato alle "membra di questo corpo ddel quale è capo il Principe", e quindi la superiorità dei senatori sugli auditori "non membri di questo corpo, ma solo ministri".
Giocando abilmente sul rapporto fra potere reale (tutto concentrato nelle mani del principe) e potere formale (che le ordinazioni del 1532 avevano assegnato al magistrato dei Consiglieri, al Senato e al Consiglio dei duecento) e ricorrendo alla precedente legislazione il D. mirava a salvaguardare la dignità di senatore "che non è altro che una stima che fa il principe di quelle persone che elegge a tal dignità, a guisa colma di honore e tanto sarà stimata tal dignità quanto sarà mantenuta dal medesimo principe in grado e non avvilita perché è noto detta dignità porta seco poca auctorità e manco utile sendo maggiori le brighe che i comodi".
Quindi precedenza al consesso nobiliare che è in fondo il Senato, tanto che il D. non accettò neppure il rescritto granducale del 22 marzo 1630: "S.A. vuole che li senatori precedino a tutti li auditori, eccetto che alla Ruota e al Fiscale". Alla fine tuttavia egli dovette accontentarsi di una vittoria personale, quando il segretario di Ferdinando II, A. Cioli, gli comunicò che, fermo restando il tenore del rescritto del 22 marzo, a lui in quanto consigliere di Stato era comunque assicurata la precedenza rispetto al Fiscale.
Morì il 20 ott. 1630. Fu sepolto nella chiesa della Ss. Annunziata e particolari onoranze funebri gli furono rese dall'Ordine di S. Stefano.
Dal matrimonio con Costanza Del Barbigia ebbe sei figli; la figura principale è quella di Donato, nato a Firenze nel 1597.
Cavaliere e gran cancelliere dell'Ordine di S. Stefano dal 1620, l'anno successivo figurò tra i gentiluomini di camera del giovane Ferdinando II. Membro del Consiglio dei duecento dal 1631, dopo la morte dello zio Cosimo venne fatto senatore (16 genn. 1643). Titolare della cattedra di metafisica nello Studio pisano dal 1634 al 1654, ricoprì anche numerose cariche politiche. Rimasto vedovo dopo la morte della seconda moglie Maria Maddalena Scali, sposata nel 1631 (aveva contratto un precedente matrimonio con Virginia Ricasoli nel 1621), vestì l'abito sacerdotale. Morì il 10 genn. 1667 lasciando eredi i padri serviti della Ss. Annunziata, chiesa nella quale fu sepolto.
Donato è l'ultima figura di rilievo della famiglia che si estinse verso la fine del secolo XVII.
Fonti e Bibl.: Notizie biogr. in Archivio di Stato di Firenze, Carte Sebregondi 162 e Arch. Ceramelli Papiani 170; per gli studi si veda Archivio di Stato di Pisa, Univ. 2, sez. D, II, 3, c. 34r e Pisa, Archivio arcivescovile, Dottorati 14, c. 58v; per il matrimonio, Firenze, Biblioteca nazionale, Mss. Magliab., XXVI, 80, n. 372. Per la carriera polit. si v. in Arch. di Stato di Firenze: Indici della Segret. vecchia, a cura di F. Brunetti, VI, cc. 100v-101r; Carte Strozziane, I serie, 48, cc. 78r-87v; Magistrato Supremo 4318, cc. 56r, 159v; Miscellanea Medicea 26, ins. 21, 413, cc. 199-200, 992; ins. 6; Mediceo del Principato 1694, 1708-1709, 1719, 1833, 6105, 6135, 6140. Per la data di morte e i funerali Ibid., Medici e Speziali 257, c. 255v e Firenze, Bibl. nazionale, Mss. Magliab., VII, 80, cc. 117r-119v; IX, 50, n. 2. Vedi inoltre: R. Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae, Pisa 1980, I, p. 280; G. Pansini, Le segreterie nel principato mediceo, in Carteggio universale di Cosimo I dei Medici, I, Inventario,a cura di A. Bellinazzi-C. Lamioni, Firenze 1982, p. XXXIV; D. M. Manni, Il Senato fiorentino, ossia notizia de' senatori fiorentini..., Firenze 1771, p. 11; R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana..., V,Firenze 1781, p. 295; L. Cantini, Saggi istorici di antichità toscane, V,Firenze 1796, pp. 121-28; L. Ginori Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell'arte, Firenze 1972, II, pp. 635-38; A. D'Addario, Aspetti della controriforma a Firenze, Roma 1972, pp. 546 s.; F. Diaz, Il granducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 243, 366, 383, 386, 392, 410, 420, 501; G. Pansini, La Ruota fiorentina nelle strutture giudiziarie del granducato di Toscana sotto i Medici, in Atti del III Congr. intern. della Società ital. di storia del diritto,Firenze 1977, II, pp. 554 ss.