NICCOLÒ II
Ben poco conosciamo di lui prima della elevazione al pontificato, e quasi nulla del periodo anteriore al 1045. Sappiamo infatti solo che Gerardo era originario della Borgogna. Quanto alla famiglia di provenienza, la notizia di una sua nascita illegittima ("Natus quippe de adulterio") viene polemicamente riferita solo da Benzone d'Alba (p. 594), feroce avversario di Gregorio VII, che attribuisce a Ildebrando, allora suddiacono della Chiesa romana, l'iniziativa dell'elezione papale di Gerardo. L'ipotesi dell'appartenenza di Gerardo all'Ordine cluniacense, avanzata da J. Wollasch sulla base di una notizia contenuta in un obituario degli inizi del XII secolo, non è stata accolta: per il totale silenzio in proposito delle fonti contemporanee (D. Hägermann), e per il fatto che Gerardo, divenuto papa, sostenne per lo più i diritti del vescovo diocesano sui monasteri, dimostrandosi in questo un tipico esponente dell'episcopato (W. Goez, Reformpapsttum, Adel und monastische Erneuerung). Il 9 gennaio 1045 Gerardo è attestato per la prima volta come vescovo di Firenze, diocesi in cui lo spirito della riforma della Chiesa aveva già incominciato a penetrare negli anni precedenti. Non sono noti rapporti di Gerardo con il papato anteriori al 1049. Nell'aprile di quell'anno e dell'anno seguente egli partecipò ai sinodi romani indetti da Leone IX, dove si presero severe misure contro la simonia e il concubinato degli ecclesiastici. Dal 1055 i rapporti divennero più significativi. Il successore di Leone IX, Vittore II, scelse infatti proprio Firenze come sede di un sinodo importante, che raccolse centoventi vescovi e che si svolse alla presenza dell'imperatore Enrico III. Come vescovo della città, Gerardo ebbe allora modo di farsi conoscere sia dagli ecclesiastici al seguito dell'imperatore, sia ovviamente dal nuovo papa, il quale, accompagnato da numerosi vescovi, soggiornò nuovamente a Firenze nel 1057. La città toscana aveva infatti acquistato una considerevole importanza nel quadro politico italiano, e soprattutto agli occhi del papato riformatore, in quanto residenza di Goffredo, duca dell'Alta Lorena, il quale, divenuto marchese di Tuscia grazie al matrimonio con Beatrice, vedova di Bonifacio di Canossa, era allora la potenza egemone dell'Italia centrale. Non stupisce pertanto che alla morte di Vittore II, avvenuta ad Arezzo il 28 luglio del 1057, venisse eletto a succedergli Federico di Lorena, abate di Montecassino e fratello di Goffredo, che assunse il nome di Stefano IX. Né stupisce che in quel momento, se non da prima, si sia instaurata un'alleanza di fatto tra la casa di Tuscia e il gruppo riformatore romano. Tutte queste circostanze, nonché il favore del marchese, senza dubbio contribuirono non poco a far conoscere in un'ampia cerchia il vescovo fiorentino e a metterne in luce le doti. Secondo il positivo ritratto che ne tracciò qualche tempo dopo Pier Damiani (ep. 58), Gerardo era infatti di intelletto vivace e di buona cultura, di sicura castità, e generoso nelle elemosine. A favore del suo spirito di carità e di servizio parla inoltre la consuetudine, che - come riferisce lo stesso Pier Damiani sulla testimonianza di Mainardo di Silvacandida - egli non trascurò mai dopo essere divenuto papa, di lavare quotidianamente i piedi a dodici poveri, seguendo l'esempio di Gesù (ep. 110). Quanto ad iniziative riformatrici, durante il suo episcopato Gerardo si impegnò all'interno della sua diocesi nello sforzo di migliorare le condizioni di chiese e monasteri, e nella promozione della vita comune del clero soprattutto in molti centri pievani presso le matrici, assicurando alle pievi i mezzi necessari: un quarto delle decime, la metà dei lasciti testamentari e l'intero ammontare di primizie e offerte. Da papa confermò poi quanto aveva stabilito da vescovo (C. Violante, Il vescovo Gerardo-papa Niccolò II; Id., Pievi e parrocchie). Alla morte di Stefano IX, avvenuta a Firenze il 29 marzo 1058 dopo appena otto mesi di pontificato, Gerardo venne eletto a succedergli. Le fonti non sono del tutto chiare per quanto riguarda la cronologia degli avvenimenti e le modalità dell'elezione. Sappiamo infatti che alla fine del 1057 il papa aveva fatto giurare ai cardinali vescovi, al clero e al popolo di Roma che, in caso di sua morte, non avrebbero dovuto procedere all'elezione del successore prima che Ildebrando, suddiacono della Chiesa romana nonché esponente di spicco del gruppo riformatore, tornasse dalla Germania dove era stato incaricato di una missione (Pier Damiani, ep. 58). Ma poiché il papa morì improvvisamente quando ancora Ildebrando si trovava presso la corte imperiale, approfittando del momentaneo disorientamento del gruppo dei riformatori, alcuni esponenti della nobiltà romana, tra i quali Gregorio conte di Tuscolo, Gerardo conte di Galeria, e Ottaviano Crescenzio di Monticelli, tentarono di riprendere il controllo dell'elezione papale. Agendo con la forza e facendo ricorso alla simonia, quindi con una procedura che in nessun modo poteva dirsi canonica, costoro ottennero che fosse nominato pontefice il cardinale vescovo di Velletri, Giovanni Mincio, il quale prese il nome di Benedetto X (5 aprile 1058). Pier Damiani e gli altri cardinali non accettarono la nomina che, oltre ad essere del tutto irregolare, andava contro il giuramento fatto a Stefano IX; furono quindi costretti a fuggire da Roma, nell'attesa che, ritornato Ildebrando, si potesse concordare con lui una nuova elezione. L'incarico affidato a Ildebrando, del cui oggetto le fonti non parlano, non era probabilmente quello di giustificare presso la corte imperiale l'elezione di Stefano IX, per la quale non era stato chiesto il consenso previo del re: a ciò doveva aver infatti provveduto una precedente legazione. La missione di Ildebrando doveva piuttosto essere collegata alla situazione generale creatasi con la morte di Enrico III (5 ottobre 1056), a seguito della quale il trono germanico era passato al minorenne Enrico IV sotto la reggenza della madre, l'imperatrice Agnese. Ildebrando dunque era stato forse incaricato di stabilire tra la corte germanica e il gruppo riformatore romano rapporti di collaborazione, che rendessero possibile, nelle nuove contingenze, la prosecuzione della politica di riforma avviata da Leone IX e Vittore II con l'appoggio dell'Impero. In particolare doveva sembrare necessario concordare una linea di azione nei confronti delle forze particolaristiche romane, se non anche dei Normanni insediatisi ormai stabilmente nel Mezzogiorno d'Italia. Nei confronti di questi ultimi la politica ostile adottata da Leone IX, per altro assai poco produttiva, sembrava in quel momento impraticabile a causa appunto della minore età dell'imperatore designato, dal quale dunque non poteva venire alcun aiuto di fronte a una minaccia proveniente dal sud; qui tra l'altro la situazione era resa ancora più delicata per i difficili rapporti con i Bizantini della regione, rapporti deterioratisi ulteriormente dopo la rottura del 1054 con il patriarca costantinopolitano Michele Cerulario. Gli accordi con la corte germanica dovevano altresì includere Goffredo, marchese di Tuscia. Va rilevato infatti che Ildebrando, il quale il 17 dicembre 1057 era ancora in Germania, dove probabilmente venne a conoscenza della morte di Stefano IX e dell'elezione romana di Benedetto X, una volta tornato in Italia, era al fianco di Goffredo già il 16 maggio 1058. Poiché sembra da escludere che - come sostiene J. Wollasch - lo stesso Stefano IX in punto di morte abbia designato Gerardo quale suo successore (cfr. D. Hägermann), è probabile che la candidatura del vescovo fiorentino sia stata avanzata dallo stesso Goffredo. Assecondando dunque un desiderio espresso dal marchese, il suddiacono della Chiesa romana intraprese una serie di consultazioni con ambienti romani ecclesiastici e laici. Dovette poi inviare un'ambasceria in Germania presso la corte che era ad Augusta, per chiedere il consenso all'operazione. Esso venne, con l'invito a Goffredo di Tuscia di accompagnare il papa a Roma (Lamperto di Hersfeld). Infine, alla presenza del cancelliere imperiale per l'Italia Guiberto, Ildebrando e gli ecclesiastici che si erano opposti all'elezione di Benedetto X, riunitisi a Siena, elevarono al pontificato Gerardo, il quale, senza rinunciare alla guida della diocesi fiorentina, divenne papa con il nome di Niccolò II. Ciò avvenne presumibilmente nel dicembre 1058. Quanto alla scelta del nome, che secondo alcune fonti gli sarebbe stato attribuito da Ildebrando o dagli elettori, non si può vedere in essa l'espressione di una volontà polemica di affermare l'autorità papale sul potere regio e imperiale, seguendo il modello di Niccolò I. Rimane l'ipotesi che nel nome si intendesse ricordare o il santo del giorno in cui era avvenuta l'elezione (che sarebbe allora caduta il 6 dicembre), o il santo patrono del luogo di origine del papa (B.-U. Hergemöller): se si tiene presente la diffusione del culto del santo vescovo di Mira nell'Italia centromeridionale, favorita tra l'altro da Montecassino (C.H. Brakel), non è forse da escludere che programmaticamente si intendesse indicare la volontà di aprire un nuovo corso nella politica papale relativa al Mezzogiorno. Avvenuta l'elezione, Goffredo marchese di Tuscia, secondo le indicazioni date dalla corte imperiale, accompagnò l'eletto verso Roma con una scorta armata. Giunto a Sutri nel gennaio 1059, N. riunì un sinodo in cui convennero, oltre ai cardinali che lo avevano eletto, anche vescovi della Lombardia e della Tuscia. In esso Benedetto X, dichiarato invasore, venne scomunicato. Costretto a rifugiarsi nei castelli dei suoi sostenitori, il Mincio si sarebbe arreso soltanto nella tarda primavera dello stesso anno. Intanto, grazie alla forza militare di Goffredo e ad appoggi interni ottenuti soprattutto da Ildebrando, N. entrò in Roma; accolto con tutti gli onori da parte del clero e del popolo, e preso possesso del Laterano, venne incoronato e intronizzato in S. Pietro il 24 gennaio 1059. Le linee fondamentali che caratterizzarono il nuovo pontificato emersero fin dai primi mesi di attività: ossia il deciso impegno per la riforma e la svolta della politica papale nel Mezzogiorno. Dopo aver convocato un sinodo a Roma per la primavera seguente, il papa, nel corso di un viaggio nell'Italia centrale, il 6 marzo elevò l'abate di Montecassino, Desiderio di Benevento, al titolo di cardinale prete di S. Cecilia, e il giorno seguente gli conferì la consacrazione abbaziale. Inoltre lo nominò suo delegato per la riforma dei monasteri dell'Italia meridionale. Erano questi gli inizi di una nuova politica che ebbe appunto come importante mediatore Desiderio e che coniugava all'alleanza con i capi normanni il pieno sviluppo al sud degli obiettivi religiosi del papato riformatore. Il 13 aprile 1059 a Roma, nella basilica lateranense, si aprì un sinodo al quale furono presenti centotredici vescovi. In esso si trattò di una questione dottrinale: Berengario di Tours fu costretto a ripudiare la sua dottrina eucaristica, dichiarata eretica, e a bruciare i suoi libri. Per quanto riguarda i problemi della riforma, poi, il sinodo non si limitò a prendere provvedimenti di carattere morale (a difesa del matrimonio, dei deboli, dei patrimoni ecclesiastici) e a rimuovere abusi di vario tipo che ostacolavano il regolare svolgimento della vita religiosa presso il clero e i monaci. Esso infatti affrontò con decisione i mali più gravi di cui la Chiesa soffriva allora, ossia simonia e concubinato. Nella prima direzione, procedendo con maggiore energia sulla strada imboccata già da Leone IX, per la prima volta si faceva esplicito divieto ai chierici di ricevere in alcun modo chiese e beni ecclesiastici da laici: non si trattava, come è stato fatto notare, di una misura diretta contro l'imperatore germanico, ma dell'affermazione di un principio di carattere generale da cui in futuro non si sarebbe più potuto prescindere. Nella seconda direzione si prendevano disposizioni contro l'immoralità del clero e a favore della vita comune. Pur senza accogliere la radicale proposta avanzata da Ildebrando che, condannando la Regola di Aquisgrana da lui ritenuta troppo permissiva quanto alla proprietà dei beni privati da parte dei chierici, intendeva imporre ai Canonici una regola di vita comune in rigorosa povertà, N. propose una revisione della Regola stessa. Ma la più importante decisione presa nel sinodo fu certamente la definizione della procedura da seguire per l'elezione del papa. Come è stato osservato, il decreto si spiega alla luce degli eventi del 1058-1059, del resto esplicitamente richiamati all'inizio del testo. Esso infatti rispondeva alla necessità vivamente sentita dal gruppo riformatore di evitare per il futuro che si riproponesse quanto era avvenuto alla morte di Stefano IX (si ricordi che nell'aprile del 1059 Benedetto X resisteva ancora nei castelli dei suoi sostenitori) fissando le condizioni necessarie per la regolare successione nella Sede apostolica, e sottraendola definitivamente a quanti avevano una visione troppo particolaristica del papato, in special modo la nobiltà romana. Non ha invece più seguito l'idea che alla base del documento ci fosse un'intenzione antimperiale: solo nelle vicende seguenti il decreto assunse importanza come mezzo per assicurare l'indipendenza del papato dall'imperatore. In tutte le sedi vescovili - si diceva nel decreto richiamando una disposizione di Leone Magno - il vescovo, scelto dai chierici e acclamato dal popolo, doveva essere consacrato dai vescovi della stessa provincia e approvato dal metropolita. Ma poiché la Sede romana non ha sopra di sé un metropolita in quanto è superiore a tutte le altre, i cardinali vescovi assumevano per l'elezione del papa la funzione dei metropoliti. Ad essi, una volta che si fossero orientati su di un nome, si dovevano poi associare gli altri cardinali; al restante clero e al popolo spettava acclamare l'eletto. In tal modo l'elezione, sottratta al controllo delle famiglie romane, era affidata ai soli cardinali, tra i quali i vescovi avevano una funzione di guida. Chiari riferimenti a quanto era avvenuto alla morte di Stefano IX si individuano anche nelle disposizioni seguenti, che tendevano in qualche modo a giustificare a posteriori alcune circostanze dell'elezione di Niccolò II. Si stabiliva infatti che, qualora fosse impossibile in Roma una libera elezione, questa potesse avvenire anche altrove, con il concorso di chierici e laici, e che l'eletto non dovesse necessariamente essere scelto tra il clero romano. Chi per causa di forza maggiore fosse stato eletto fuori Roma, poteva poi esercitare pieni poteri anche prima dell'intronizzazione. Quanto al futuro imperatore Enrico IV, si diceva, con espressione certo non chiara che sembrerebbe alludere a un suo diritto di sorveglianza sull'elezione, che erano fatti salvi l'onore e la riverenza a lui dovuti. Si diceva inoltre che questa concessione, fatta al re in carica da N., avrebbe dovuto essere rinnovata ai successori dalla Sede apostolica. Quanto fin qui si è esposto è il contenuto di una delle due principali redazioni in cui il decreto ci è pervenuto, precisamente quella in passato definita papale, ora detta autentica. Rispetto a questa redazione, la seconda, detta falsificata (in precedenza imperiale), presenta significative divergenze soprattutto per quanto riguarda gli elettori del papa. Mentre infatti, come si è visto, nel decreto autentico si diceva che l'elezione spettava ai cardinali vescovi, e si riservava agli altri cardinali, ma soprattutto al clero e al popolo di Roma, un ruolo secondario, nella redazione falsificata, invece, si affermava che l'elezione competeva a tutti i cardinali, e non si parlava più di diritti del clero e del popolo di Roma. Nella seconda versione inoltre si prevedeva che, in caso di elezione fuori Roma, il re dovesse avere gli stessi diritti dei cardinali. La falsificazione sembra da collocarsi tra il sinodo di Worms del 1076 e gli anni Novanta del secolo. Precisamente, secondo alcuni essa sarebbe stata fabbricata nel momento in cui si aprì il conflitto con Enrico, e avrebbe avuto lo scopo di assicurare la partecipazione del re all'elezione che doveva sostituire Gregorio VII; secondo altri sarebbe da collegare all'emergere di un partito favorevole all'Impero all'interno del Collegio cardinalizio alla morte di Gregorio VII. Poco dopo la fine del sinodo romano, i primi frutti della nuova linea politica nei confronti dei Normanni cominciarono a manifestarsi. Grazie a un intervento del suddiacono Ildebrando (probabilmente preparato dall'abate di Montecassino), il quale si era recato personalmente a Capua per sollecitare contro Benedetto X e i suoi sostenitori l'aiuto di Riccardo di Aversa, questi, giurata fedeltà alla Chiesa romana e ricevuta l'investitura del Principato capuano, inviò al papa un contingente di trecento cavalieri al comando di tre conti. La prima spedizione contro Galeria, dove si era rifugiato Benedetto X, non ebbe l'esito sperato (maggio 1059), ma la seconda, seguita subito dopo (giugno 1059), costrinse alla resa il Mincio, e ottenne la sottomissione al papato di Palestrina, Tuscolo e Nomentum (oggi Mentana). In quella stessa estate N., che già si era recato a Montecassino il 24 giugno, festa di s. Giovanni, intraprese un impegnativo viaggio nell'Italia meridionale, nel corso del quale si addentrò nei domini normanni accompagnato dall'abate Desiderio e da un folto seguito. Il 23 agosto, a Melfi, alla presenza dei vescovi latini della regione celebrò un sinodo che stabilì la nuova posizione del papato nel Mezzogiorno. In esso infatti i principi della riforma ecclesiastica furono introdotti anche al sud, con la condanna nei confronti di simonia e concubinato, e l'affermazione dell'obbligo della castità per i sacerdoti; vennero inoltre presi provvedimenti nei confronti di alcuni vescovi della regione. Ma il sinodo aveva anche lo scopo di creare un'occasione ufficiale di incontro con Roberto il Guiscardo e Riccardo di Aversa, essi pure presenti. Al termine del sinodo Roberto giurò fedeltà alla Chiesa romana e al papa, impegnandosi a collaborare per recuperare le regalie e i possessi di S. Pietro, e per ricondurre sotto la giurisdizione di Roma le chiese poste all'interno dei propri territori. Giurò inoltre che avrebbe appoggiato il papato con tutte le forze, garantendo che alla morte di N. sarebbero stati applicati i principi stabiliti nel decreto sull'elezione papale. Riccardo forse fece un analogo giuramento, che però non ci è stato conservato. Da parte sua il papa riconobbe a entrambi le terre della Chiesa che avevano usurpato, dietro corresponsione di un censo annuo; concesse a Roberto il Guiscardo il titolo di duca di Puglia e di Calabria ed anche di Sicilia, una volta che l'avesse conquistata; confermò a Riccardo il Principato di Capua. Quanto si concluse a Melfi era di grande importanza per entrambe le parti in causa. Per Roberto e Riccardo il riconoscimento papale rappresentava infatti la legittimazione delle conquiste fatte, e garantiva la supremazia sugli altri capi normanni. Quanto a N., che, come si è detto, in quel momento non poteva contare sull'Impero, egli otteneva la garanzia degli aiuti necessari per l'applicazione del decreto di elezione pontificia, soprattutto contro la nobiltà romana. Poteva inoltre, grazie all'alleanza normanna, affrontare il problema della riorganizzazione delle Chiese latine del sud, e, in una prospettiva indubbiamente antibizantina, tentare di guadagnare a Roma le Chiese e le popolazioni italo-greche dell'Italia meridionale. La nuova posizione del papato nel Mezzogiorno veniva in seguito meglio definita. Già alla fine di agosto del 1059, nella chiesa di S. Pietro fuori di Benevento, N. celebrò infatti un altro sinodo, pure alla presenza di molti cardinali e numerosi vescovi, dove tra l'altro prese provvedimenti relativi al Patrimonio della Chiesa romana nel Beneventano. Seguendo la strada imboccata dai papi precedenti (soprattutto Leone IX e Stefano IX), continuò inoltre a rimodellare la geografia ecclesiastica del Mezzogiorno: vennero così unificate le sedi vescovili di Venafro e Isernia, a capo delle quali fu posto un monaco proveniente da Montecassino, e venne creata la sede arcivescovile di Acerenza (dove in precedenza vi era un vescovo greco), con un titolare latino. Un altro monaco cassinese, di origine fiorentina, sostituì poi il deposto vescovo di Aquino. Interventi significativi del papa - e non solo in campo strettamente ecclesiastico - si riscontrano pure in rapporto ai Regni e alle Chiese dell'Occidente. In particolare N. riallacciò più stretti rapporti con la monarchia francese: due legati papali furono infatti presenti all'incoronazione di Filippo I (23 maggio 1059), vivo ancora suo padre Enrico I, e nell'ottobre, in nome del papa, Pier Damiani si rivolgeva alla regina Anna per esortarla a esercitare la sua influenza su suo marito re Enrico, in favore della Chiesa (ep. 64). In ambito ecclesiastico, di notevole rilievo furono, nel 1060, le legazioni di Stefano, cardinale prete di S. Crisogono e di Ugo di Cluny. All'inizio dell'anno, il primo presiedette due concili (a Tours e a Vienne) riprendendo le disposizioni del sinodo romano del 1059 in materia di simonia, concubinato del clero, ingerenze laiche nelle investiture ecclesiastiche e nella gestione del patrimonio delle chiese. Di quest'ultimo problema si occupò anche l'abate di Cluny, nei concili che convocò, sempre nel 1060, ad Avignone e a Tolosa. Nell'inverno tra il 1059 - anno davvero fondamentale per il papato - e il 1060 cade un altro avvenimento di grande rilievo, che diede modo alla Chiesa romana di intervenire in modo autorevole nella più importante sede metropolitica del Regno italico. N., richiestone pressantemente dai Patarini, probabilmente in occasione del sinodo Lateranense del 1059, inviò a Milano due legati: Pier Damiani e Anselmo da Baggio. In una situazione resa molto difficile dalla larghissima diffusione di simonia e concubinato del clero e dal coinvolgimento diretto dell'arcivescovo Guido da Velate in pratiche simoniache, nonché dal pericolo che il popolo reagisse con la violenza a interventi che potessero sembrare attentati contro la dignità della Chiesa milanese, i legati si condussero con grande prudenza, evitando posizioni troppo rigide e radicali. Conseguirono pertanto, almeno apparentemente, un pieno successo: l'arcivescovo sottoscrisse un documento di condanna di simonia e nicolaismo, e si impegnò con giuramento a rinunciare a pratiche illecite nell'ordinazione dei chierici; il clero milanese promise di emendarsi; tutto il popolo giurò di lottare contro la corruzione ecclesiastica. Alla fine, quanti in precedenza si erano macchiati di simonia vennero riconciliati dopo adeguata penitenza. Soprattutto però i legati ottennero a Milano il riconoscimento della superiorità della Chiesa romana su tutte le Chiese. L'intervento dei legati tuttavia non risolse il problema milanese e i disordini in città ripresero presto. Le istanze radicali dei Patarini infatti erano rimaste insoddisfatte; in particolare essi non accettavano che la riforma del clero fosse stata affidata all'arcivescovo. Contro di lui pertanto essi portarono nuove accuse al sinodo che si svolse a Roma nell'aprile del 1060, ma senza ottenere l'esito sperato: Guido da Velate infatti, che aveva fatto una buona impressione anche a Pier Damiani, fu allora difeso dai suffraganei, e ottenne l'appoggio del papa. In quella occasione, inoltre, si concluse definitivamente la vicenda di Benedetto X, il quale venne sottoposto a un processo e privato degli ordini ecclesiastici. Ma soprattutto il sinodo giunse a una chiara presa di posizione in sede disciplinare contro la simonia: i simoniaci vennero condannati e deposti; per la gravità della situazione presente, si consentì invece di conservare grado e dignità a coloro che fossero stati ordinati da un simoniaco, ma senza essersi resi, a loro volta, colpevoli di pratiche simoniache. Questi provvedimenti vennero poi probabilmente ripresi e precisati nel sinodo Lateranense dell'anno successivo (aprile 1061), dove vennero pure ribaditi i punti essenziali del decreto sull'elezione papale (G. Miccoli). All'interno del Patrimonio di S. Pietro N. si impegnò in una doppia direzione: da un lato, per ragioni economiche e pastorali, rimaneggiò la geografia ecclesiastica della regione sopprimendo una diocesi (Trevi) e unendone altre (Sezze, Priverno e Terracina); alla base di questi provvedimenti stava evidentemente la convinzione che per perseguire la riforma ecclesiastica le diocesi dovessero avere basi economiche e demografiche sufficienti: la stessa convinzione che aveva suggerito al papa la necessità di sostenere con risorse adeguate la vita comune del clero, prima del 1059 presso le pievi della diocesi fiorentina e, in seguito, presso altre canoniche. Dall'altro lato, una volta superate le ultime resistenze dei sostenitori di Benedetto X, N., per rafforzare la posizione del papato, si preoccupò di crearsi dei punti di appoggio anche militari in Sabina assicurandosi, attraverso la concessione di carte di ripopolamento, il possesso di castelli in posizione strategica importante (Roccantica e Montasola) (P. Toubert). Tra tutte le Chiese dell'Italia, però, senza dubbio N. dimostrò un particolare interesse per la Chiesa fiorentina, di cui era rimasto vescovo e che amministrava tramite un gastaldo. Nella città egli soggiornò dal 7 novembre 1059 al 20 gennaio 1060, e poi nuovamente nell'estate del 1061. Nel 1060 in particolare egli confermò i provvedimenti presi prima dell'elezione papale in materia di vita comune del clero, provvide direttamente alla consacrazione di chiese da lui fatte riedificare quando era solo vescovo e si occupò pure delle diocesi vicine. Alla fine del pontificato, i rapporti con l'Impero si deteriorarono improvvisamente: secondo la testimonianza molto oscura di Pier Damiani (ep. 89), un sinodo tedesco che radunava esponenti della corte imperiale e vescovi tedeschi condannò N. e annullò tutti i suoi deliberati. Probabilmente dopo questo fatto, che non sembra collegabile ad uno scontento della corte germanica causato dal decreto per l'elezione del papa, una missione di Stefano, cardinale prete di S. Crisogono, il quale recava con sé lettere apostoliche, venne respinta e il cardinale stesso allontanato dalla corte. Le ragioni del contrasto rimangono oscure, anche perché venne improvvisamente meno il papa stesso: tornato a Firenze nel 1061, infatti, N. morì il 27 luglio. Venne forse sepolto in S. Reparata, presso l'altare di S. Zenobi. Quando ci si domandi quale sia stato l'apporto personale del papa alla linea di riforma seguita nel corso di un pontificato breve ma di fondamentale importanza per gli sviluppi successivi, è necessario prima di tutto accantonare la malevola testimonianza di Benzone di Alba, secondo la quale N. sarebbe stato solo un docile strumento nelle mani di Ildebrando che lo aveva fatto eleggere e che lo guidava a suo piacimento. È indubbiamente vero che Ildebrando fu uno dei principali collaboratori del papa, il quale, tra il 23 agosto e il 14 ottobre 1059 lo nominò arcidiacono della Chiesa romana; ma è pure vero che non fu il solo. Al fianco di N. troviamo infatti anche uomini quali Umberto di Silvacandida, Bonifacio di Albano, Pier Damiani, Desiderio di Montecassino, Stefano di S. Crisogono, e altri ancora, che svolsero per il papa significative missioni nell'ambito dell'Occidente e lo assistettero nella sua attività. Se si pensa inoltre che gli uomini sopra indicati erano di origine e formazione assai varia ed esprimevano idee molto diverse in rapporto ai principali nodi della riforma (ad esempio la vita comune del clero e la simonia), è probabile che l'indirizzo sostanzialmente unitario che emerge dai provvedimenti papali rifletta la posizione personale del papa. Ciò del resto è dichiarato esplicitamente dalle fonti, ad esempio, per la decisione presa nel 1059 in materia di vita comune del clero. Allora, infatti, N. non accettò l'impostazione radicale proposta proprio da Ildebrando, e sostenne una linea più moderata, legata probabilmente all'esperienza pastorale fatta a Firenze prima dell'elevazione al pontificato, e applicata anche in documenti che egli concesse, da papa, ad altre canoniche entro e fuori la diocesi fiorentina: in essa la vita comune era vista quale garanzia di un impegno costante nella cura d'anime e nel servizio divino (C. Violante, Prospettive e ipotesi di lavoro). Allo stesso modo le decisioni prese in materia di simonia nei concili del 1060 e del 1061, appaiono ben diverse da quelle sostenute da un Umberto di Silvacandida o da un Pier Damiani, e legate non tanto al desiderio di risolvere il gravissimo problema dal punto di vista teologico e dottrinale, sul quale circolavano allora idee troppo diverse, quanto all'urgenza di individuare per esso una soluzione soddisfacente sul piano disciplinare. Va considerato infine un ultimo aspetto. Sotto N. le arenghe dei privilegi papali, in cui - come è stato rilevato - si esprime in modo assai chiaro la volontà del papato riformatore di affermare davanti alla Chiesa la propria autorità sviluppando i motivi dottrinali del primato romano, non si limitano a ripetere le formule comuni che proclamano l'universalità e la necessità dell'ufficio papale, e a riprendere il motivo tradizionale dell'obbligo da parte di tutti di dimostrare nei confronti del papa il doveroso amore verso s. Pietro. La Cancelleria pontificia, infatti, propone al tempo di N. nuove formule e immagini, miranti a sottolineare con maggiore forza la fondamentale funzione dell'autorità papale nella Chiesa: strumento di Dio per illuminare tutte le Chiese, per dare stabilità alle istituzioni ecclesiastiche, per correggere gli errori e unire le membra al capo (M. Maccarrone). Fonti e Bibl.: I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIX, Venetiis 1774, coll. 724, 771, 867-938; Guillelmi Apuliensis Gesta Roberti Wiscardi, a cura di R. Wilmans, in M.G.H., Scriptores, IX, a cura di G.H. Pertz, 1851, pp. 261-62; Lanfranci Cantuariensis archiepiscopi Liber de corpore et sanguine Domini adversus Berengarium Turonensem, in P.L., CL, coll. 409, 411-14; Nicolai II papae Epistolae et diplomata, ibid., CXLIII, coll. 1301-66; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, nrr. 4392-468, pp. 557-66; Wido episcopus Ferrariensis De schismate Hildebrandi, a cura di R. Wilmans-E. Dümmler, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, I, a cura di E. Dümmler-L. von Heinemann-F. Thaner, 1891, pp. 551-52; Benonis aliorumque cardinalium schismaticorum Contra Gregorium VII et Urbanum II scripta, a cura di K. Francke, ibid., II, a cura di E. Dümmler-F. Thaner-E. Sackur, 1892, pp. 379-80; Bonizonis episcopi Sutrini Liber ad amicum, a cura di E. Dümmler, ibid., pp. 596, 615, 627; Deusdedit presbyteri cardinalis Libellus contra invasores et symoniacos et reliquos schismaticos, ibid., pp. 355, 356; M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, a cura di L. Weiland, 1893, nrr. 382-86, pp. 537-51; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I-II, Paris 1886-92: I, p. LXXII; II, p. 280; Annales Romani, ibid., II, pp. 334-36 (e in M.G.H., Scriptores, V, a cura di G.H. Pertz, 1844, pp. 470-72); Bosonis Vitae Pontificum Romanorum, in Le Liber pontificalis, II, pp. 357-58; Lamperti monachi Hersfeldensis Annales, in Id., Opera, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XXXVIII, a cura di O. Holder-Egger, 1894³, pp. 72-4, 81; Chronica monasterii Casinensis, ibid., Scriptores, XXXIV, a cura di H. Hoffmann, 1980, p. 353; Die Briefe des Petrus Damiani, ibid., Die Briefe der deutschen Kaiserzeit, II-III, a cura di K. Reindel, 1988-89: II, nrr. 58, 60, 61, 64, 65, 72, 76, 79, 89, pp. 190-94, 203-05, 206-18, 225-27, 228-47, 326-66, 377-84, 398-400, 531-72; III, nr. 110, pp. 244-45; Benzo von Alba, Ad Heinricum IV. imperatorem Libri VII III, 10; V, 1; VII, 2, ibid., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi, LXV, a cura di H. Seyffert, 1996, pp. 298, 444, 594, 596. R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, I, Berlin 1896 (trad. it. Storia di Firenze, I, Firenze 1956, pp. 271-72, 275-76, 296-97, 305, 312, 319, 321-24); Ch.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, IV, 2, Paris 1911, pp. 1133-216; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen und salischen Kaisern mit den Listen der Bischöfe. 951-1122, Leipzig-Berlin 1913 (rist. anast. Spoleto 1993), pp. 209-10; A. Fliche, La Réforme grégorienne, I, Louvain-Paris 1924, pp. 309-40; D.B. Zema, The Houses of Tuscany and of Pierleone in the Crisis of Rome in the 11th Cent., "Traditio", 2, 1944, pp. 163, 170-72; G.B. Borino, L'arcidiaconato di Ildebrando, in Studi Gregoriani, III, Roma 1948, pp. 463-516; Id., L'investitura laica dal decreto di Nicolò II al decreto di Gregorio VII, ibid., V, ivi 1956, pp. 345-48, 352; G. Miccoli, Il problema delle ordinazioni simoniache e le sinodi lateranensi del 1060 e 1061, ibid., pp. 33-81; G.B. Borino, Note Gregoriane per la storia di Gregorio VII e della Riforma Gregoriana, ibid., VI, ivi 1959-61, pp. 358-59; H.G. Krause, Das Papstwahldekret von 1059 und seine Rolle im Investiturstreit, ibid., VII, ivi 1960; C. Violante, Prospettive e ipotesi di lavoro, in La vita comune del clero nei secoli XI e XII, I, Milano 1962, pp. 8-9 e v. anche la Discussione, ibid., pp. 403-05; J. Wollasch, Die Wahl des Pap-stes Nikolaus II., in Adel und Kirche. Gerd Tellenbach zum 65. Geburtstag dargebracht von Freunden und Schülern, a cura di J. Fleckenstein-K. Schmid, Freiburg-Basel-Wien 1968, pp. 205-20; V. D'Alessandro, Fidelitas Normannorum. Note sulla fondazione dello Stato Normanno e sui rapporti col Papato, Palermo 1969 (ora in Id., Storiografia e politica nell'Italia normanna, Napoli 1978, pp. 122-34); W. Goez, Papa qui et episcopus. Zum Selbstverständnis des Reformpapsttums im 11. Jahrhundert, "Archivum Historiae Pontificiae", 8, 1970, pp. 29, 35, 52-3, 55-6; D. Hägermann, Zur Vorgeschichte des Pontifikats Nicolaus' II., "Zeitschrift für Kirchengeschichte", 81, 1970, pp. 352-61; C. Violante, Il vescovo Gerardo-papa Niccolò II e le comunità canonicali nella diocesi di Firenze, "Bollettino Storico Pisano", 40-1, 1971-72, pp. 17-22; C.H. Brakel, Die vom Reformpapsttum geförderten Heiligenkulte, in Studi Gregoriani, IX, Roma 1972, pp. 279, 286-87; W. Stürner, Der Königsparagraph im Papstwahldekret von 1059, ibid., pp. 39-52; W. Goez, Reformpapsttum. Adel und monastische Erneuerung in der Toscana, in Investiturstreit und Reichsverfassung, a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1973, pp. 219-21, 233; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe à la fin du XIIe siècle, Rome 1973, pp. 322, 323 n. 1, 403, 658-59, 800-01, 1070-73, 1317; M. Maccarrone, La teologia del primato romano del secolo XI, in Le istituzioni ecclesiastiche della "societas christiana" dei secoli XI-XII. Papato, cardinalato ed episcopato, Milano 1974, pp. 56-7; C.D. Fonseca, L'organizzazione ecclesiastica dell'Italia normanna tra l'XI e il XII secolo: i nuovi assetti istituzionali, in Le istituzioni ecclesiastiche della "societas christiana" dei secoli XI-XII. Diocesi, pievi e parrocchie, ivi 1977, pp. 329-30, 341, 342; C. Violante, Pievi e parrocchie dalla fine del X all'inizio del XIII secolo, ibid., pp. 690, 712, 725; R. Somerville, Cardinal Stephan of St. Crisogono: Some Remarks on Legates and Legatine Councils in the 11th Century, in Law, Church and Society. Essays in Honor of St. Kuttner, a cura di K. Pennington-R. Somerville, Philadelphia 1977, pp. 157-66; V. D'Alessandro, Mezzogiorno, Normanni e papato da Leone IX a Nicolò II, in Id., Storiografia e politica, pp. 41-8; W. Ullmann, Zum Papstwahldekret von 1059, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte", Kanonistische Abteilung, 68, 1982, pp. 32-51; H.E.J. Cowdrey, The Age of Abbot Desiderius. Montecassino, the Papacy, and Normans in the Eleventh and Early Twelfth Centuries, Oxford 1983, pp. 59, 61-2, 111-12, 116-18, 120-21, 159-60; B. Szabó-Bechstein, Libertas Ecclesiae. Ein Schlüsselbegriff des Investiturstreits und seine Vorgeschichte, in Studi Gregoriani, XII, Roma 1985, pp. 127-30; O. Capitani, Storia dell'Italia medievale, ivi-Bari 1986, pp. 282-88; B.-U. Hergemöller, Die Namen der Reformpäpste (1046-1145), "Archivum Historiae Pontificiae", 24, 1986, pp. 14-5, 43; D. Jasper, Das Papstwahldekret von 1059. Überlieferung und Textgestalt, Sigmaringen 1986; W. Stürner, Das Papstwahldekret von 1059 und seine Verfälschung. Gedanken zu einem neuen Buch, in Fälschungen im Mittelalter. Internationaler Kongress der Monumenta Germaniae Historica. München, 15.-18. September 1986, II, Hannover 1988, pp. 157-90; O. Capitani, Problematica della Disceptatio synodalis (II ed. aggiornata), in Id., Tradizione ed interpretazione: dialettiche ecclesiologiche del secolo XI, Roma 1990, pp. 49-83; H.G. Krause, Die Bedeutung der neuentdeckten handschriftlichen Überlieferung des Papstwahldekrets von 1059. Bemerkungen zu einem neuen Buch, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte", Kanonistische Abteilung, 76, 1990, pp. 89-134; A. Paravicini Bagliani, L'Église romaine de 1054 à 1122, in Histoire du christianisme des origines à nos jours, a cura di J. Mayeur et al., V, Paris 1993, pp. 59-62; S. Weiss, Die Urkunden der päpstlichen Legaten von Leo IX. bis Coelestin III. (1049-1198), Köln-Weimar-Wien 1995, pp. 21-2. O. Capitani, Benedetto X, in D.B.I., VIII, pp. 366-70; Lexikon des Mittelalters, VI, München-Zürich 1993, s.v., col. 1170; Theologische Realenzyclopädie, XXIV, Berlin 1994, s.v., pp. 540-43; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 995-96; Lexikon für Theologie und Kirche, VII, Freiburg 1998³ s.v., coll. 862-63.