RIDOLFI, Niccolo di Luigi
RIDOLFI, Niccolò di Luigi. – Nacque a Firenze il 6 agosto 1444 in una delle famiglie più in vista della città per tradizione sociale e partecipazione politica, da Luigi di Lorenzo e da Antonia di Conte di Tommaso Fioravanti.
Apparteneva a un ramo della famiglia strettamente legato alla politica e alla fedeltà verso la famiglia Medici e questo condizionò tutta la sua esistenza. Ebbe sin da giovane un ruolo attivo sia nel mondo delle corporazioni di mestiere sia in quello politico-amministrativo e ricoprì numerosi uffici, tanto in città quanto nel territorio fiorentino: in quest’ultimo ambito della vita pubblica fu podestà di Campi nel 1474, governò Pistoia come podestà nei primi sei mesi del 1480 e per la seconda parte dell’anno si trasferì a Scarperia come vicario del Mugello. Nel 1483 fu vicario di San Miniato; nel 1489, uno dei periodi di sua maggiore e più continua presenza nella vita della Repubblica, ricoprì, tra gli altri uffici, la carica di podestà di Castiglion Fiorentino.
Attivamente impegnato nella propria Arte, Calimala, ne fu console nel 1481 e fu utilizzato dal Comune anche in altri incarichi di indirizzo economico.
Fu 'camarlingo' del Monte comune nel 1478, maestro della moneta nel 1483, dei Dodici procuratori, nuova magistratura responsabile degli affari interni e in particolare quelli finanziari, nel 1487 e infine ufficiale della Mercanzia nel 1489. Nel 1490 fece parte dei Diciassette riformatori, commissione istituita poco prima della crisi romagnola e incaricata di mettere a disposizione dell’esecutivo la somma di 40.000 fiorini che non potevano essere provvisti dalle entrate ordinarie. Fu ordinata una revisione dell’estimo esistente sul contado fiorentino in modo da inasprire il contributo dei cittadini non residenti a Firenze; venne imposto un sussidio alla comunità ebraica e fu modificata la gestione del Monte delle doti.
Contemporaneamente a questi prestigiosi incarichi, anche la sua presenza in uffici prettamente politici fu continua e sempre di alto livello: dei Dodici buonuomini nel 1477, degli Otto di guardia e balia (la potente magistratura che si occupava degli affari interni e di polizia) nel 1478 e 1493, dei Dieci di balia nel 1486, nel Consiglio dei settanta nel 1484 e 1489, anno in cui si insediò nella principale carica politica fiorentina, il Gonfalonierato di giustizia. Nel 1488 e 1492 fu eletto accoppiatore, ciascuna volta per due anni, insieme agli altri più fidati esponenti della classe dirigente medicea, per 'imborsare' la Signoria e le principali cariche della Repubblica.
Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492), pur non essendo più nella cerchia ristretta dei confidenti di Piero, continuò a essere utilizzato sia con funzioni consultive sui principali temi di politica estera (quali la decisione dell’adesione o meno alla lega con Venezia e Milano e, nel momento cruciale per Firenze, della scelta della posizione da tenere nei confronti del re di Francia Carlo VIII), sia come commissario della Repubblica.
Al momento della discesa di Carlo VIII in Italia (1494) l’opinione pubblica e buona parte della classe dirigente fiorentina erano favorevoli al passaggio del re francese mentre Piero de' Medici si mantenne sempre tenacemente attaccato alla causa aragonese tanto da negare non solo il favore alla causa del re ma anche il passaggio all’esercito francese nel territorio dello Stato fiorentino. Ridolfi, legato ai Medici anche da legami familiari dal momento che suo figlio Piero aveva sposato Contessina, figlia del Magnifico, proprio nel 1494, non fu capace, come molti altri, di dar voce alla propria disapprovazione per la linea così marcatamente filo-aragonese di Piero.
Nell’ottobre del 1494 fu pertanto inviato come commissario a Sarzana e Pietrasanta per paura di rivolte antifiorentine durante il passaggio dell’inviato del re di Francia verso Parma e nell’attesa annunciata del prossimo arrivo di re Carlo. Questo fu il suo ultimo incarico pubblico, dal momento che l’atteggiamento di Piero nei confronti dei francesi che stavano dilagando in Toscana fece sollevare contro di lui non solo la popolazione ma anche gran parte della vecchia classe dirigente.
La fuga del Medici, nel seguente novembre, costrinse i suoi partigiani al silenzio: alcuni si ritirarono nelle proprie case, altri cercarono di nascondersi, altri lasciarono segretamente la città. Pochi fedelissimi pensarono di armarsi e comparire in piazza cercando di sollevare la popolazione in suo favore. Ridolfi, con Bernardo del Nero e Pierantonio Carnesecchi fu tra questi, ma una volta arrivati in piazza i tre furono costretti a ritirarsi. Il 14 novembre Niccolò fu privato dei diritti politici pur potendo continuare a risiedere in città.
Nella primavera del 1497 Piero de’ Medici si presentò con un solido esercito alle porte di Firenze nella speranza che la presenza di Bernardo del Nero nel Gonfalonierato di giustizia avrebbe in qualche modo aiutato il rientro in città e che il popolo si sarebbe mosso in suo favore. Questo tentativo andò in fumo e Piero fu costretto ad allontanarsi dalla città all’interno della quale iniziò però a farsi strada il dubbio di tradimenti interni alla Signoria stessa. In un clima cittadino già avvelenato dal sospetto di possibili azioni che favorissero un ritorno dei Medici e dalla continua attività militare di Piero non lontano dalla città, si verificò un episodio che portò alla rovina e alla morte di Ridolfi e di altri partigiani medicei.
Un fuoruscito venne infatti catturato con una lettera che prometteva di svelare in dettaglio le trame di Piero per rientrare in Firenze; alla lettera si aggiunse una relazione che elencava tutti gli amici che il Medici aveva a Firenze e il piano di una congiura che doveva consumarsi alla metà di agosto. Cinque cittadini, tra quelli ricercati e ascoltati dalla Signoria, furono accusati di alto tradimento, imprigionati e costretti a confessare un delitto che forse non avevano commesso. Tra costoro vi fu Ridolfi, principale esponente del suo casato e parente stretto di Piero de’ Medici.
Una Pratica di 200 persone fu convocata e dopo lunga discussione i cinque accusati furono riconosciuti colpevoli e per loro venne raccomandata la pena di morte. Le accese discussioni che seguirono misero in luce una profonda spaccatura nella classe dirigente tra i favorevoli a un'azione guidata dalla prudenza e i fautori di una giustizia immediata. I condannati reclamarono il loro diritto di appello al Gran consiglio, secondo una legge approvata nel 1495. La Signoria, favorevole alla concessione, fu bloccata da pesanti minacce e finì per convocare (il 21 agosto 1497) una nuova Pratica, ove si misero in luce i pericoli che sarebbero sorti da un eventuale accoglimento dell’appello da parte del Consiglio: la possibilità di una sollevazione popolare, i possibili inserimenti di poteri stranieri e un ulteriore aggravarsi della divisione cittadina. Tutti questi rischi sconsigliavano vivamente il ricorso all’appello. La Signoria, già pronta a rifiutare le conclusioni della Pratica, fu bloccata da violente prese di posizione in favore di questa, in particolare da parte di Francesco Valori. La sorte dei prigionieri fu così segnata.
Lo stesso giorno Niccolò Ridolfi e gli altri cospiratori furono giustiziati nel palazzo del Bargello.
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