NICCOLÒ III
Giangaetano (Giovanni Gaetano) Orsini nacque a Roma, tra il 1212 e il 1216, da Matteo Rosso di Giangaetano e Perna Caetani. Figlio secondogenito della coppia, era stato probabilmente destinato fin dall'infanzia alla vita religiosa. Una pia tradizione minoritica, sicuramente posteriore alla sua morte, vuole che il padre, in stretti rapporti con s. Francesco, l'avesse oblato al santo umbro, il quale però avrebbe pronunciato una profezia sull'avvenire di Giangaetano, prevedendo per lui il papato e un futuro come protettore dell'Ordine dei Minori, ma non la sua appartenenza al medesimo. Sulla sua infanzia e la prima giovinezza non si possiedono comunque notizie, poiché la formazione di Giangaetano presso l'abbazia savoiarda di Hautecombe, fondata su dati molto discutibili, è stata da tempo rifiutata dagli storici. Benché sia certo che fosse entrato nel clero ricevendo soltanto gli ordini minori - fu infatti consacrato sacerdote dopo l'elevazione al pontificato - anche la prima fase della sua carriera religiosa, fase durante la quale ottenne i canonicati di York, Soissons e Laon, e prebende nelle chiese romane di S. Lorenzo in Damaso e di S. Crisogono, è rimasta nell'ombra a causa della scarsità delle fonti. Meno oscure le motivazioni che spinsero Innocenzo IV, il 28 maggio 1244, in occasione della prima promozione cardinalizia del suo pontificato, ad elevarlo dalla schiera dei suddiaconi e cappellani papali per crearlo cardinale diacono di S. Nicola in Carcere Tulliano. Papa Fieschi si trovava allora nella necessità di ampliare la base dei suoi sostenitori (Matthaei Parisiensis, monachi Sancti Albani Chronica majora, in Rerum Britannicarum Medii Aevi scriptores (Rolls Series), LVII, 4, a cura di H.R. Luard, London 1877, p. 354) come mossa preliminare al definitivo attacco contro Federico II - messo poi a segno nel luglio del 1245 - e la promozione di Giangaetano a cardinale si inseriva pienamente in quella strategia. Suo padre Matteo Rosso Orsini, nominato una prima volta senatore di Roma nel 1241, con avallo, se non per diretto intervento, del pontefice Gregorio IX, si era infatti distinto come animatore e sostenitore dei diritti di Roma e del papato contro l'imperatore e aveva poi svolto un ruolo di primo piano, ancorché discutibile, nel conclave da cui era uscito eletto il predecessore di papa Fieschi, Celestino IV, destinato ad un brevissimo regno. Seppure la storiografia, attribuendo a Matteo Rosso Orsini una adamantina scelta di parte a favore della Chiesa, ha probabilmente proiettato su di lui le più decise posizioni assunte dai suoi figli e, dalla fine degli anni Cinquanta del Duecento, è indubbio che la sua partecipazione alla conclusione della lega "guelfa" del 1242 - lega che univa centri del Lazio e dell'Umbria nel giuramento di non concludere pace separata con l'imperatore fintantoché proseguiva la guerra contro il papa -, nella scarsità delle testimonianze sopravvissute, lo colloca nella schiera degli avversari della causa imperiale, e lo collocava anche, agli occhi del papa, fra i cittadini romani da ricompensare con significativi segni di benevolenza. Con la nomina di Giangaetano a cardinale Innocenzo IV voleva quindi senz'altro gratificare la famiglia cui il suddiacono apparteneva. Ma con quella nomina gli Orsini tornavano anche ad annodare legami diretti con la Curia - al 1221, o al 1223, risaliva infatti la scomparsa del cardinale Aldobrandino, fratello di Matteo Rosso e zio di Giangaetano (M. Thumser, Aldobrandino Orsini (1217-1221). Ein Kardinal Honorius' III., "Römische Historische Mitteilungen", 33-4, 1990-91, pp. 41-9) - e proprio negli anni in cui le famiglie romane, già da qualche tempo influenti in Senato e in possesso di domini extraurbani, iniziavano a partecipare, per la peculiare situazione politica che si stava sviluppando nell'Italia centrale, come interlocutrici e potenziali alleate dei pontefici alla nuova definizione degli assetti meridionali. Lo stesso Innocenzo IV permetteva infatti, in quello stesso torno di anni, il rafforzamento territoriale di un altro ramo degli Orsini, i discendenti di Napoleone di Giangaetano, lungo la via Tiburtina, dove già dagli inizi del Duecento la famiglia possedeva castelli. Il papa avrebbe poi ratificato anche il loro inserimento nella Marsica abruzzese, quando, concedendo a Manfredi il vicariato nel Regno di Sicilia, ne escludeva deliberatamente il giustiziariato d'Abruzzo e raccomandava al suo emissario nel Regno, frate Ruggero da Lentini, di assegnare tutti i beni dei ribelli alla Chiesa romana situati colà a persone fedeli (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 14236). Durante il pontificato di Innocenzo IV il cardinale Giangaetano non ottenne comunque incarichi particolari. Pochi giorni dopo aver ricevuto il titolo cardinalizio si era imbarcato con altri esponenti della Curia a Civitavecchia per raggiungere Genova, dove sottoscrisse per la prima volta un documento papale il 27 settembre 1244, e da lì proseguì per Lione, sede del concilio. A Lione, il papa gli assegnò il ruolo di "auditor", e in tale veste lo si trova attestato nelle fonti. Nuove testimonianze su di lui si hanno al tempo del viaggio di ritorno della Curia in Italia. Il 3 luglio del 1251 il cardinale Orsini è presente insieme con il cardinale di S. Maria in Via Lata, Ottaviano Ubaldini, alla preparazione di un compromesso tra il vescovo di Torino e il conte Tommaso di Savoia e, dopo aver raggiunta la Curia a Perugia alla fine dell'anno, viene inviato dal papa, nell'agosto del 1252, insieme con il cardinale Riccardo Annibaldi, in Toscana per sollecitare una tregua tra le città di Siena e Firenze. Gli incarichi ricoperti appaiono tutti di importanza relativa, seppure destinati ad affinare le capacità politiche di Giangaetano, capacità di cui soprattutto Alessandro IV, succeduto alla fine del 1254 ad Innocenzo, avrebbe iniziato a servirsi. Fu così dagli anni 1255-1256 che il cardinale Orsini ottenne i primi incarichi di rilievo: il pontefice gli assegnò il compito di seguire gravi questioni dottrinali e teologiche, chiamandolo a partecipare alla commissione pontificia per esaminare il Tractatus de periculis novissimorum temporum - rivolto contro gli Ordini mendicanti - del maestro di teologia all'Università di Parigi Guillaume de Saint-Amour e a presiedere il processo intentato contro il generale dell'Ordine francescano Giovanni da Parma, accusato di idee eterodosse. Presso il pontefice, in Curia e più in generale negli ambienti politici il cardinale Giangaetano stava quindi guadagnando rapida stima: per l'integrità dei suoi costumi, per il disinteresse economico - suscitava vivo stupore il fatto che vivesse del proprio patrimonio -, per la neutralità della sua posizione politica - nelle missive intercorse in quegli anni tra il re Luigi IX e il suo ambasciatore presso la Corte papale, Giangaetano viene indicato come il cardinale più adatto a svolgere attività di mediazione tra Francia e Inghilterra perché gradito ad entrambe le parti -, e forse anche per il suo particolare prestigio fisico, che gli aveva guadagnato il soprannome di "el Composto" (Ptolomaeus Lucensis, col. 1179). Con l'inizio - nel settembre del 1261 - del pontificato di Urbano IV, il cardinale Giangaetano vide crescere la sua influenza sullo stesso papa, che gli doveva l'appoggio al momento dell'elezione. Dal novembre 1262 è attestato come "inquisitor generalis" nella lotta contro la diffusione delle eresie, particolarmente vive nel Viterbese; tra 1261 e 1262 viene nominato protettore dell'Ordine francescano e nel 1263 delle Clarisse. Ancora tra il 1261 e il 1262 Urbano chiamava un nipote di Giangaetano, Matteo Rosso, figlio di suo fratello Gentile, e il cognato di suo fratello Napoleone, Giacomo Savelli (poi Onorio IV), a far parte del Sacro Collegio. Ma soprattutto Urbano IV, riprendendo con rinnovata energia le trattative con i possibili aspiranti alla Corona di Sicilia, coinvolse anche il cardinale Giangaetano nella sua politica ormai decisamente indirizzata verso l'insediamento del fratello di Luigi IX, Carlo d'Angiò, sul trono meridionale. Tra la fine del 1262 e la primavera del 1263 il pontefice giungeva a discutere con Carlo i punti fondamentali dell'accordo. Il cardinale Orsini, che vantava tra i suoi successi politici la negoziazione di una pace nel 1258 tra i sovrani di Francia e Inghilterra, uomo di fiducia del papa, e perciò sicuramente al corrente, se non uno degli ispiratori, della strategia curiale, si impegnò personalmente e spinse i suoi familiari più stretti, i fratelli e i nipoti, ad impegnarsi a favore del candidato francese. Il radicalizzarsi della situazione politica esigeva nette scelte di parte. La famiglia Orsini, alla stregua di altre influenti famiglie romane, vedeva i propri membri schierati su opposte posizioni politiche, già dagli anni in cui il nobile bolognese Brancaleone degli Andalò aveva tenuto la carica senatoria (1252-1255 e 1257-1258): i discendenti di Matteo Rosso - fratelli e nipoti del cardinale Giangaetano - appoggiavano da allora la politica della Curia, i discendenti di Napoleone, possessori di castelli lungo la via Tiburtina e nella Marsica, apparivano piuttosto legati al partito favorevole agli Svevi - tanto che il cronista Saba Malaspina, trattando degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento li annovera senza titubanze tra i capi ghibellini della città. Era urgente chiarire in maniera inequivocabile la propria posizione politica. Fu così che, tra la fine del 1262 e la primavera del 1263, il cardinale di S. Nicola in Carcere venne scelto come arbitro per la definitiva separazione dei diritti comuni mantenuti fino ad allora indivisi dalla famiglia Orsini sugli immobili urbani. Consolidata la propria presenza in città, dove controllava ormai il ponte S. Angelo, unico accesso alla città leonina, situata intorno alla basilica di S. Pietro, il ramo Orsini direttamente imparentato con il cardinale riusciva ad entrare in possesso, grazie alla lunga operazione di politica economica intrapresa in quel medesimo 1262 e portata a compimento solo alcuni anni più tardi dal loro congiunto, del castello di Marino, situato a sud di Roma, sull'itinerario che stava soppiantando l'antico percorso della via Appia. La spregiudicatezza di cui in quella circostanza diede prova il cardinale Giangaetano si sommava alla mano pesante dimostrata nella lotta contro gli eretici condotta nel Viterbese, nonostante gli inviti alla moderazione avanzati da Clemente IV. Gli Orsini direttamente imparentati con il cardinale Giangaetano - fratelli e nipoti - avevano conquistato una forte posizione in città, controllavano territori strategicamente rilevanti nei dintorni di Roma e condividevano la strategia papale a favore di Carlo d'Angiò. Questi motivi li avevano resi alleati importanti per Carlo, che, già senatore di Roma, riceveva nel giugno 1265 la promessa del Regno di Sicilia da Clemente IV e veniva incoronato poi a S. Pietro il 6 gennaio dell'anno seguente. La vittoria su Manfredi a Benevento (1266), poi quella su Corradino a Tagliacozzo (1268), avrebbero assicurato a Carlo il trono siciliano, ovvero al papato il definitivo successo sugli Svevi, nonché ridisegnato a vantaggio degli interessi della Curia papale la mappa del potere politico nell'Italia centrale. Nel decennio trascorso tra l'inizio del pontificato di Urbano IV e l'inizio del pontificato di Gregorio X, tra il 1261 e il 1268, anche la fortuna del cardinale Giangaetano aveva toccato il suo apice. Meno favorevole fu per lui l'epoca successiva. L'eccezionale durata del conclave di Viterbo - dal dicembre 1268 al 1° settembre 1271 - fu causata dall'emergere di diverse posizioni all'interno del Sacro Collegio. Alcuni cardinali appoggiavano infatti l'intraprendente politica che Carlo I d'Angiò, dopo il definitivo successo sugli Svevi, stava mettendo in atto in Italia, grazie al mantenimento dell'ufficio senatorio a Roma, al possesso della Corona siciliana e al predominio guelfo in Toscana. Altri temevano di vedersi precipitare di nuovo in una situazione analoga a quella che il papato aveva subito durante il regno di Enrico VI e soprattutto di Federico II. Alla fine la scelta dei cardinali cadde su un uomo di Curia esterno al Collegio, l'arcidiacono piacentino e vicario apostolico a Gerusalemme Tedaldo Visconti. Il nuovo papa, Gregorio X, inaugurando una politica di contenimento delle pretese del re di Sicilia, sembra aver diffidato del cardinale Orsini: non tanto la disponibilità, sua e della sua famiglia, dimostrata a Carlo d'Angiò durante gli anni precedenti, quanto la sua grande potenza romana gli alienarono forse la confidenza del papa. Certo è che Giangaetano non seguì il pontefice e la Curia ad Orvieto nell'estate del 1272, né a Lione, dove si tenne il concilio nel 1274. Anche durante i due successivi brevissimi pontificati di Innocenzo V e Adriano V, la figura del cardinale Giangaetano, ormai identificato come il capo del gruppo dei cardinali romani ostili alla supremazia angioina, rimase nell'ombra. Fu con Giovanni XXI, di cui aveva caldamente appoggiato l'elezione, che Giangaetano tornò a ricoprire cariche importanti. Con un atto significativo e foriero di conseguenze il 18 ottobre 1276 il pontefice lo nominava arciprete del Capitolo di S. Pietro: sino al 1342 - e forse al 1350 - gli Orsini avrebbero mantenuto il controllo del Capitolo pietrino. In qualità di arciprete, il cardinale Giangaetano aumentò da ventidue a trenta il numero dei canonici, e iniziò forse allora a progettare la costruzione, accanto alla basilica, di un palazzo papale, che rappresentasse una degna alternativa alle dimore lateranensi. Un progetto poi ripreso pochi giorni dopo la sua elezione papale, dal 16 dicembre 1277: da questa data iniziano gli acquisti di vigne e terre nell'area circostante la basilica in vista della costruzione di "nova palatia" (M. D'Onofrio, pp. 555-56). Nel maggio del 1277 la morte coglieva anche Giovanni XXI nel palazzo papale viterbese. La rapida successione, in meno di un anno, di tre papi sul soglio di Pietro, la conseguente rapida decimazione del Sacro Collegio - né Innocenzo V, né Adriano V, né Giovanni XXI avevano infatti effettuato promozioni cardinalizie - avrebbero finalmente aperto la strada alla faticosa elezione del cardinale decano Giangaetano, avvenuta a Viterbo il 25 novembre 1277. Era allora podestà, e quindi garante dell'ordine cittadino e della tranquillità del conclave, uno dei nipoti del cardinale, Orso di Gentile; la circostanza, notata dagli storici, non è ovviamente rilevante rispetto all'elezione del pontefice, quanto chiarificatrice delle differenziate forme di pressione che la famiglia Orsini stava mettendo in atto nel Viterbese dagli anni in cui il cardinale Giangaetano era stato nominato inquisitore nella provincia. Il nuovo papa fu consacrato sacerdote in S. Pietro e intronizzato il 26 dicembre 1277. La scelta del nome "Nicolaus" fu compiuta probabilmente per inserirsi, immediatamente e in modo manifesto, nella prestigiosa tradizione dei papi di quel nome - sia Niccolò I che Niccolò II erano infatti stati pontefici di elevata statura politica; ma forse anche fattori religiosi vi concorsero: Giangaetano nutriva infatti una particolare devozione nei confronti di s. Nicola, il santo titolare del suo titolo cardinalizio, cui volle in seguito dedicata una cappella in S. Pietro. L'elezione papale di Giangaetano rappresentò, in termini politici, un grave smacco per Carlo d'Angiò, allora malato a Foggia e impossibilitato a seguire il conclave. Giangaetano si era dimostrato durante la sua lunghissima e onorevole presenza nel Sacro Collegio - trentatré anni - un politico accorto e tenace, poco incline alle posizioni estreme e alle utopie, ma molto fermo nei suoi propositi. Il primo passo da compiere, necessario per il modesto numero cui era ormai ridotto il Sacro Collegio - sette membri - era la nomina di nuovi cardinali: il 12 marzo 1278 N. provvide ad immettervi nove nuovi ecclesiastici. Tra questi prescelti, tre erano legati a lui da uno stretto rapporto di parentela: Latino Malabranca, figlio della sorella Mabilia, gli era nipote; Giordano Orsini era un suo fratello per parte di padre; Giacomo Colonna, figlio di Margherita Orsini, sorella di Matteo Rosso, gli era cugino; due, Girolamo d'Ascoli (poi Niccolò IV) e Bentivegna da Todi, appartenevano all'Ordine dei Minori, il prediletto dal papa: il primo ne era generale, succeduto a s. Bonaventura, dal 1274, il secondo era intimo amico di N., suo cappellano e confessore dal 1266 (D. Waley, Bentivegna Bentivegna, in D.B.I., VIII, pp. 587-88). Mosso dall'urgenza di risolvere un problema per la Curia romana, N. compì quindi una precisa scelta di fondo, rafforzando nel Sacro Collegio il ruolo dei familiari, dei romani, dei suoi amici religiosi. Girolamo d'Ascoli e Bentivegna da Todi avrebbero in seguito collaborato - e con loro Pietro di Giovanni Olivi - con il papa alla redazione della decretale Exiit qui seminat (14 agosto 1279), con la quale il pontefice avrebbe voluto porre al riparo da critiche e attacchi la Regola dei Minori e nel contempo risolvere i dissidi scoppiati all'interno dell'Ordine francescano, definendo gli obblighi sull'osservanza della povertà da parte dei frati e confortando ancora una volta, con il suggello dell'autorità pontificia, la conformità della Regola al vangelo. La proibizione di commentarla con cui concluse la decretale, e che le meritò l'appellativo di Noli me tangere (R. Lambertini, p. 181), non lascia dubbi sulla volontà di N. di chiudere i dissidi una volta per tutte; ma il fine auspicato dal papa non sarebbe stato raggiunto, e anzi nei decenni successivi le polemiche, mai sopite, si sarebbero di nuovo riaccese tanto da provocare l'intervento di un altro pontefice, Giovanni XXII, nel 1322. Agli inizi del suo pontificato, nel gennaio del 1278, N., dopo aver consultato il vicecancelliere e alcuni notai, provvide anche a riformare la Cancelleria papale, modificando le norme che regolavano le modalità di preparazione delle lettere pontificie. L'inserimento di suoi familiari e amici nel Sacro Collegio era propedeutico ad un programma politico ampio e complesso, certamente elaborato già negli ultimi anni del servizio di Giangaetano come cardinale, perché si manifestò in tutta la sua portata quasi all'indomani dell'incoronazione papale. Esso appare articolato in più punti, tra loro strettamente connessi e lucidamente perseguiti. Il punto centrale del programma di N. consisteva nella rivalutazione del ruolo guida del pontefice sugli assetti politici dell'Italia e del Mediterraneo. Era una rivalutazione che doveva necessariamente passare attraverso il radicale ridimensionamento del ruolo di Carlo d'Angiò, a Roma, in Italia e nel Mediterraneo. Corollario non scontato di questo programma fu l'esaltazione di Roma in quanto sede del papato, e quindi città "speciale", attraverso una serie di committenze artistiche e architettoniche. La prima mossa squisitamente politica di N. fu l'emanazione, il 18 luglio 1278, da Viterbo, della bolla Fundamenta militantis ecclesiae, "la magna charta dei rapporti fra il pontefice e il popolo romano" (E. DupréTheseider, p. 211). La bolla, che si ispira ad un passo tratto dall'ottantaduesimo sermone di papa Leone I, è concepita con una lunga prolusione sui diritti vantati dai pontefici su Roma, in virtù della donazione di Costantino, sulle prerogative dei Romani, in quanto popolo eletto, e sui pericoli cui la città si espone affidandosi a governanti stranieri e improvvisati. Prosegue subordinando la scelta dei senatori, pure di pertinenza del popolo romano, all'approvazione del papa, interdicendo le magistrature cittadine agli stranieri e vietando a tutti di prolungare oltre l'anno, senza speciale mandato del pontefice, le cariche ricevute. Destinatario primo della Fundamenta è Carlo d'Angiò, da dieci anni senatore di Roma, in virtù dei patti sottoscritti nel 1268 con Clemente IV. Il termine della carica stava per spirare (16 settembre 1278) e il 27 luglio N. incaricava i cardinali Latino Malabranca e Giacomo Colonna di recarsi a Roma per preparare il passaggio delle consegne. Con una scelta sicuramente guidata dall'alto, i Romani offrirono poi - ignota la data esatta della nomina - la carica senatoria "toto tempore vitae" al papa, non in quanto tale, ma in quanto privata persona. Il pontefice accettò, nominando due nobili laici romani, Giovanni Colonna, suo cugino, e Pandolfo Savelli, cognato di suo fratello Napoleone, propri rappresentanti. I due appartenevano entrambi ad influenti famiglie del baronato romano, Colonna e Savelli, già ripetutamente presenti in Senato prima della lunga preminenza angioina in Campidoglio, dagli anni Quaranta del Duecento. Con questa scelta N. aveva dato un chiaro segnale di come voleva fosse interpretata la bolla Fundamenta da poco emanata: il senatorato di Carlo d'Angiò era stato soltanto una lunghissima parentesi, determinata dalla contingente situazione politica, il governo di Roma spettava alle famiglie della più alta e rappresentativa nobiltà urbana e a loro doveva ormai tornare di diritto e di fatto. Probabilmente fu negli anni dell'esercizio, seppure per mezzo di rappresentanti, dell'ufficio senatorio da parte di N. che l'aula superiore del palazzo del Senato venne decorata con stemmi della famiglia Orsini, alternati a quelli del Senato romano ed accompagnati da motivi a girali vegetali. E probabilmente nello stesso periodo il pittore Cimabue rappresentò ad Assisi, nell'affresco noto col nome di "Ytalia", situato nella crociera della basilica superiore di S. Francesco, il Campidoglio, con esposti gli stemmi degli Orsini. Dopo aver chiarito i confini entro cui era disposto ad assecondare le aspettative di Carlo d'Angiò, N. affrontò una questione assai più spinosa delle magistrature romane: la sistemazione delle terre di Romagna. Nel 1274 Gregorio X aveva ottenuto la cessione delle terre di Romagna da Rodolfo d'Asburgo, come contropartita alla sua elezione imperiale. Lo scarso interesse di Rodolfo per le questioni italiane, i brevissimi pontificati dei successori di Gregorio X e, soprattutto, le pressioni di Carlo d'Angiò, che esercitava il vicariato imperiale in Toscana, avevano concorso al mantenimento di una situazione mal definita. Tra l'estate e l'autunno del 1278, il papa affrontò di petto la questione romagnola e nel febbraio successivo ottenne dal re dei Romani un chiarimento definitivo dei diritti: Rodolfo cedeva con tutte le formalità la Romagna alla Chiesa, come ammenda per la mancata organizzazione della crociata. Poco prima, a settembre, N. aveva nominato il nipote Bertoldo Orsini rettore "in temporalibus" in Romagna, con il difficile compito di riportare la pace tra le turbolente città della via Emilia e di preparare il loro passaggio alla Santa Sede. Affiancava Bertoldo, con il titolo di legato pontificio, il cardinale Latino Malabranca. Ci si è interrogati, fondandosi sulle affermazioni dei cronisti, sulla reale esistenza di un piano di N. per la creazione di due nuovi Regni in Italia - uno in Lombardia, l'altro in Toscana da affidare a sue creature - per impedire un raccordo troppo pericoloso tra i possedimenti angioini in Provenza e in Piemonte e il Regno meridionale. È difficile credere che un pragmatico come N. abbia davvero potuto ipotizzare una risistemazione tanto radicale di territori caratterizzati dalla presenza di vivaci e potenti organismi cittadini in lotta tra loro e divisi in fazioni interne - Firenze e Bologna, per ricordare le principali. La stessa missione romagnola, che andava avanti a rilento, anche per le incomprensioni sorte tra i due uomini del papa, si stava rivelando fallimentare, e sotto l'aspetto politico e sotto quello economico. Ragionando nel lungo periodo si deve ricordare che l'operazione compiuta da N. in Romagna avrebbe dato alle terre della Chiesa le frontiere mantenute poi fino alla costituzione del Regno d'Italia nel 1860, ma la pace stabilita a Bologna tra le fazioni dei Lambertazzi e dei Geremei nel 1279, e quella conclusa a Firenze, nel 1280, tra i guelfi e i ghibellini dal legato papale cardinale Latino Malabranca, seppure ebbero un parziale successo, non avrebbero pacificato davvero le città. Un progetto italiano in tal misura sconvolgente i precedenti equilibri, e verosimilmente destinato all'insuccesso, non appare quindi attribuibile al papa. Certo è invece il successo conseguito da N. nel ridimensionare l'influenza di Carlo d'Angiò nell'Italia centrale e nel Mediterraneo, smorzandone con una serie di iniziative diplomatiche l'ambiziosa politica. Tra queste si colloca la ripresa del progetto di papa Gregorio X di far concludere, a tutto vantaggio della supremazia papale, un'alleanza tra Angiò e Asburgo tramite le nozze del nipote di Carlo I, Carlo Martello, con la figlia dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo, Clemenza. Nel 1279 Carlo d'Angiò veniva poi allontanato dal vicariato toscano: nel novembre dello stesso anno i Fiorentini chiedevano al papa di designare per due anni i magistrati che avrebbero dovuto tenere la carica di podestà e capitano del popolo e permettevano alle truppe pontificie di presidiare le loro rocche di Ampinana e Montacuto. I progetti di Carlo d'Angiò venivano frenati anche in Oriente, infatti il papa, anche se si rifiutò sempre di colpire con la scomunica gli alleati del re in Epiro e in Tessaglia, ostacolò i suoi piani, temendo un attacco a Costantinopoli. L'altro punto del programma di N. - l'esaltazione di Roma - venne perseguito attraverso un ventaglio di interventi nei principali luoghi di culto e di residenza dei pontefici, nelle basiliche di S. Pietro e S. Paolo fuori le Mura, nel Palazzo e nel Sancta Sanctorum presso il Laterano, ma anche nella sede del potere cittadino, in Campidoglio. Furono interventi che, progettati e perseguiti con lucida sistematicità, segnarono profondamente l'arte romana, e non soltanto romana, dell'ultimo ventennio del Duecento (H. Belting, Assisi e Roma. Risultati, problemi, prospettive, in Roma anno 1300, pp. 93-8). Oggetto della prima cura di N. fu la sistemazione del colle vaticano, presso la basilica di S. Pietro, dove dai tempi di Innocenzo III esisteva un palazzo fortificato adoperato come sede dal pontefice, ma non paragonabile alla residenza papale presso il Laterano. N. fece quindi costruire un edificio solenne, degno di ospitare il papa e tutta la Curia, e fece anche impiantare intorno ampi giardini. Nel suo programma di risistemazione e abbellimento dei principali luoghi di culto cittadini era abbastanza scontato che iniziasse dalla sede pietrina, sia per motivi di ordine puramente religioso, sia perché, come lo stesso N. scrisse in una lettera del 1279, egli considerava la basilica di S. Pietro chiesa "di famiglia". Gli Orsini erano spesso arcipreti della stessa; dimorando poi nella casa-fortezza di Montegiordano, situata dirimpetto a Castel S. Angelo, sulla sponda meridionale del Tevere, e avendo anche possessi presso l'attuale ospedale di S. Spirito in Sassia, vicinissimi alla basilica di S. Pietro, eleggevano spesso questa a proprio luogo di sepoltura. Nel portico della basilica N. fece anche effigiare le storie di s. Pietro e di s. Paolo, distrutte dall'incendio del 1606, e costruire, nell'ultima navata destra, nei pressi del transetto, una cappella intitolata al suo santo eponimo, destinata ad accogliere il suo sepolcro. Sempre in S. Pietro, nella navata centrale, N. volle che fossero rappresentati i pontefici suoi predecessori, secondo un progetto riproposto ed attuato subito dopo anche a S. Paolo fuori le Mura. In quegli anni - ma è ignota la data esatta - gli Orsini ottennero dal papa il possesso di Castel S. Angelo, un possesso che avrebbero parzialmente conservato sino al 1348 e forse fino al 1360/1363 (Roma, Archivio Storico Capitolino, Diplomatico Orsini, II. A. VII. 39). La costruzione del famoso "passetto di Borgo", il corridoio ricavato sulle mura leonine, che collegando S. Pietro con Castel S. Angelo avrebbe permesso un rapido riparo al papa - attraverso ponte S. Angelo si raggiungeva facilmente la fortezza di Montegiordano -, risale egualmente agli anni del suo pontificato. Ma la più grandiosa, per la chiarezza dei temi affrontati, tra le opere intraprese da N. nell'ambito del suo programma romano, e l'unica ancora interamente conservata - di recente superbamente restaurata - fu la ricostruzione della cappella del Sancta Sanctorum, presso S. Giovanni in Laterano. Secondo le fonti, N. la fece completamente riedificare, forse perché il terremoto che aveva colpito Roma nel 1277 ne aveva compromesso la struttura. Il ciclo pittorico che ne decora le pareti rappresenta, sullo sfondo di monumenti romani - alcuni sono i monumenti oggetto degli interventi architettonici di N. -, scene ispirate alla più autentica tradizione martirologica cittadina: la crocifissione di s. Pietro, la decapitazione di s. Paolo, i martiri dei ss. Agnese, Lorenzo e Stefano; un miracolo di s. Nicola - il santo dell'antico titolo cardinalizio del papa - conclude il ciclo. Le pitture furono tutte realizzate da autori di grande perizia, ma è nell'affresco della parete orientale, quella dell'altare, che l'alto livello della committenza romana di N. tocca il suo vertice. Accompagnato e incoraggiato dai ss. Pietro e Paolo, vestito degli abiti pontificali, il papa vi compare nell'atto di offrire a Cristo, secondo un topos dell'arte medievale, il modello dell'edificio rifondato. Contrariamente alla consuetudine, però, l'offerente, genuflesso, figura alto quasi quanto i santi martiri che lo affiancano e di poco inferiore al Cristo seduto: di fronte a Cristo, come di fronte agli uomini, N. si vuole rappresentato non come un successore di Pietro, ma come Pietro stesso. Nel ciclo pittorico del Sancta Sanctorum, l'eccellenza di Roma si intreccia con il ruolo del papato e, all'interno di rimandi iconografici complessi, vi appare sinteticamente rappresentato il programma perseguito con costanza da N. durante il suo breve e intenso pontificato. Per garantire il successo del suo programma, il pontefice aveva dovuto impegnarsi a consolidare e ampliare la forza dell'aristocrazia romana, e in primo luogo quella della sua famiglia, presentandone i membri, laici ed ecclesiastici, come i principali interlocutori ad ogni controparte e in ogni iniziativa politica da lui intrapresa. Ma l'innalzamento dei suoi familiari alle massime cariche politiche, sommato all'aggressiva politica condotta nel Viterbese per assicurare agli Orsini il controllo della regione, avrebbe offerto materia ai contemporanei per costruire un durissimo giudizio sulla cupidigia di Niccolò III. Aveva in particolare destato rumore, nel luglio 1278, la nomina del nipote Orso Orsini a rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia e maresciallo della Santa Sede, quindi a podestà di Viterbo. Servendosi delle milizie fornitegli dalla Chiesa, e forte dell'appoggio di N., Orso si sarebbe impadronito di almeno sette castelli situati nei pressi dei monti Cimini, tra i quali Soriano, strappato ai legittimi possessori con il pretesto che questi si erano macchiati di eresia (Annales Ptolemaei Lucensis, p. 91). Il castello di Soriano venne in seguito munito di una fortissima rocca e divenne dimora prediletta dello stesso pontefice: tutta la sua corrispondenza è datata o da S. Pietro o da Soriano. Ed è lì che N. sarebbe morto - probabilmente per apoplessia - il 22 agosto 1280. N., avrebbe scritto Giovanni Villani, "fu magnanimo, e per lo caldo de' suoi consorti imprese molte cose per fargli grandi, e fu de' primi, o primo papa, nella cui corte s'usasse palese simonia per gli suoi parenti" (Cronica VII, 54). Ancora più severamente Dante avrebbe attribuito connotati ferini alla insaziabile brama di potenza del pontefice: "Sappi ch'io fu' vestito del gran manto / e veramente fui figliuol de l'orsa / cupido sì per avanzar li orsatti, / che su l'avere e qui me misi in borsa" (Inferno XIX, vv. 69-72). In realtà altri grandi pontefici romani suoi predecessori - Celestino III, Innocenzo III - avevano fondato, seppure con minore ampiezza di mezzi e minore scalpore, la potenza loro e della Chiesa romana sulla propria famiglia. La severa e concorde condanna dei contemporanei delle spregiudicate azioni di N. scaturiva allora dagli interessi che il papa aveva disturbati: quelli di una città in forte crescita, come era Viterbo alla fine del XIII secolo. La storiografia più recente ha così insistito piuttosto sulla necessità politica del nepotismo di papa Orsini, e più in generale del nepotismo dei pontefici del Duecento, costretti dall'elettività della propria carica e dalle deboli strutture amministrative del loro potere temporale ad affidarsi soprattutto alle capacità persuasive di familiari e "clientes" potenti. Ma non "nepotismo", per la connotazione negativa che il termine ha ormai assunto, si dovrebbe definire, quanto piuttosto organizzazione e gestione del potere con lo strumento allora utilizzabile: la famiglia. Una riprova si trova nel periodo successivo al pontificato di Niccolò III. Dopo la sua improvvisa morte, la ribellione contro gli Orsini sarebbe scoppiata con violenza nel Viterbese e la potenza della famiglia avrebbe subito un brusco ridimensionamento. Il "modello" di costruzione e mantenimento della supremazia papale adottato da N. non sarebbe stato però accantonato dai suoi successori: Niccolò IV, il pontefice che, asceso al soglio di Pietro nel 1288, avrebbe proseguito il programma dell'Orsini - nella scelta del nome, nella politica, negli intenti di committenza e restauro romani - marchigiano di origine e privo di familiari potenti, avrebbe infatti messo in atto un'identica strategia, appoggiandosi, per attuare i propri scopi, al casato baronale romano dei Colonna, eletto a "sua" famiglia. Fonti e Bibl.: B.A.V., Archivio del Capitolo di S. Pietro, capsa LXI, fascc. 165, 225; Ptolomaeus Lucensis, Historia ecclesiastica, in R.I.S., XI, 1727 coll. 1179-82; G. Villani, Cronica, in Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, I, Trieste 1857, pp. 134-35, 137; Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanum pontificum [...], a cura di A. 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