FORTEGUERRI, Niccolò
Nacque a Pistoia il 7 ott. 1419 da Bartolomeo e da donna Pippa, di ignoto casato, primo di otto figli: altri cinque maschi (Antonio, Cristoforo, Pietro, Paolo, Giovanni) e due femmine (Nera e Girolama). La sua famiglia, benché nobile, era caduta in ristrettezze, così che il F., compiuti nella sua città gli studi elementari di grammatica e di dialettica per poter passare allo studio del diritto, dovette far ricorso nel 1439 al sostegno della fondazione istituita nel 1383 da M. de Cesis in favore di studenti bisognosi originari di Pistoia e di Modena. Dapprima allievo a Bologna del giurista pistoiese F. Lazzari, seguì il suo maestro a Siena, dove si addottorò in utroque iure.
Durante il periodo senese ebbe opportunità di stringere amicizia con molti uomini ragguardevoli, primo fra tutti Enea Silvio Piccolomini, il legame con il quale - forse già iniziato durante il periodo universitario - divenne veramente stretto e significativo a partire dal 1450, quando il Piccolomini fu translato dalla sede vescovile di Trieste a quella di Siena.
La loro amicizia, sia che avesse avuto origine dalla parentela - avendo il Piccolomini per madre una Vittoria Forteguerri - sia dall'identità di indole e di interessi, durò tutta la vita e fu la ragione per cui il F. poté iniziare una brillante carriera ecclesiastica, realmente rivolta al servizio della Chiesa più che all'arricchimento personale. Infatti non risulta che durante la sua vita accumulasse benefici e prebende in misura eccessiva, come ricorda anche il card. Iacopo Ammannati nella lettera scritta al card. Bernardo Eruli per informarlo della morte del F. e come dimostra la pensione annua di 1.200 ducati concessagli da Pio II considerando insufficienti le sue entrate e che gli fu riconfermata anche da Paolo II. Tra i benefici che detenne sono da ricordare il priorato vallombrosano di S. Fabiano "de Prato", le abbazie vallombrosane di S. Maria di Grignano, nella diocesi di Pistoia, e dei Ss. Pietro e Paolo di Moscheto nella diocesi fiorentina, la chiesa di S. Cristina nella diocesi di Siena, l'abbazia di S. Andrea nella diocesi di Sestri Ponente.
Tra i primi incarichi ottenne da Eugenio IV l'ufficio di uditore del governatore del Patrimonio. Elevato il Piccolomini alla porpora cardinalizia nel dicembre 1456, il F., su suo esplicito invito, lo raggiunse a Roma dove svolse presso di lui l'incarico di amministratore dei beni di famiglia. Ma la vera svolta nella sua vita sarebbe avvenuta nel 1458 quando - morto Callisto III - il Piccolomini venne inaspettatamente eletto pontefice con il nome di Pio II. Il nuovo papa non indugiò a valersi dell'opera dell'amico e a elevarlo ai più importanti onori e incarichi. Il 25 novembre dello stesso anno gli conferì il vescovato di Teano nel Regno di Napoli - che conservò per tutta la vita -, il 5 novembre dell'anno successivo l'ufficio di tesoriere apostolico e quindi, il 5 marzo 1460, lo nominò cardinale prete del titolo di S. Cecilia.
Per quanto riguarda gli incarichi diplomatici, appena eletto vescovo, gli fu affidata dal nuovo pontefice, che voleva rendersi amico il re di Napoli, Ferdinando d'Aragona, una missione di grande importanza nel Regno con diversi obiettivi: riconciliare Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto - il più ricco e potente signore del Regno - con Ferdinando, in favore del quale Pio II aveva annullato tutti gli atti ostili del suo predecessore Callisto III; trattare la restituzione alla S. Sede delle città di Benevento e Terracina; infine - per rendere più ferma la convenzione stipulata il 17 ott. 1458 tra Pio e Ferdinando - concludere le nozze tra la figlia naturale del re e Antonio Piccolomini, nipote del papa. Il F. riuscì brillantemente nell'impresa e lo stesso re fu tanto soddisfatto di questa legazione da ricompensarlo nominando cavaliere suo fratello Giovanni.
La tranquillità nel Regno napoletano non durò a lungo giacché gli Angioini si erano nuovamente mobilitati, appoggiati dal re di Francia Carlo VII. Per contrastare il crescente predominio dei Francesi in Italia si formò una lega tra il pontefice e Francesco Sforza. Il neoeletto cardinale F. fu subito inviato, in qualità di legato, presso Federico da Montefeltro signore di Urbino, nominato capitano generale della Chiesa, e presso Alessandro Sforza, comandante delle truppe milanesi, con il compito di coordinarne le azioni militari contro Niccolò Piccinino, a capo dell'esercito assoldato dagli Angioini. Questi aveva dalla sua parte Iacopo Savelli, arroccato nei suoi castelli in Sabina. Dopo alterne vicende, nel maggio 1461 tutta la Sabina venne sottomessa alla Chiesa e il Savelli, chiuso nella rocca di Palombara, fu costretto a capitolare. Presto anche il Piccinino si ritirò e fu nuovamente tenuto a freno quando ritentò l'avanzata unito a Sigismondo Malatesta, signore di Rimini. Proprio contro costui, il più potente tra i ribelli alla S. Sede, si concentrò l'azione del F. che accordò protezione e privilegi a tutte le terre che si fossero ribellate al Malatesta. Evitando di affrontarlo direttamente, il F. finse di attaccare il Piccinino e il duca d'Angiò, inducendolo così ad andare in loro aiuto; quindi ordinò alle truppe - guidate dal Montefeltro, da Napoleone Orsini e da Matteo Di Capua - di occupare i territori di Sigismondo. Costui, tornato precipitosamente indietro, riuscì a rientrare a Rimini alla fine del 1462, ma non a recuperare le terre occupate. All'inizio del 1463 gli eserciti pontifici ripresero le ostilità, che si concentrarono principalmente contro Fano, difesa dallo stesso figlio del Malatesta, Roberto. Mentre il Montefeltro assediava la città dalla parte di terra, il F., fatta venire la flotta pontificia da Ancona, isolò la città dalla parte del mare. Il 25 settembre Fano si arrese e il Malatesta si sottomise al pontefice accettando dure condizioni di pace. Il buon esito di questa spedizione venne in gran parte attribuito al F., che aveva sempre seguito e diretto con i suoi consigli l'azione dei generali pontifici.
Ma un'altra impresa era da tempo tra i progetti più cari a Pio II: la crociata contro i Turchi che, dopo il congresso di Mantova, cui aveva preso parte lo stesso F., era stata messa in secondo piano proprio per la crisi del Regno. Il F., nominato legato papale fin dal 4 maggio 1464, ebbe l'incarico di coordinare gli eserciti della lega, che il papa aveva invitato a radunarsi a Porto Pisano per poi raggiungere Ancona. Il F., dopo aver fatto una breve sosta il 14 maggio nella natia Pistoia, raggiunse il porto, ma qui trovò una situazione assai grave: molte galee erano ancora in fase di allestimento e tra gli equipaggi era scoppiata la peste. Di tutto ciò il F. informò il pontefice in un breve incontro, mentre Pio II, malato, era in viaggio per Ancona; quindi, tornato a Pisa, si imbarcò sulla flotta che guidò - in qualità di generale delle galee pontificie - per lo stretto di Messina fino ad Ancona, dove giunse poco prima che il papa spirasse il 15 ag. 1464.
Paolo II, successore del Piccolomini - che il F. non elesse, in quanto assente dal conclave, ma che ebbe l'onore di incoronare il 16 settembre -, si mostrò consapevole del suo valore e continuò a utilizzarlo per le necessità, soprattutto di carattere militare, della Chiesa. Nel giugno 1465 lo nominò legato apostolico per dirigere le operazioni belliche contro gli Anguillara, che erano da decenni una spina nel fianco dei pontefici, a partire dal tempo di Eugenio IV. L'impresa fu studiata nei dettagli dal F., allora residente a Viterbo. Riconfermato anche dal nuovo pontefice nell'incarico di legato apostolico e radunate le milizie che si trovavano in quella zona, il F. intimò alle popolazioni dei dintorni di inviare uomini atti alle armi e pubblicò quindi un bando che attribuiva i beni dei nemici a chi per primo ne avesse occupato i territori. Insieme con i capitani Federico da Montefeltro e Napoleone Orsini assalì nel luglio 1465 Deifobo dell'Anguillara da due parti e in soli dodici giorni occupò tutti i suoi possedimenti, costringendolo alla fuga e catturando il fratello Francesco con la sua famiglia. L'impresa fu ricordata da molti scrittori contemporanei, tra cui il cardinale di Pavia Iacopo Ammannati Piccolomini.
Dopo un breve soggiorno a Pistoia tra fine luglio e settembre 1465 il F. dovette risiedere per un lungo periodo a Viterbo, da lui frequentata fin dai tempi in cui ricopriva la carica di uditore del governatore del Patrimonio e dove il fratello Pietro ricopriva già dall'ottobre 1458 l'ufficio di tesoriere.
L'amore per la città di Viterbo, dove egli solitamente risiedeva preferendola alla stessa Pistoia e a Siena, si espresse non solo nella protezione che le accordò, ma anche nell'opera di sistemazione edilizia che egli avviò intorno al 1466 nell'area in cui sorgeva la sua residenza abituale, presso la chiesa di S. Sisto. Qui, dopo aver ampliato il sito abbattendo vecchie casupole e aprendo una piazza davanti alla chiesa, costruì un palazzo fornito di una corte interna con un doppio porticato e di un giardino dotato di una superba fontana di marmo bianco di Carrara, "con fonte, peschiera, aere da uccelli e lochi da animali", definito "ameno e bello quasi possi dire paradiso terrestro" (Giovanni di Iuzzo, p. 105).
All'inizio del 1468 il F. era certamente a Roma tra i consiglieri di Paolo II in occasione delle vicende dell'Accademia romana, i cui membri furono accusati, tra l'altro, di congiurare contro il papa. Nessun'altra notizia su di lui è nota fino alla morte di Paolo II (26 luglio 1471), quando prese parte al conclave come uno dei candidati favoriti; gli venne però preferito Francesco Della Rovere. Sisto IV, come si fece chiamare il nuovo pontefice, ebbe anch'egli caro il F., ancora usufruendone come consigliere nelle ricorrenti crisi politiche del tempo. Nel 1473 era certamente a Viterbo, dove accolse nel suo palazzo Eleonora, figlia di Ferdinando d'Aragona, che andava sposa a Ercole d'Este. Nel luglio dello stesso anno, già malato, tornò a Pistoia, che considerandolo "decus, honor et gloria civitatis" gli tributò calorose accoglienze.
Il 23 ag. 1473 davanti alle autorità comunali il F. donava a Pistoia, quale segno tangibile dell'attaccamento alla sua città natale, sei grandi poderi, i cui redditi dovevano "convertirsi in sussidio e sustentamento" degli studenti bisognosi, istituendo in questo modo la Pia Casa di Sapienza, per la quale è ancor oggi ricordato. La fondazione e le altre disposizioni prese dalle autorità cittadine (devoluzione dei beni di 5 vecchi ospedali per pellegrini alla Pia Casa di Sapienza per retribuire quattro dottori che insegnassero diritto civile e canonico, logica e filosofia) furono ratificate da papa Sisto IV con una bolla del 26 maggio 1474.
Il 18 novembre il F. passò per Siena, residenza della sua famiglia dal 1460, dove il 4 dicembre fece donazione al fratello Giovanni e al nipote Nicodemo, figlio del fratello Pietro, di tutti i beni che possedeva nella città, nella contea di Cosona e nella valle d'Arbia. Tornato a Viterbo, vi moriva il 21 dic. 1473 "ad hore due di notte" nel suo bel palazzo presso la chiesa di S. Sisto, non senza qualche sospetto di avvelenamento. Essendo morto intestato, quel che restava del suo patrimonio, detratti i beni donati e le spese per la sepoltura, fu destinato da Sisto IV ai restauri dell'ospedale di S. Spirito in Sassia di Roma.
Il suo corpo, per cura dei fratelli, fu portato a Roma e tumulato nella sua chiesa titolare di S. Cecilia, dove sarebbe stato eretto alla sua memoria nel 1480 un bellissimo sepolcro, opera di Mino da Fiesole. Anche Pistoia non trascurò di rendergli solenni onoranze: il 2 genn. 1474 il Consiglio comunale decretò di costruire un monumento con un epitaffio in sua memoria. L'incarico fu affidato al fiorentino Andrea del Verrocchio, che lasciò incompiuta l'opera, terminata nel 1754 da Gaetano Masoni.
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