FRANCO, Niccolò
Nato a Benevento il 13 settembre 1515, di modesta famiglia, tentò invano la fortuna a Napoli con una centuria di epigrammi latini in onore di Isabella di Capua, moglie del viceré don Ferrante Gonzaga (Hisabella, Napoli 1535); passò nel 1536 a Venezia, dove cercò di farsi conoscere con un Tempio d'Amore (Venezia 1536), poemetto in ottava rima, a esaltazione delle gentildonne veneziane, che è plagio d'un poemetto di tale Capanio in lode delle dame napoletane. Dalla miseria e dall'oscurità lo trasse Pietro Aretino, che lo prese come segretario, ma poi lo allontanò dalla sua casa. Il F. lasciò trapelare il suo rancore invidioso nelle Pistole vulgari (Venezia 1538), misera scimmiottatura delle Lettere dell'Aretino, e nei Dialoghi piacevoli (Venezia 1539). Ma la vera rottura con l'Aretino avvenne nel settembre-ottobre 1539, quando Ambrogio Eusebi, caro all'Aretino, per vendicarsi del F. che sparlava di lui, lo ferì, e l'Aretino lo aiutò a sfuggire alle molestie della giustizia. Lasciata allora Venezia (1540), il F. da Casal Monferrato scagliò contro l'avversario una collana di sonetti, impastati di veleno e di oscenità (Casale [ma con la data di Torino] 1541; 2ª ed. Casale 1546; 3ª ed. Basilea 1548) e seguiti da una volgarissima aggiunta intitolata Priapea. Ma anche a Casale, dove scrisse il Dialogo delle bellezze (Casale 1542) elogiando le donne della città, e dove fondò l'accademia degli Argonauti, e, dopo il 1546, a Mantova, il F. non ebbe troppa fortuna. Guadagnatesi intanto le simpatie del conte di Popoli, Giuseppe Cantelmo, cui dedicò poi il romanzo La Philena (Mantova 1547) lo seguì nei suoi viaggi nell'Italia meridionale. Divenuto il Cantelmo viceré di Calabria, il F. lo accompagnò come segretatio colà, dove promosse lo sviluppo dell'Accademia cosentina e stese in latino la storia dei suoi tempi (Commentarii, poi bruciati dal S. Uffizio). Nel 1552 passò alla corte del principe di Bisignano a Napoli, e quando nel 1555 fu eletto papa Paolo IV, parente del conte di Popoli, il F. condusse trattative con i nipoti del papa per ottenere da lui l'indulto dell'interdetto da Roma che Paolo III, svillaneggiato nella Priapea, gli aveva inflitto. Quantunque non riuscisse nel suo tentativo, nel giugno del 1558 andò a Roma, dove appena arrivato, fu imprigionato come eretico. Liberato dopo una ventina di mesi, entrò familiare del cardinale Morone, sfogandosi con violente pasquinate contro il morto Paolo IV e contro il cardinale Carlo Carafa. Intanto scriveva una Vita di Cristo e traduceva l'Iliade. Salito al trono Pio V, il F. fu scoperto nel 1568 colpevole delle accuse che avevano concorso a far condannare ingiustamente il cardinale Carafa; fu preso dall'Inquisizione, e, dopo un lungo processo, impiccato il 10 marzo 1570.
Scrisse molto, ma in forma sciatta, prolissa, anche se qua e là vivace. Per certe acute osservazioni sparse nei suoi scritti, specialmente nei Dialoghi piacevoli e nel Petrarchista (Venezia 1539) è ricordato come antipetrarchista; ma nei suoi versi non si differenzia dal gregge petrarcheggiante, anche in quelle Rime marittime (v. in Dialogi marittimi di G. J. Bottazzo, Mantova 1547), che pur sono le più sincere ed espressive che abbia scritto. In prosa, oltre le Pistole vulgari e i Dialoghi piacevoli, nei quali la vivacità dell'eloquio è soffocata dall'erudizione, lasciò la Philena, romanzo prolisso e confuso, pedantescamente imitato dalla Fiammetta del Boccaccio, e il Dialogo dove si ragiona delle bellezze.
Bibl.: C. Simiani, N. F. La vita e le opere, Torino 1894; S. Bongi, in Annali di G. Giolito de' Ferrari, I, Roma 1894, pp. 10-23; A. Luzio, L'Aretino e il Franco, in Giorn. stor. della lett. it., XXIX (1897), pp. 229-283; P. P. Parrella, Le "Pistole vulgari" di N. F. e il libro delle "Lettere" dell'A., in Rassegna critica, V (1900), pp. 97-122; D. Gnoli, Del suplizio di N. F., in Raccolta di Studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901; G. De Michele, N. F., in Studi di letter. italiana, XI (1915), pp. 61-154, con ricca bibliografia.