Niccolò Machiavelli: Opere - Introduzione
Il fatto che le prime notizie sicure sul Machiavelli si riferiscono proprio al tempo in cui egli venne ad entrare negli uffici pubblici, sembra volerci richiamar subito la principale caratteristica della sua vita così strettamente legata alle vicende della sua Firenze e dell'Italia d'allora, nonché dell'opera sua, che così direttamente rampolla dalla sua esperienza di uomo e cittadino. Nato a Firenze il 3 maggio del 1469 di famiglia di parte popolana, antica e ragguardevole ma non molto facoltosa, Niccolò di messer Bernardo Machiavelli, dopo una giovinezza che supponiamo in parte studiosa (seppe benissimo il latino, e coltivò la musica) e in parte dedita ad allegre e spiritose compagnie, entrò a venticinque anni come segretario nella seconda Cancelleria del Comune, e poco dopo, creati i Dieci di Libertà e Balìa - detti anche i «Dieci della guerra» - assunse quella segreteria, che gli eventi fecero diventare tanto importante da poter essere considerata la seconda della Repubblica. Era quell'anno 1494 che segnava con la discesa di Carlo Vili la fine della «politica d'equilibrio» italiana, e l'inizio di quel turbinoso e tremendo periodo nel quale i maggiori stati d'Europa, nel corso della lor formazione unitaria e della più risoluta affermazione di potenza, iniziano le loro lotte pel predominio che avranno per oggetto soprattutto l'Italia. In Firenze il primo risultato era la caduta dei Medici e il libero campo ai tentativi repubblicani del Savonarola: curioso miscuglio di residui medievali e del quasi inconscio disegno d'un nuovo stato repubblicano teocratico, simile a quello che quarantanni dopo instaurerà il Calvino a Ginevra. Ovunque, una gran crisi di tutta la civiltà, nella quale i fermenti dell'Umanesimo portavano a un tempo le esigenze del più audace e spregiudicato razionalismo e d'una moralità nuova, antidogmatica e idealizzante. Novità tutte di cui il giovane Machiavelli avidamente si imbeve, e che troviamo pronto a soppesare e indagare con già maturo giudizio. Pur senza poter arrivare ai massimi onori, e per il suo impiego e per scarsezza di censo, incominciò presto ad avere delicati incarichi politico-militari, e quindi diplomatici: come inviato straordinario presso Caterina Sforza, il Valentino, il Papa, al re di Francia per tre volte, e all'imperatore Massimiliano; e dobbiamo anche tener conto che, acceso fautore della creazione del gonfalonierato a vita cui fu eletto Pier Soderini, fu sempre suo amico e consigliere. Nascono così, per dovere d'ufficio, i suoi primi scritti: rendiconti, «discorsi» e proposte di vario genere: tutte cose strettamente legate alla necessità contingente, ma di cui egli approfitta per affermare già, con autentici lampi di genio, certi princìpi generali. E saranno il Discorso fatto al magistrato dei Dieci sopra le cose di Pisa (della metà del 1500), il Ragguaglio delle cose fatte dalla republica fiorentina per quietare le parti di Pistoia, l'importantissimo Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, e le non meno importanti Parole da dirle sopra la provisione del danaio; e finalmente il gruppo di scritti che riguardano il problema (per lui decisivo e che sarà motivo continuo in tutte le sue opere storico-politiche) delle «armi proprie», dalle quali sole Firenze, in quei terribili tempi, potrà sperare salvezza: Discorso sopra l'ordinanza e milizia fiorentina, Provisioni per istituire il magistrato de' nove ufficiali dell' ordinanza e milizia fiorentina, Consulto per l'elezione del capitano ... Il 30 dicembre 1505 la Signoria, dando luogo alle sue insistenze, gli concedeva le prime «patenti» per arruolare uomini nel vicariato del Mugello; e il 6 dicembre 1506 il Consiglio Maggiore approvava appunto la sua «provvigione» per la creazione della nuova magistratura. Circa il tempo in cui quella stessa esigenza delle «armi proprie», e un primo impetuoso tentativo di ordinare nella fantasia i fatti d'Italia di quegli anni, lo spingevano a stendere di getto le dure e acuminate terzine del Decennale primo. Parallelamente, dall'esperienza diplomatica nascevano le Legazioni: relazioni per lettera o rapporti riassuntivi delle sue missioni diplomatiche: la Legazione a Caterina Sforza, la prima Legazione al re di Francia, e poi le due altre in Francia, la capitale Legazione al Valentino, le due alla Corte di Roma, e il Rapporto di cose della Magna-, cose dalle quali egli traeva altri scritti, già più meditati e accurati e maggiormente rivolti a se stesso: da quella prima Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli ecc., ai mirabili Ritratti, delle cose di Francia e d'Alemagna.
Il crollo della Repubblica nel settembre del 1512, da lui così angosciosamente previsto e invano deprecato, col conseguente ritorno dei Medici, gli faceva perdere l'ufficio e gli procurava anche gravi noie, per esser stato senza colpa coinvolto nella congiura di Paolo e Agostino Capponi. Fu allora che si ritirò nel suo podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, presso San Casciano di Val di Pesa, vivendoci piuttosto miseramente e stizzosamente, con la famiglia (aveva sposato nel 1502 Marietta di Ludovico Corsini la quale, benché quasi illetterata, gli fu moglie devota e affettuosissima, e gli diede quattro figli, Bernardo, Lodovico, Piero e Guido, e la figlia Bartolommea, che poi andò sposa a Giovanni de' Ricci). Ma proprio qui, in studioso raccoglimento, tornato alla lettura di Livio e degli altri storici dell'antichità che ora egli intende con nuovo acume guidato dall'esperienza, e nel ripensamento dei grandi e terribili fatti di cui era stato testimone e in parte attore, traendone vicendevoli lumi: acceso dalla passione e dal dolore, irresistibilmente spinto a ritornare su quegli eventi e a seguirne il nuovo corso e a farne scandagli e previsioni (quale lo vediamo nelle lettere all'amico Vettori), riprendendo tutte le sue idee prima sparsamente affermate o accennate, eccolo ora concepir senz'altro il disegno di un'opera che, sotto forma d'un commento a Livio, esponesse ed illustrasse i princìpi di una vera «scienza nuova» per interpretare la storia e la vita degli Stati. E saranno i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio; tosto interrotti, per nuovo intento, dalla rapida stesura del Principe: dove quegli stessi princìpi erano subito applicati ai fatti contemporanei e proclamati con acutissima radicale forza polemica, e il suo dolore per la rovina d'Italia e la non rinunciata speranza assumevano quei toni drammatici e così intimamente e vigorosamente poetici che tutti gli italiani conoscono.
I Discorsi. ripresi, non saranno condotti a termine che nel 1519. Ma in quel periodo, risvegliatasi in lui anche la vena più propriamente fantastica, il suo gusto pel teatro lo portava a scrivere, in mezzo a due commedie minori (quasi geniali imparaticci, l’Andria e poi la Clizia), un capolavoro, La Mandragola; e intanto e insieme, la novella di Belfagor, e i Capitoli in terza rima, il poemetto allegorico-autobiografico e moralistico, pure in otto capitoli di terzine, Dell'Asino d'oro, i Canti carnascialeschi, e rime varie. Cose veramente «minori», queste ultime; ma in cui sempre si trova, più o meno scoperta, la presenza delle sue idee e la sua passione di cittadino. La Vita di Castruccio, che è del '20, è la cosa di impegno più chiaramente letterario; ma la pressione sempre più dura degli eventi e la meditazione sempre viva del problema delle milizie in rapporto alla vita civile e alla libertà, gli dettavano contemporaneamente i sette libri Dell'Arte della guerra, prima e unica sua grande opera da lui pubblicata, nel 1521 (anteriormente aveva stampato solo il Decennale primo, nel 1506). Fu allora che riuscì nel suo intento di accostarsi ai Medici, senza però dimettere né nascondere le sue idee repubblicane (come è dimostrato dal Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze ad istanza di Papa Leone X, che è del '22), ma per odio dell'inazione e per incoercibile desiderio di poter essere nuovamente impiegato negli «affari», in prò della patria. Modestissimi, lo vediamo dalle sue lettere, gli incarichi pratici che ne ebbe, e ben diversi da quelli di prima, come gli farà notare affettuosamente e scherzosamente il Guicciardini: ché i nuovi signori non si fidavano, logicamente, di lui. Ma la fama che già circolava dei suoi scritti, e la protezione del cardinal Giulio de' Medici, gli facevano ottenere l'incarico di scrivere le Istorie fiorentine, che egli presenterà a Giulio, divenuto papa Clemente VII, nel '25; e saranno, con le altre opere, subito modello agli storici nuovi. Le più minute notizie di questa seconda parte della sua vita, e specialmente degli ultimi due anni affannosi e straziati, nel rinnovato dramma d'Italia e della sua Firenze, e della sua morte, si troveranno sulla fine di questo volume, nelle lettere di lui che abbiamo riportate e appositamente annotate.
Questa l'opera, quasi «bloccata», come abbiamo visto, nel giro di poco più d'un decennio, e così saldamente unita nella persistenza dei motivi profondi se pur variamente atteggiati. Che offriamo qui con ben poche omissioni; avendo evitato al possibile di lacerarla col ricorrere a brani e frammenti, e raggruppate le varie cose, pur nell'esigenza fondamentale dell'ordine cronologico, in modo da mettere chiaramente in luce, con l'effettiva varietà e l'abbondanza dei motivi, l'importanza di quasi tutte le scritture del Machiavelli anche le più brevi e apparentemente occasionali.
Incominciamo, come è d'uso, dalle due opere gemelle, i primi e più illustri frutti della studiosa solitudine dal 1512 in poi, con i quali il Machiavelli rivelò si può dire anche a se stesso il suo genio: il Principe e i Discorsi. ma riportando interi questi ultimi: sia per la grandissima sempre maggiore importanza che essi ai nostri occhi rivestono, sia perché ci è sembrata da coglier l'occasione di offrirli, per la prima volta, tutti modernamente e un po' estesamente annotati.
E subito dopo, come in appendice, abbiamo raccolto quasi tutte le cosiddette «operette minori» storiche e politiche, importanti documenti di quella viva esperienza quotidiana donde il Machiavelli trasse e confermò le sue idee e sulla quale andò formando, con la sua visione del mondo, il suo personalissimo stile: tutte pagine che precedono il ritiro di San Casciano e che si possono considerare come una preparazione e insieme un chiarimento al Principe e ai Discorsi sopra la prima Deca.
In terzo luogo, l'Arte della guerra e la Vita di Castruccio Castracani; opere non solo contemporanee (ambedue d'intorno al 1520), ma originate da un comune intento dottrinario, se pure rivolte a diversi scopi: la prima, a mostrare la possibile applicazione pratica, non senza stilizzazioni umanistiche, della «lezione della storia» e dei princìpi altrove affermati in modo prevalentemente teorico; l'altra ad offrire un caratteristico esempio, una specie di favoloso e istruttivo modello di capitano e Signore figlio delle proprie azioni, in cui la viva e non lontana realtà dell'Italia comunale si fondesse coi rinati ideali del mondo classico, fatti sentire, questi, più ancora per virtù dello stile, del calcolato magisterio delle parole che recano in sé sensi nuovi e un nuovo modo di intendere e giudicare, che non per diretta esposizione.
Quindi, gli otto libri delle Istorie fiorentine: che abbiamo dato anch'essi per intero e compiutamente annotati. Avvertendo qui il lettore d'una certa diversità di tono che in questa opera si riscontra, e che è anche la ragione della diversa fortuna delle sue parti nelle numerose edizioni parziali commentate uscite finora. Giacché l'ampia ed alata sintesi storica del Libro primo (il più divulgato), e anche parzialmente del secondo e del terzo, più facilmente ci permette di cogliere il Machiavelli dottrinario, con l'azione vivificante e talvolta anche deformante di certi suoi schemi ideali; mentre più avanti, man mano che lo storico procede fino a venire a paragone con le vicende prossime della sua Firenze così intimamente legate alle memorie e alle prime esperienze personali, nell'ambizione di farne quadro compiuto e nel difficile rapporto tra la sua passione repubblicana e l'obbligato riguardo nei giudizi sui Medici, più spontaneo ci sembra si sveli l'animo dello scrittore, talvolta anche un po' dimentico in questa varietà di sentimenti, di certe esigenze dottrinarie che pure egli era stato primo ad additare e che in altra sede aveva splendidamente applicato.
E finalmente, le testimonianze del Machiavelli letterato e «poeta»: La Mandragola; la novella di Belfagor; una scelta (breve) delle Rime, coi Decennali. E una silloge di Lettere, raggruppate in modo da dare la più vivace idea possibile della vita del Nostro dal 1512 in poi: ché la sua biografia precedente, qui da noi accennata, si identifica in sostanza con la storia dei suoi incarichi pubblici e della stessa Firenze.
Quanto dire che questa scelta è forse tale più di nome che di fatto. Perché, oltre all'omissione de l’Andria e della Clizia e di ben poche altre scritture di interesse piuttosto marginale, l'unica opera qui parzialmente sacrificata è l'Arte della guerra. Trattato importantissimo, non solo per la sua bellezza formale, quanto come testimonianza dell'interesse continuo del Nostro (di cui più avanti diremo) per il problema delle «armi proprie», e, ora, del loro più razionale ordinamento ed impiego. Ma è problema che, appunto perché basilare, si trova approfondito e discusso in molti altri luoghi, nei suoi motivi essenziali e veramente vitali; mentre in questo libro il Machiavelli volle darci in più diffuse trattazioni tecniche, interessanti sempre gli specialisti, ma che spesso ben poco hanno a che fare con le parti veramente vive del suo pensiero. Di qui la nostra decisione, dovendo pur sacrificare qualche cosa, di presentarlo solo nei tratti più importanti e giustamente famosi.
Salvo questo, ci sembra di poter dire che il presente volume racchiude in sé veramente del Machiavelli tutto quello che conta. Offre cioè una visione completa di tutta la sua varia attività di pensatore e scrittore: senza che nessuna delle direzioni e nessun frutto di tale attività possano apparire in partenza sacrificati rispetto ad altri.
E ciò nella convinzione che, se alcune parti della sua opera considerate a sé possono sembrare di più leggero impegno, niente nel Machiavelli è propriamente secondario; perché nessun momento dell'attività di questo così ricco spirito si può considerar tale, se non a patto di volerne veder l'opera intera nei rigidi schemi di un sistema, e intesa a formare sistema. Il che, anche se è stato più volte tentato, e in base ad innegabili suggestioni che vengono dai testi, non risponderebbe però alla realtà, per quanto riguarda il Machiavelli, e nemmeno per quel nostro Rinascimento di cui egli riassunse con supremo vigore tanti motivi.
L'una attività, infatti, nel Machiavelli illumina l'altra e, come un tempo la preparò o ne fu suggerita, a noi la chiarisce. Non solo, come è di prammatica ricordare, in quanto la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, ecc., e l'altro precedente rapporto Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, preparano il Principe e ce lo commentano additandone i punti di partenza, e tutti insieme gli scritti occasionali di tal genere ci mostrano il terreno da cui fiorirono col Principe i Discorsi; ma anche in quanto la visione del costume italiano quale si riflette nella Mandragola ci rivela bene, nell'amaro umorismo e nella mirabile energia letteraria degli sviluppi, le profonde radici e il carattere, anche sentimentale, e del pessimismo del Machiavelli e del suo «attivismo)), e persino un suo affettuoso ottimismo, con la semplice e delicata figura di Lucrezia. E così, per non dir delle Lettere, i Decennali. gli altri capitoli in terzine (e quelli Dell'Asino d'oro) e persino le rime in apparenza più gratuite, e con esse le Istorie fiorentine (che pure ci dànno tanto altro) ci offrono altrettante vivaci confessioni e conferme. E la stessa Vita di Castruccio, così risolutamente idealizzata anche con l'espediente di ricomporre a suo modo i fatti storici sulla fine, e così evidentemente umanistica, con quella silloge di detti memorabili come chiusa, ci dà la prova d'una calcolata deformazione, che era poi autentica creazione, la quale operava non meno efficacemente, se pur meno scopertamente, e nell'Arte della guerra e nel Principe e nei Discorsi.
E anche tutto questo fu detto, e può sembrar ovvio. Vorremmo fare presente, però, che ciò comporta il riconoscimento che nulla di quanto il Machiavelli scrisse, neppure (almeno nella sua intenzione) certi giochi poetici d'apparenza insignificante, ha da esser inteso come il prodotto di un'attività dilettantesca. Perché in ciascuna cosa il Machiavelli tutto intero si impegna; con un impeto tale che di volta in volta sfrutta sino in fondo, e reca alle conseguenze estreme - pur commovendole tutte - una particolare sua qualità o inclinazione, o passione, che diventa in quel momento predominante, essa veramente creatrice. Il miracolo della Mandragola, la possibilità d'una creazione di tal fatta in un uomo che si suol considerare anzitutto come uno scrittore dottrinario, ne è l'esempio più giustamente famoso; e numerosissime lettere, considerate una per una nella lor spontanea originalità, possono darcene la controprova.
Ma quel che più conta notare, e che più si faticò a riconoscere, è che questa varietà di ispirazioni, pur nell'unità profonda dell'animo, cioè dello stile, si riscontra non pur nelle singole opere, bensì nell'interno di ciascuna di esse, e più spiccatamente nelle maggiori.
Donde la già detta difficoltà di ridurre a un sistema, e di confinare in una corrente per non dire in un «partito», il pensiero di questo autore così inquietante: impossibile da accettar sempre, se vogliamo tener fede a certe nostre posizioni che pure coincidono con parecchie sue, quanto è impossibile confutarlo. Perché mentre lo seguiamo sul filo d'un ragionamento, dove magari non sarebbe difficile cogliere la forzatura o la unilateralità di qualche proposizione, eccolo colpirci con una improvvisa verità cavata da tutt'altra parte: da una intuizione o sentenza generale sulla natura del cuore umano; e dopo ch'egli ci ha mostrato duramente l'inesorabilità d'una situazione, creata da umani errori e condizionata dalla Fortuna, altre improvvise ragioni (di quelle che il Pascal avrebbe poi chiamato «le ragioni del cuore») gli permettono di aprirsi la via alle possibilità d'una soluzione felice.
Tanto, insomma, da farci capir benissimo, d'altra parte, come sia stata possibile su questo scrittore una tal varietà di giudizi, nei tempi e nelle persone. Dovuti appunto allo sforzo arbitrario, quali siano le ragioni che l'abbian di volta in volta suscitato, di vedere il suo pensiero tutto in un libro solo, o in un solo atteggiamento del suo spirito.
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Il Machiavelli, come si sa, venne dapprima considerato quasi esclusivamente come un teorico dello Stato e dell'arte di governo. E la cosa risulta abbastanza naturale, quando si pensi che la maggior novità del suo pensiero, il risultato più evidente e impressionante della sua ricerca, era appunto l'affermazione di una distinzione netta e chiara della sfera dell'attività politica, che deve diventare oggetto di scienza, da quella della moralità: in una polemica opposizione con tutta la tradizione dei più o meno utopistici trattatisti precedenti, con quei loro stati idealizzati e prìncipi perfetti, che non si erano «mai visti né conosciuti essere in vero», mentre ben diversa era ed è sempre stata la «verità effettuale» delle cose. E su questa novità il Machiavelli insisteva con tal terribile audacia, obbligava in tanti luoghi il lettore a curvarsi sui meno confessati abissi dell'umana coscienza con un piglio di così trionfante e quasi crudele compiacenza, che il problema morale venne si può dire di per sé in primo piano, nelle vaste e accanite polemiche, cui invitava anche il carattere particolarmente scottante della materia investita e la portata delle sue affermazioni, che sembraron tali da mettere in questione, come si direbbe oggi, gli stessi «valori» della nostra civiltà.
Donde gli sdegni e i furori dei Gesuiti e, nel campo opposto, gli anatemi e le condanne degli scrittori protestanti. Giacché questi trovavano troppo naturale unire al sincero scandalo provocato nella loro austerità programmatica dalla «immoralità» del Machiavelli, la volontà d'assumere la sua figura a documento palpitante dell'atroce spregiudicatezza e ipocrisia di quel mondo cattolico, di tutti quei «papisti» e dei loro principati assoluti più o meno clericali (il cui modello prepotente era divenuta la monarchia spagnola di Filippo II) contro i quali essi si trovavano in lotta; e ciò arrivò a tal punto che ancor oggi nella lingua inglese si adopera - se pure scherzosamente e senza ricordarne l'etimologia - a indicare il diavolo, la locuzione the old Nick, «il vecchio Niccolò»! Mentre, nell'altra metà d'Europa, i dottrinari di parte cattolica, pur meglio intendendone il pensiero per quel che esso ripeteva da una esperienza e da una cultura comuni, confortati dalla condanna ufficiale della Chiesa e dalla polemica anticlericale dello scrittore, insospettiti da quel vago sentore di protestantesimo che si levava da parecchie sue pagine, e soprattutto aizzati dalla cruda sincerità onde venivan dispiegate in pubblico tante cose che, da parte dei potenti della terra, «si fanno ma non si dicono», si affrettavano tutti a confutarlo: nell'atto stesso in cui da lui attingevano per costruire la famosa dottrina della «ragion di Stato».
Pure, alla base di tutti questi più o meno gravi svisamenti, è facile riconoscere, oltre alla passione di parte, una limitazione, una tipica unilateralità di visione: fissi soltanto sul Principe, spesso anche per ignoranza di tutto il resto, i polemisti della Riforma. Troppo legati anch'essi di preferenza al Principe, ma soprattutto all'aspetto più apertamente normativo dell'opera tutta, come di un precettista e consigliere politico, i dottrinari della Controriforma: non negando (specie questi ultimi) la genialità, ma senza sapere o voler vedere in genere, né gli uni né gli altri, l'enorme portata di quelle idee, la novità profonda della visione storica, e tanto meno le palpitanti ragioni umane e il lievito morale.
E anche nel settecento illuminista, se pure la visione si allarga (tanto che possiamo considerar Machiavelli come la vera guida d'un Montesquieu nelle sue celebri considerazioni sulla Grandezza e decadenza dei Romani) il Segretario fiorentino restava essenzialmente il teorico di quella spregiudicatezza morale contro cui si combatteva, e il suo fondamentale pessimismo sulla natura umana troppo contrastava con l'ottimismo allora predominante.
Ciò non toglie però che la dottrina stessa dell'utilitarismo sociale e politico, oltreché economico, dovesse risultargli nel complesso favorevole non meno del nascente storicismo, preparando il terreno ad una sua maggiore comprensione: mentre il Rousseau in Francia insisteva sulla passione di libertà che aveva sempre profondamente animato la vita e l'opera di lui, e il Giannone in Italia soprattutto da lui si ispirava per sviluppare il suo giurisdizionalismo.
Ma la vera «discoperta» del Machiavelli si doveva avere, come tutti sanno, solo con gli albori del romanticismo storicistico, onde il primo illuminante contributo del Fichte; e specialmente col romanticismo risorgimentale italiano.
Allora al Machiavelli immorale consigliere di «tirannide» del Principe. venne trionfalmente opposto il fervido repubblicano, l'esaltatore profondo dell'antica libertà, dei Discorsi. e nel Principe stesso si esaltò soprattutto la grandezza della passione patriottica, fino a fare di lui un autentico profeta dell'unità d'Italia; e progressivamente, alla sommaria immagine del precettista ingegnoso ed acuto ma un poco astratto, o quanto meno che si fondava su certi giudizi sulla natura umana sempre discutibili, si venne sostituendo l'idea dello studioso che dall'esame «scientifico» dei fatti, per via sperimentale, veniva a stabilire le «leggi» dell'evoluzione storica: il Machiavelli «filosofo della storia». E ciò con un fervore ed un'ansia di rapide sintesi e di sistemazioni organiche, che se recavano in luce grandi verità comportavano d'altra parte non pochi pericoli.
E noto come l'Alfieri, anche in questo ispirandosi al Rousseau (il quale riprendeva, forse attraverso lo Spinoza, certi spunti del tardo cinquecento italiano: specie Boccalini nei suoi Ragguagli), per eliminare la grossa incongruenza fra il Machiavelli precettore del principato più assoluto e tirannico e l'entusiasta assertore della romana libertà, ricorresse al curioso espediente di pensare il Principe scritto quasi tutto con intento satirico, sotto il pretesto di addottrinare e lodare il «tiranno»: pressapoco come aveva fatto di recente il Parini col Giorno nei riguardi del suo giovin signore: «Se nel Principe si trovano a mala pena sparse alcune poche massime tiranniche, esse sono esposte solo per svelare ai popoli la crudeltà dei re, non certo per insegnare a questi ciò che essi han sempre fatto e sempre faranno. Le Storie e i Discorsi. invece, spirano in ogni pagina grandezza d'animo, giustizia e libertà, né si possono leggere senza sentirsi ardere da questi sentimenti. Pure il Machiavelli fu creduto un precettore di tirannide, di vizi e di viltà; e così avvenne che la moderna Italia, in ogni servire maestra, non riconobbe il solo vero filosofo politico che ella abbia avuto finora».
Opinione avallata, come tutti gli scolari sanno, dal Foscolo nei Sepolcri («. . . quel Grande - che, temprando lo scettro a' regnatori, - gli allor ne sfronda, ed alle genti svela - di che lagrime grondi e di che sangue»). Il quale, però, ben più acutamente in altra sede parlerà delle «contraddizioni» del Machiavelli, risolvibili soltanto con un attento studio di tutta la sua vita che valesse ad illuminarne le intenzioni: «... Senonché il Machiavelli intendeva d'associare l'indipendenza della nazione al governo repubblicano; quindi servendo a' Medici, e congiurando contro di loro; quindi cercando un usurpatore felice, ed un popolo che sapesse poi rovesciarlo, lasciò a noi ne' suoi libri tante sentenze contrarie di tirannide e di libertà, di virtù e di delitti: né si potrà sapere il suo intento, se non con lo studio della sua vita». E lo stesso disagio, lo stesso senso di difficoltà, troviamo dal più al meno negli altri maggiori spiriti del nostro Risorgimento, specie com'è naturale in quelli di parte neoguelfa, Balbo o Manzoni.1
Finché il De Sanctis primo giunse ad una sintesi veramente comprensiva (anche se forse non abbastanza sfumata), ad una visione storicamente adeguata: in quel capitolo XV della Storia della letteratura italiana che è una delle vette dell'opera sua, e si deve consigliare ancor oggi al meno informato lettore come la prima preparazione indispensabile ad affrontare la lettura del Nostro.2
E già si sviluppava intanto quell'idea che possiamo chiamare scientifica, d'un Machiavelli che in base alle sue osservazioni e leggi prevedeva, e poteva insegnare a prevedere gli eventi storici. Idea sostenuta a lungo fra noi dal sentimento patriottico, che volle vedere nell'ultimo capitolo del Principe una profezia solo con ritardo avveratasi, sebbene vivacemente lo stesso De Sanctis già avvertisse che «è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale». Ma all'infuori di questo, tal concezione era troppo d'accordo con le tendenze dei tempi nuovi. E anche quando si abbandonò la pretesa di considerare gli schemi machiavelliani quasi come un complesso di teoremi e di deduzioni geometriche, qualche cosa di tal rigidezza rimase nei pur meritori e talvolta geniali studi che seguirono.
Fu un grande lavoro, paziente e finissimo, per ricostruire storicamente, con la vita, il pensiero del Machiavelli in ogni particolare, e collegarlo sicuramente alla sua attività pubblica, ai fatti dei suoi tempi (ricordiamo specialmente i nomi dei nostri Villari e Tommasini, e dei più recenti Meinecke e Renaudet). Mentre, parallelamente, più insistente si faceva lo sforzo di isolare nel Nostro il nucleo filosofico o dottrinario, e di cercare una sistemazione coerente nella quale far rientrare e ordinare tutte le sue affermazioni o addirittura l'intera sua vita spirituale. Tutto un lavoro sul quale non possiamo qui soffermarci, bastandoci indicare fra i più validi e più recenti, in Italia, gli studi dell'Ercole, per quanto è «scienza dello Stato», e quelli del Russo, più strettamente rivolti a individuare del Machiavelli il pensiero. Senonché il Croce, facendo sommaria giustizia della «filosofia della storia», era anche venuto a porre in giustificato sospetto molte di queste costruzioni, per quanto sapienti. E già abbiamo accennato come secondo noi un tal lavoro, esercitato sul Machiavelli, corra sempre il pericolo di sfociare in costruzioni logicamente coerenti, ma invalidagli per parzialità, o a sistemazioni più fini e largamente comprensive, ma anch'esse infirmate da qualche antinomia che nessun espediente dialettico potrà mai annullare. Ed è una via in fondo alla quale spesso si incontrano i dottrinari: tanto che ancor di recente, abbiam potuto vedere appellarsi al Machiavelli (non senza fondatezza) i teorici e i fanatici dello Stato hegeliano, autoritario e totalitario; e dall'altra parte, puntando, si capisce, sui Discorsi e con argomenti certo più validi, richiamarsi fervidamente a lui i più generosi fautori della democrazia liberale.
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Queste opposizioni si sogliono appunto riassumere, come già avvenne all'Alfieri e al Foscolo, in una evidente incertezza, e nell'esigenza di trovare una concordanza sostanziale, un'intima coerenza, tra lo spirito del Principe e quello dei Discorsi. E certo un passo decisivo fu fatto da quando si affermò la necessità di veder nelle due opere quasi due momenti successivi, anche se biograficamente in parte coevi, del pensiero del Nostro. Onde la opportunità di riprendere e integrare la nota immagine del De Sanctis: che il Machiavelli «con l'una mano distrugge, con l'altra edifica». Nel senso che avremmo nel Principe il momento per così dire negatore della ricerca del Machiavelli, cioè quello della polemica splendidamente vittoriosa (e che perciò gode anche di scandalizzare) contro il moralismo teologale delle dottrine politiche medievali, la cui sopravvivenza gli sembrava ed era in effetto soltanto cieco ossequio alla tradizione, o vile ipocrisia di chi non ha il coraggio di guardare in faccia alla realtà; e quindi la implacabile (ed eccessiva) critica alla politica dei principi italiani; e insieme la pessimistica visione della natura degli uomini e del loro modo di comportarsi nella vita sociale (di quei tristi tempi, o di sempre?), che si riassume in quella sanguinosa sentenza del famoso capitolo XVIII: che «nel mondo non è se non vulgo». Mentre nei Discorsi vedremo il momento positivo: nel quale, di là dalle contingenze storiche che lo avevano spinto a prefigurare così efficacemente il sistema dei nascenti stati assolutisti, e considerando le possibilità dell'umana natura in modo più generale, il Machiavelli, sulla scorta dell'esempio umanisticamente venerato dell'antica repubblica romana nei suoi tempi migliori, vagheggia un vivere sociale incommensurabilmente più nobile e degno di quello presente. Non propriamente quale «dovrebbe essere» dal punto di vista assolutamente morale, sì da non ricadere nell'astrattismo medievale, ma quale potrebbe essere ancora. E ne illustra lucidamente le difficili ma non impossibili condizioni, sostenuto da quel fiducioso pensiero che egli afferma nel Proemio (e che fu in sostanza l'animatore di tutto il Rinascimento), che ciò di cui gli uomini sono stati una volta capaci potrà essere raggiunto di nuovo: purché si ritrovino certe fortunate «occasioni», e si volgano nella giusta direzione tutti gli sforzi, sapendo usar bene dell'insegnamento del passato quale ci può offrire la storia.
Così sono state spiegate assai bene molte apparenti contraddizioni; e si è trovato il naturale legame tra certe posizioni del suo pensiero che sembravano più contrastanti. Prima fra tutte la continua affermazione degli ideali repubblicani, e il chiaro riconoscimento, in quella temperie d'Europa e specialmente in quella situazione d'Italia, della necessità storica del principato; e quindi l'accettazione della subdola e crudele politica indispensabile a fondare e mantenere e ampliare un tal principato: quella specie di dolorosa e affascinata ammirazione onde vengono indagati nelle loro vere ragioni e dimostrati nella loro innegabile efficacia e preposti a modello i più spregiudicati modi di procedere, di «governarsi», di grandi principi come Ferdinando il Cattolico.
Ma questo non è ancor tutto. Perché è naturale sorgessero i quesiti: è poi così realisticamente coerente, anche tenendo conto dei tempi e delle premesse pessimistiche, il Principe? e sono poi così idealmente ipotetici, nella lor logica interiore, i Discorsi? Le quali domande non fanno che riportarci alla questione della particolare natura del pensiero machiavelliano.
Già per il Principe fu facile osservare la «incoerenza» dell'ultimo capitolo: quel pretendere che una situazione così disperata e disperatamente rappresentata fino a poche pagine prima come quella d'Italia, potesse d'un tratto capovolgersi, unicamente per la «virtù» di uno solo, che volesse applicare i princìpi dal Machiavelli stesso scoperti... Ma le pagine più persuasive sulla vera natura di questo trattato, nonché sul carattere affatto peculiare del modo di «ragionare» del Machiavelli, ci sembrano esser state quelle dello Chabod, nella introduzione alla sua edizione del Principe del 1924. Qui il critico, rifacendosi (e si direbbe aver seguito il vecchio consiglio del Foscolo!) alle esperienze prime del Machiavelli, e alle frementi sentenze del Decennale primo che concludevano alla necessità d'una «milizia propria», così ci mostra il procedere di lui: «La sua creazione, Niccolò la vuol attuare nella realtà: prima è l'accenno, nella composizione letteraria, dipoi la affermazione, nella pratica di governo; e si hanno così le ordinanze, di fanteria e di cavalleria. In tale momento, hai bene il Machiavelli: che raccoglie tutti gli elementi sparsi della sua esperienza, e li trasfonde in una esistenza diversa e più ampia, cui essi, intravisti nel loro singolo, determinato valore, non parrebbero autorizzare. Qui egli si rammenta delle compagnie di arcieri francesi, delle fanterie svizzere, tedesche, della milizia romana - ricordo classico e vita moderna si fermano egualmente nella sua capacità di esperienza; e poi, con un brusco trapassare al suo paese, concepisce una nuova possibilità per questo, e trasforma il motivo puramente intellettuale in momento volontario e passionale.
L'immaginazione compie la logica, l'atto di fede integra la visione teorica.» Che è poi lo schema ideale della seconda parte del Principe.
E non è una novità, d'altronde, ricordare che, come il Machiavelli nei Discorsi non intendeva abbandonarsi per nulla all'utopia né essere, a modo suo, meno scientifico e aderente alla realtà (all'intima realtà della storia della civiltà umana), così anche il Principe non fu tutto costruito su questo solo intento di stringere da presso la desolata e disperata realtà contemporanea: neanche il Principe cioè è tutto realistico nel senso stretto della parola. Bisogna rifarsi al momento in cui fu composta questa operetta, a noi così ben noto. Un momento in cui il Machiavelli, già tutto sprofondato nella ricerca storica e nell'analisi della prima Deca di Tito Livio, è colto dal desiderio di metter giù subito qualcosa che valesse a testimoniare presso i Medici del suo effettivo valore, e dall'urgenza incoercibile di manifestare senz'altro, applicandole ai tempi presenti (sui quali non si stancava di almanaccare come si vede dalle sue lettere all'amico Vettori), le sue scoperte, quei nuovi princìpi balenatigli durante il suo studio di Livio: il tutto lievitato ancora dal dolore della rovina della patria che ha travolto anche lui personalmente, e da una esaltata speranza che vuole affermarsi a dispetto di tutto. Cosicché quello strano «memoriale» si riempie quasi di per sé d'una materia ricchissima e incandescente, impostagli da esigenze scientifiche e da altri non meno violenti diversi affetti. Donde la necessità, per ordinarla, di imporre al libro, in partenza, quello schema sommario e rigoroso del capitolo I, che resterà però piuttosto esterno. Così la polemica negatrice del moralismo medievale, che era il nucleo teorico più saldo, si nutre di tutta la sua disperazione patriottica per gli errori commessi da chi non aveva inteso questi princìpi nuovi; a comprovare i quali egli con genialissima novità esamina analizza e mette a frutto i fatti storici contemporanei, e richiama gli antichi che fanno al suo caso.
Nel calore della creazione, alimentato da questi vari motivi, nascevano in lui, scrittore di potentissima fantasia, quei terribili tratti satirici sui nostri principati e la vita delle Corti e la religione e il costume del popolo italiano, che troveremo anche nei Discorsi. e che hanno, sul piano della creazione poetica, il più perfetto riscontro nella figura di fra' Timoteo della Mandragola; così come l'animo che lo spingeva a certe generose ma eccessive accuse di inettitudine nei riguardi dei principi o dei condottieri italiani s'intende appieno solo tenendo presenti, testimoni della sua passione, le sue lettere, e i Decennali. e le fantasticherie allegoriche e autobiografiche all’Asino d'oro. E in quel dilatare oltre i limiti della verità criticamente accettabile (e quale egli stesso ben conosceva ed annotava, in altra sede), sino ai confini del mito, la figura di un Cesare Borgia, c'è lo stesso abbandono alla fantasia creatrice che gli farà sbozzare nei Discorsi. con pochi fortissimi tratti di esaltazione o di accusa, le tenebrose shakespeariane figure del suo Bruto «maggiore» o del suo Cesare.
Così, vagheggiando la possibilità d'un principe siffatto, e quindi d'un principato veramente nuovo in Italia, Machiavelli (torniamo allo Chabod), «suggerisce i rimedi ad ogni accidente, corregge le storture dei governi passati, credendo, con simili dettagli, di raddrizzare un edificio a cui son venute mancando le fondamenta. Anzi l'errore vero egli l'ha trovato, la causa di ogni sventura è chiara: le armi mercenarie, nequizia dei principi». Onde il libro «si accentua, non soltanto nella materiale disposizione, ma sì bene nello spirito che lo pervade, in questi capitoli sulla milizia: qui è la piaga che deve sanarsi...».
Questo appunto, non dimentichiamolo, fu uno dei tratti di genio del Machiavelli; ed è stato giustissimo riconoscere come, «concependo la possibilità della milizia nazionale - le armi affidate ai cittadini, lo Stato difeso da coloro che lo formano - il Machiavelli esce dalla storia angusta de' tempi, dai risultamenti immediati della civiltà italiana, e segna un'orma nuova». Ma proprio in questo punto, secondo lo Chabod, si coglie la debolezza della costruzione del Principe: giacché, «egli poi non s'avvede come a tal rivoluzione nell'arte militare debba corrispondere ugual rinnovamento politico-sociale: la milizia cittadina non può essere se non là ove lo stato viva, giorno per giorno, nell'intima coscienza del popolo; e quindi deve crollare il Principato, quale egli lo vede. Il solo enunciare la base militare nuova dovrebbe significare la rinunzia alla creazione del Principe. Egli non se n'accorge, e si ferma a metà: s'ispira all'esempio di Francia, di Svizzera, di Roma repubblicana, senza avvedersi che i suoi modelli nascondono un intimo valore, quello per l'appunto di cui la civiltà italiana non è più capace».
Gioverà avvertire che il Machiavelli, se nel Principe vi fa solo un brevissimo accenno («e dove sono buone arme conviene sieno buone legge») in verità si avvide benissimo dell'intimo valore dei «modelli» da lui citati; e lo mostrò in tutta evidenza ma in altra sede, nei Discorsi. Scrivendo il Principe diremmo piuttosto che non volesse ricordarsene: donde la contraddizione, non solo rispetto ai Discorsi e a tutto il suo pensiero ma nell'interno stesso di questa operetta. La quale infirma appunto, con una lacuna che diviene incoerenza, la costruzione stessa ideale del suo principato; di questo Principe che non può chiamar partecipe dell'opera sua un «vulgo» disprezzabile e disprezzato, e che pur dovrebbe riuscire a suscitare in esso un alto sentimento patriottico e civile, nell'atto stesso in cui sistematicamente non gli dà altri esempi se non di tradimenti e di delitti: sia pure ad un «fine buono», e cioè in modo che si risolvano in «beneficio dell'universale», ma con dei mezzi che (troppo spesso lo si dimentica) negano già in sé a priori il fine da raggiungere, e alla lunga gli fanno ostacolo insuperabile anche nel mondo.3
Il che non toglie, si capisce, la mirabile somma di verità nuove che nel trattato si trovano: la sua erompente genialità nel porre d'un balzo, con autorità inconfutabile, le fondamenta vere d'una «nuova scienza»; e quel «prospetto rapido, ma formidabile, della storia italiana nei suoi ultimi risultati, quali il rinascimento li contempla». E, nella stessa poetica licenza della chiusa, il persistente fascino di quella solennissima affermazione, a dispetto di tutto, di un sempre possibile riscatto, a uomini che sappiano e vogliano essere veramente tali. Nonché (e questo è stato detto e mostrato tante volte che è inutile insistervi qui) quell'atto di prepotente immaginazione, di autentica creazione, che gli permise di raffigurare nel suo principato, se pure con la già detta lacuna, la vita e il carattere del nuovo Stato.4
Da tutto questo però ci sembra giusta una deduzione: se, come è persin ovvio, non si può intendere nel vero valore nessuna affermazione del Machiavelli qui e in altre opere senza tener presente tutto il suo pensiero, e se il Principe nacque da una profonda unità spirituale, d'altra parte, per coglierne la grandezza e gustarne l'intima ricchezza, bisogna proprio frantumare la sua organicità programmatica: integrando di volta in volta gli elementi con quanto il Machiavelli stesso ci fornisce in altra sede. Così, ad esempio, a intendere il significato vero, non moralmente né storicamente repugnante, della deformazione diciamo in senso realistico della figura del Valentino (quando la fa tanto più grande e importante di quel che fosse, arricchendola anche di note caratteristiche proprie di altri principi d'allora), bisogna tener presente lo scopo della deformazione in senso idealistico, già da noi accennata, della figura di Castruccio Castracani.
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I Discorsi
Ma ciò non vuol dire che manchino anche in essi le difficoltà, sempre notevoli per chi pretenda costringerne la ricchezza in uno schema logico unitario. Basti ricordare il tipico modo con cui gli «esempi» antichi vengono ora adoperati in funzione di apologhi o miti, per estrarne una loro riposta sapienza, e ora messi sullo stesso piano dei fatti storici moderni più appurati: acutamente criticati e analizzati, materia sperimentale da cui cavar regole. E quelle stesse «regole», frutto dell'esperienza, sono presentate in più luoghi come infallibili, quasi princìpi di una scienza non solo «nuova», com'era ben giusto, ma addirittura esatta, giustificando così le ben note riserve del Guicciardini; mentre in qualche altro passo (trascurato di solito dagli studiosi, e per verità più modesto), lo stesso Machiavelli chiaramente riconosce la «discrezione» con la quale si devono adoperare e regole ed esempi, ammettendo in sostanza che essi non hanno un valore precettistico assoluto, ma quello di semplici norme, di «canoni» (come diremmo noi oggi) per l'interpretazione della realtà.6 E così la religione: ora considerata quasi soltanto come un massiccio fenomeno di credulità, nelle sue conseguenze e forme esteriori e nelle possibilità di sfruttarla quale instrumentum regni; altrove invece, e più spesso (anche se i critici abbacinati da altre idee hanno faticato tanto a riconoscerlo), riconosciuta e additata come un fatto individuale profondo, rigeneratore della coscienza e indispensabile e nobilissimo fondamentum reipublicae, in uno sforzo tenace di afferrarne da ogni punto di vista e valutarne in tutti i riflessi della vita sociale la misteriosa complessità... Un libro anche questo, insomma, che è ben lungi dall'esser tutto logicamente condotto; come venne pur osservato dallo Chabod, quando avvertiva che: «nelle annotazioni a Livio il rigore dell'analisi e il fermarsi del pensiero su di un mondo lontano, sul passato, possono celare quel che in fondo è di non analitico, di non logico - quella vivacità di adesione al mondo romano, che viene non soltanto intravisto, ma glorificato e posto come ideale nella luce della sua formidabile capacità politica»; onde noi possiamo creder di vedere «semplice sagacia di storico, quel che è bene intimità di creazione intellettiva e passionale ad un tempo».
Di qui l'origine di quelle imperiose e seducenti affermazioni, magari sconcertanti non solo da un'opera all'altra, ma nell'interno dell'opera stessa, che siamo andati brevemente indicando.7 Le quali non sono vere e proprie incoerenze del pensiero, e lungi dal rivelarne una debolezza ne mostrano anzi tutta la profonda vitalità e la ricchezza. Perché l'una chiarisce la portata dell'altra, e dall'altra viene illuminata: sì da cogliere e interpretare di continuo i multiformi caratteri della realtà quali il Machiavelli nella sua intima ricerca va man mano scoprendo. E la ragione di tutte si fa evidente se ci riportiamo ogni volta a quel particolare stato dell'animo da cui son scaturite. Ché se il Machiavelli stesso qualche volta sembra esclusivo, ed assumere uno solo dei princìpi che egli ha individuati come canone interpretativo dei fatti, e trascurare allora certi altri che in altra sede gli furon preziosi, ciò è solo perché questo principio egli vuole approfondirlo, vedere tutto quello che esso può rendere; e talvolta veramente, spinto dall'ardore polemico, nell'entusiasmo della scoperta, o magari anche trascinato da impeto verbale di scrittore, tutto intero vi si abbandona.
Così la fecondissima novità del principio della lotta delle classi, tanto utile al vigoreggiare d'una nazione, gli fa sminuire talvolta nei Discorsi o trascurare il peso delle istituzioni e delle leggi nella loro resistenza conservatrice, e la possibilità che esse offrono al gioco delle cupidigie e passioni individuali o di consorterie. Come egli farà invece mirabilmente nelle Istorie: tanto infervorandosi allora nella minuzia delle questioni istituzionali, e nella vivacità dei suoi ritratti, da diventar dimentico del principio suddetto (come ad esempio nel disegnar lo sviluppo e le conclusioni della rivolta dei Ciompi). E così potremmo dire che in lui, fiorentino, e certamente esperto del gioco delle forze economiche nella vita pubblica e privata, il peso di tali forze non viene ad assumere il debito rilievo proprio quando egli parla della sua città: quasi come di cosa troppo risaputa, e trasferita ormai in altre forme del suo pensare politico. E questo appunto sembra potersi applicare un poco a tutta la sua visione del mondo politico; se numerose sparse osservazioni, anche dell'influenza del sito e del clima sulle attività prime degli abitanti e quindi sulle loro inclinazioni e istituzioni, e tutto il Ritratto delle cose di Francia, non ci avvertissero che questa non è una vera lacuna, o se si può chiamare così, non è tale da infirmare il valore di questa visione. Cosicché non si può dire che il Machiavelli, in certi suoi contrasti come in certe unilateralità o trascuratezze, sia propriamente in errore. L'errore è stato e sarebbe nostro: quando pretendessimo sostenere o che il Machiavelli ha visto tutto, o che si trova in lui un sistema bell'e fatto, che basta applicare per saper tutto. Mentre la sua utilità e universalità sta proprio nel continuo acume di questa sempre rinnovata ricerca, che si vale di tutti i mezzi che l'uomo può avere a sua disposizione: in questo ardore di sempre nuove verità, da qualunque parte gli nascan dentro, ad arricchire instancabilmente la propria forza indagatrice e creatrice, ad approfondire ed ampliare sempre più le sue vedute.
Il che significa in definitiva che il Machiavelli pensatore, e quindi anche filosofo, ha tuttavia, nei modi della ricerca e del trarne i frutti e di condurre in genere tutta la sua attività spirituale, assai poco di comune con quello che la parola «filosofo» è venuta a rappresentare per noi in base ad una tradizione che è poi abbastanza recente. Il suo filosofare (e in ciò egli rappresenta veramente e pienamente la miglior coltura del tempo suo), lungi dal limitarsi al raziocinio in senso stretto, si vale anche con eguale fervore e delle facoltà poetiche, e della fantasia, e dei lumi che gli venivano dai venerati ideali classici di fresco rivendicati e dalla passione con cui in nome loro si criticava il mondo medievale: con un trasporto che al di là delle strette verità speculative involgeva tutta la vita. Il suo pensiero si nutre di una esperienza che mischia di continuo e pone sullo stesso piano i «documenti» lasciatici dagli antichi storici, o semplici cronisti o magari anche poeti, e i dati dell'analisi dei fatti contemporanei, e quelli, soprattutto, dell'indagine psicologica più minuta e pertinace, per cui è veramente da stimare profondo «moralista». Ed è interessante vedere nelle sue lettere come il Machiavelli tenda a diventare di continuo un personaggio ai suoi stessi occhi, soggetto d'analisi non meno d'una figura della Storia, o della cronaca della sua città.
Né quindi si può dire che tutti i suoi princìpi si fondino sull'osservazione, in base a quello che fu detto il suo metodo sperimentale. Ci son postulati che sono affermati quasi con un atto di fede, con una specie di «pragmatismo». Come quando, obbligato a riconoscere «quanto possa la fortuna nelle cose umane» e cioè (per dirla alla moderna) il peso di quegli elementi che sono imprevedibili perché noi nella nostra limitatezza non riusciamo mai a cogliere tutte le «cause» che entrano nel gioco, egli d'altra parte afferma «potere essere vero che la fortuna sia arbitra» soltanto «della metà delle azioni nostre». E ciò «affinché il nostro libero arbitrio non sia spento»: perché il pensare il contrario esulava completamente dalla sua visione del mondo, da quel concetto della «dignità dell'uomo» che è alla base di tutta la civiltà rinascimentale. Dove bisogna accettare il ragionamento com'è; mentre voler integrarlo in senso idealistico, come è stato pur tentato, sarebbe falsare il pensiero del Machiavelli.
Un procedere ed una mentalità di cui ci possiamo fare un'idea accostando il Nostro per esempio a Leonardo: per il quale la ragion matematica si identifica con l'ordine dell'universo, e si integra con l'esperienza restando però distinta da essa; e che si affidava altresì a poetiche intuizioni, e notava persino curiosamente favole e indovinelli, tradizioni, sentendovi come una riposta sapienza. Un procedere che riusciva in sostanza ad una specie di vivacissimo «sincretismo» (che corrisponde assai bene a quel sincretismo morale e metafisico che fu dell'umanesimo soprattutto fiorentino e offrì la base all'intera civiltà del Rinascimento): al quale dobbiamo la ricchissima vitalità dei suoi testi, la quantità di suggestioni di diverso ordine che si levano da ogni pagina e - dove lo stile è più strenuo - da ogni riga. Cosicché potremmo raffigurarci il Machiavelli come giunto, per virtù della propria fatica e portato da un ardor di scoperta comune, quasi ad un displuvio, il più alto dell'età sua, dal quale si discopre tutto un nuovo paese; e quello che direttamente o abbastanza compiutamente non si vede, si può intuire, per analogia e per sforzo di fantasia; e spostandosi ad un altro culmine, a un nuovo punto di vista, sempre lungo lo stesso discrimine, cambiano le prospettive ma non sostanzialmente la visione della nuova terra, il senso di quella scoperta; e scendendo per meglio rendersi conto della sua specifica natura in una di quelle vallate, si perdon di vista per un momento le altre; pur continuando a sapere che esse esistono, e ci daranno conferme o arricchimenti o correzioni: nel nostro lavoro di stabilire, di questa nuova terra prima ignota o solo a noi parzialmente cognita da monche relazioni di viaggiatori d'occasione, i caratteri fondamentali.
Ma, ripetiamo, in questa ricerca e nei suoi risultati, anche se una veduta modifica e sembra contraddire le conclusioni che si son tratte dall'altra, se non vi può essere una unità tutta logica e razionale, vera incertezza non c'è: data l'unità spirituale del Machiavelli, la coerenza intima del suo modo di vedere e di annotare.
Se non in una sola cosa: quella appunto che discendeva dalla sua più grande scoperta, la novità più forte, e che non per nulla è diventata il punto di maggior controversia dei suoi interpreti e commentatori: le conseguenze della separazione della sfera dell'attività politica dalla morale.
Dove egli fece un taglio nettissimo, come si sa, e certamente giusto, nel senso di storicamente indispensabile al progresso del pensiero umano; ma uno di quei tagli che se è necessario fare per scoprire la verità e liberare certe funzioni, bisogna poi ingegnarsi a ricucire in qualche modo, pur salvando l'effetto dell'avvenuta liberazione, per non creare una nuova insanabile malattia nel «corpo sociale».
Questa necessità del «ricucire» non si può dire che il Machiavelli non l'abbia sentita. Ché anzi il tema profondo dei Discorsi è proprio la intima religiosità d'ogni cittadino, indispensabile ad ogni veramente salda organizzazione del viver sociale, alla vita non effimera d'ogni stato. Ma sembra chiaro al contempo che egli tenda ad identificarla, anzi ad annullarla addirittura nel suo concetto, per dirla col De Sanctis, di «religione della patria», la quale religione - come tutti sanno e il Machiavelli così frequentemente ripete - deve essere capace in certi momenti di cancellare nell'animo dei cittadini ogni e qualunque considerazione specificamente morale. Donde la difficoltà delle due posizioni; che sono i termini d'un perpetuo problema ben noto al pensiero moderno, di cui sarebbe ingiusto pretendere, si capisce, anche da un Machiavelli la soluzione. Ma si potrebbe pur desiderare che egli della necessità di cercare una soluzione, sia pure in termini di contingenza storica, mostrasse qualche maggior preoccupazione in sede dottrinaria, così come ne sentiva l'esigenza (checché si sia detto in contrario) nel vivo del suo sentimento morale, con una sintomatica incertezza.8
Risulta infatti, e soprattutto, dai Discorsi. l'attiva presenza di questo principio dominante, che il De Sanctis chiamò appunto religione della patria e definì in una sua chiarissima pagina.
«La patria del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sé l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici, per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di stato e salute pubblica erano le formole volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la patria, ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era l'istrumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo. Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi repubblica. E dicevasi principato, dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.»
Sicché il succo del pensiero politico del Machiavelli, l'insegnamento ultimo, sembrerebbe spingerci su una via in capo alla quale si trova ciò che si suole oggi indicare col nome di a statolatria». Nel che dovremmo riconoscere un limite, non già alla dottrina (ché quella, come è naturale, di limiti non poteva non averne) ma alla stessa universale umanità del nostro autore; anche rispetto a quelle idee che già nel primo Rinascimento si affermano: sulla «dignità dell'uomo», non solo in quanto specie o parte d'un gruppo, ma in quanto individuo pensante, in sé compiuto e affatto autonomo, che non ripete la sua perfettibilità da nessun sistema o dogma nel quale in tutto o in parte egli si annulli, ma solo dal modo come li vive e giudica nella sua coscienza.
Dobbiamo tuttavia aggiungere che il riconoscimento di questa limitazione, se pure dal punto di vista logico sembri inoppugnabile, non ci soddisfa; non ci sembra in pieno accordo come abbiamo veduto col sentimento del Machiavelli, e ancora con quella instancabile incontentabilità nella ricerca del vero che vibra in ogni sua pagina, con quel gusto spregiudicato di distruggere tutti i «miti» che tendono a fossilizzarsi in sistema che il De Sanctis chiamava la sua «ironia». E soprattutto ci appar repugnante a quel vivissimo senso di invito ad una verità sempre più completa, a quell'incoraggiamento continuo a pensieri di libertà e a un liberissimo pensare, che ritroviamo ad ogni passo nell'opera sua. È vero che il Machiavelli, come giustamente dice il De Sanctis, della libertà dell'individuo singolo dentro lo Stato, secondo la concezione moderna, non poteva avere chiara idea, e tanto meno dottrina. Pure, nella sua indefettibile pretesa di giudicare tutto da un punto di vista puramente e assolutamente ragionevole e umano, senza mai arretrare davanti ad una trascendenza che vuol diventare imposizione e programma, freno al più lucido intendere, sembra potersi vedere, anche di questa nostra libertà, più che un precorrimento, il principio. E non è forse avventato oggi dire come in quella religiosità intima ed attiva da lui postulata nei Discorsi, fondamento della solidarietà umana e civile secondo che egli trovava in Cicerone, ma al contempo fatto squisitamente individuale che deve vivere nell'intimo della coscienza di ciascun cittadino, sia da ricercare la verità più profonda del suo sentire, e insieme quel tribunale supremo cui commisurare la «moralità» di tutti gli atti, anche di quelli politici.
Bibliografia
La prima opera del Machiavelli pubblicata fu il Decennale primo. nel 1506, col titolo Nicolai Malclavelli fiorentini Compendium rerum decennio in Italia gestarum; nel 1521 fu stampata l'Arte della guerra. in Firenze, presso gli eredi di Filippo Giunta; della Mandragola furon fatte subito tre edizioni, senza indicazione di luogo né d'anno, ma di cui la prima fu forse a Siena nel 1520 e l'ultima si stima apparsa a Roma nel '24. I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio usciron postumi a Roma, nel 1531, presso Antonio Biado, e nello stesso anno (posteriormente ma indipendentemente) a Firenze, presso Bernardo Giunta. Indi nel 1532, ancora parallelamente presso il Biado e il Giunta, uscirono le Istorie fiorentine; e finalmente, sempre nel '32, cinque anni dopo la morte del M., il Biado stampò il libro del Principe, con la Vita di Castruccio Castracani e la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli ecc., e il Giunta gli stessi scritti, con in più il Ritratto delle cose di Francia e il Ritratto delle cose della Magna: sono le due edizioni dette rispettivamente «la bladiana» e «la giuntina». Nel 1549 Bernardo Giunta a Firenze dava la Novella di Belfagor arcidiavolo, coi due Decennali, l'Asino d'oro, e i Capitoli; e nel 1559 uscirono i Canti carnascialeschi (nella raccolta del Lasca: Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi). Fra le altre edizioni cinquecentesche, notevoli le aldine di Venezia, del 1540 (Principe, Arte della guerra, Discorsi, Historie, in altrettanti volumetti); la bella edizione delle Opere del 1550, senza indicazione di luogo, in cinque tomi col ritratto del M. in frontespizio (detta perciò «la Testina»); e l'edizione di Tutte le opere, Ginevra, 1550.
Nell' '800 importante fu l'edizione delle Opere «Italia 1813». Indi, via via con maggior completezza e precisione critica: Opere, e Opere minori, a cura di F. Polidori, Firenze, 1843 e 1852; Scritti inediti di N. M. risguardanti la storia e la milizia (1499-1312), a cura di G. Canestrini, Firenze, 1857.
1 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere, Parte II, cap. 9; U. Foscolo, Della patria, della vita, degli scritti e della fama di Niccolò Machiavelli.
2 Commentarti politico-critici (in Prose letterarie dell'ed. Le Monnier, vol. II). Più complesso il pensiero del Manzoni, che mise in bocca come tutti ricordano al suo Don Ferrante quella sentenza sul Machiavelli: «mariolo, sì, ma profondo». Nella Morale cattolica il M. è esaminato «tra gli scrittori che presero l'utilità per norma suprema dei loro giudizi nelle cose politiche»; e quindi condannato, ma non sommariamente: scorgendo il Manzoni in lui, oltre al genio, una manifesta inclinazione al bene, e concludendo, a dirla in breve, che il M., se pure non di rado «mariolo», non lo fu mai quando fu veramente profondo, non potendo l'errore morale scortarci a verità. Il Balbo nel suo Sommario della Storia d'Italia venne alla severa condanna che, malgrado il suo «grande scopo» sia difficile trovare «un libro così fatale ad una nazione, come il Principe all'Italia»; ma attribuì in sostanza il «male» del M. soprattutto alla sua ambizione dopo la caduta della repubblica, di «rientrar in uffizio», e alla perversità dei tempi. Idea quest'ultima che piacque al Capponi, il quale nella sua Storia delta Repubblica di Firenze, finì per attribuire tutto il men buono del M. ai tempi suoi: con duro dissenso, ma non senza particolari finezze, i. Forse ancor più noto è, del De Sanctis, il saggio L'uomo del Guicciardini, col parallelo fra i due grandi fiorentini. A far meno sommari questi rapidi accenni alla fortuna del M. nel nostro '800 risorgimentale e postrisorgimentale, ricordiamo le pagine di Giuseppe Ferrari nel suo Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri (Milano, 1862, lezioni IX, X e XI), e quelle, più disinvolte ma più acute, del suo precedente scritto: Machiavel juge des révolutions de notre temps (Parigi, 1849, pubblicato in italiano, Firenze, 1921). Nel Ferrari già si incomincia a scorgere quella tendenza «scientifica» cui più avanti accenniamo; ma vi si rivela altresì, più interessante per noi, l'inizio d'una critica veramente feconda alla concezione del Principe, partendo non più dalla discussione astratta ma dall'esame storico dei tempi. Che fu la via sulla quale si mise l'Oriani, giungendo ad assurde negazioni, nelle eloquenti e arbitrarie pagine un tempo anche troppo fortunate di Fino a Dogali (Milano, 1889) e de La lotta politica in Italia (Torino, 1892).
3 Così accadde appunto (né il M. poteva ignorarlo) al duca Valentino e a suo padre Alessandro VI, i cui procedimenti, abilmente accusati e ingranditi dall'avversa propaganda veneziana, destarono tanto sospetto e terrore all'intorno da porre un insuperabile freno alle loro ambizioni (v. al riguardo il recente libro di G. Pepe su La politica dei Borgia). E quando M. nel Principe dice che «era nel duca tanta ferocità e tanta virtù» che, mortogli d'improvviso il padre, avrebbe «retto a ogni difficultà» solo che in quel momento «lui fussi stato sano», Io fa per amor della sua tesi e della figura ideale che va disegnando; ma ben diverso parere sulle residue possibilità del Valentino aveva dato lui stesso in quel momento, scrivendo alla Signoria di Firenze.
4 «E ti vien fuori la lotta politica, affermata con naturale sicurezza: lo Stato agisce conquista e distrugge, senza dover render conto ad alcuno; esso è già il supremo valore. Gli manca ancora, per adesso, la pienezza di vita intima - quel suo continuo vivere nell'animo del popolo chiamato a crearlo ora per ora; è pertanto formale, come la lotta politica è soltanto esterna: ma intanto non ricerca più al di fuori di sé le ragioni della sua esistenza. Non le ricerca nemmeno nel suo intimo: si trova effigiato nel suo momento di equilibrio, mai più raggiunto, che non ricerca nulla e non ha bisogno di giustificazioni o di chiarimenti.» Federico Chabod, op. cit., p. xxx.
5 Nella vasta introduzione al 1° volume dell'edizione mondadoriana di Tutte le Opere di N. M. (1949), e prima ancora nel bel capitolo al M. dedicato (utilissimo anche al comune lettore) della sua Storia della letteratura italiana. Ivi si richiamano i noti passi del capitolo x del Libro primo dei Discorsi: «Né sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perché quegli che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parIassono liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina»... E più oltre, dove si afferma che chi consideri i fatti: «conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, l'Italia e il mondo abbia con Cesare! E sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà da ogni imitazione de' tempi cattivi, e accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni»... E così si commenta: «Non che egli abbia, l'autore del Principe, avversione per una magistratura che in certi tempi ponga la salute della repubblica nelle mani di un solo: è avverso alla magistratura arbitraria. L'autore del Principe teoricamente riconosce la legittimità di colui che s'impadronisce dello stato con la forza, ma nel suo sentimento lo riprova, e nei Discorsi, correggendo anche la prima teoria, lo rinnega» (op. cit., Ia ed., vol. II, Parte prima, p. 166).
6 Si veda ad esempio il passo dei Discorsi a p. 140 (1, 18), dove si ammette essere «quasi impossibile» dare regole in certi casi. E nell'Arte della guerra, a pp. 501, 502, e 522, dove finemente si segnano i limiti della possibilità dell'imitazione degli esempi antichi, e quindi del valore delle regole (qui chiamate «generalità») che da essi si traggono.
7 Ad esempio, nei Discorsi (p. 142 e nota 2), uno dei più famosi precetti del Principe viene notevolmente ridotto nella sua portata, dichiarandosi quasi impossibile trovare chi sappia usare volta a volta «la bestia e lo uomo»; e più oltre (p. 324) si accenna al «male» che acceca chi lo pratica; e ancora si distingue tra la «fraude gloriosa» e quella «che non ti acquisterà mai gloria» (p. 409). Il ben noto pessimismo a proposito del poco discernimento del «vulgo» è notevolmente corretto, e quasi smentito, sempre nei Discorsi. 1.1, 4 (p. 103) dove ancora si loda la «moltitudine» (ibid., 58, pp. 209, 211); o si dà una risposta implicitamente assai differente da quella del Principe alla famosa questione «s'elli è meglio esser amato che temuto» (III, 20, p. 370). E interessantissimi poi sono i brani (Discorsi, III, cap. 30 e 31, pp. 388 e 389) dove, secondo la tradizione, si concede anzi si loda negli «istorici buoni» la tendenza a porre in particolare rilievo certi «casi» che possano servire d'insegnamento, e a mettere in bocca ai personaggi storici, per lo stesso fine, idee proprie di chi scrive. Principi che, se fossero veramente applicati, toglierebbero alla storia ogni valore documentario.
8 La stessa incertezza che, nel complesso, fu dichiarata dal Croce: «Niccolò Machiavelli è considerato schietta espressione del Rinascimento italiano; ma converrebbe insiememente ricollegarlo in qualche modo al movimento della Riforma, a quel generale bisogno che si avvivò nell'età sua, fuori d'Italia e in Italia, a ricercare il problema dell'anima. Ed è risaputo che il Machiavelli scopre la necessità e l'autonomia della politica, della politica che è al di là dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l'acqua benedetta. È questo il concetto che circola in tutta l'opera sua e che quantunque non sia stato da lui formulato con quella esattezza didascalica e scolastica che di solito si scambia per filosofia, è concetto schiettamente filosofico, e rappresenta la vera e propria fondazione di una filosofia della politica.»
«Ma quel che di solito non viene osservato è l'acre amarezza con la quale il Machiavelli accompagna questa asserzione della politica e della sua intrinseca necessità. «Se gli uomini fossero tutti buoni (egli dice) questi precetti non sariano buoni» ... Il sospiro del Machiavelli va verso un'inattingibile società di uomini buoni e puri, ed ei la sogna nei passati tempi lontani, e intanto preferisce i popoli meno culti ai più culti, quei della Magna e i montanari della Svizzera agli italiani, francesi e spagnuoli allora in auge, che sono la «corruttela del mondo» . . . La mancanza di quel sentimento amaro e pessimistico distingue dal Machiavelli il Guicciardini, che prova nient'altro che una sorta di disprezzo verso gli uomini nei quali si trova tanto «poca bontà" e si accomoda tranquillamente in questo mondo disistimato, mirando solo al vantaggio del proprio «particulare».
Più importante ancora è che il Machiavelli sia diviso d'animo e di mente, circa la politica della quale egli scopre l'autonomia: ora triste necessità di bruttarsi le mani per aver da fare con gente brutta, ora arte sublime di fondare e sostenere quella grande istituzione che è lo Stato ... E diabolica o divina politica? Il Machiavelli la vagheggia sotto l'immagine del Centauro, che appunto i poeti dipingono bellissimo tra l'umano e il ferino, e descrive il suo principe per metà uomo e per l'altra metà belva; e perché non cada dubbio sulla purezza di quell'umanità, anche gli argomenti della mente, la malizia, rigetta nella parte belluina, volendo che questa sia tra di volpe e di lione, perché il lione non si difende dai lacci e la volpe non si difende dai lupi, e sarebbe da novizio nell'arte del regnare voler «star sempre in sul lione». L'arte e la scienza politica, di pura politica, portata dagli italiani alla sua maturità gli è oggetto d'orgoglio; sicché al cardinal di Rohan che gli diceva che gli italiani non s'intendevano di guerra rispose che «i francesi non s'intendevano di stato»» (in «La Critica», Napoli, anno XXII, 1925, fase. IV).