Machiavelli, Niccolo
Scrittore politico, storico e trattatista (Firenze 1469 - ivi 1527).
Per gli anni della formazione e della giovinezza di M. non disponiamo che di poche e frammentarie notizie, la maggior parte delle quali desumibili dal diario del padre Bernardo. Questi ci lascia intravvedere per il figlio un corso di studi tipico per un giovane della media borghesia cittadina avviato a carriere amministrative o a professioni giuridiche. La sua dovette essere una formazione essenzialmente latina, e quindi estranea alla grande rinascita umanistica degli studi greci che nella Firenze di Lorenzo il Magnifico aveva avuto uno dei massimi centri europei, e anche estranea alla maggiore corrente filosofica del tempo, il neoplatonismo di Marsilio Ficino. Tra i testi di Bernardo che dovettero influenzare la formazione del figlio troviamo anzittutto Tito Livio, quindi Macrobio, Prisciano, l’Etica aristotelica con il commento dell’Acciaiuoli, ma anche gli scritti logici dello Stagirita, e poi Plinio, Giustino, nonché diverse opere di Cicerone. Altro dato fondamentale è una trascrizione giovanile, integralmente di mano di Niccolò, del De rerum natura di Lucrezio che testimonia un contatto allora alquanto inconsueto con uno dei filoni essenziali del materialismo antico. La sua formazione, quindi, come poi il complesso della sua biografia, ci restituisce il profilo non di un filosofo in senso tecnico e accademico, e neppure di un umanista o di uno studioso, quanto piuttosto di un pensatore a suo modo rigoroso e sistematico, ma estraneo alle forme della trattatistica accademica (sintomatica la scelta del volgare sul latino), nonché estremamente reattivo nei confronti della realtà in cui si trovava ad agire. Dal 1498 M. fu al servizio della Repubblica fiorentina con funzioni di sempre maggior responsabilità: sul piano diplomatico, svolgendo missioni presso le maggiori corti dell’epoca; su quello politico, coadiuvando l’operato del gonfaloniere Pier Soderini; e soprattutto su quello militare, nella veste di attivo organizzatore della milizia cittadina. Tale larghissima esperienza sarà in seguito richiamata, insieme all’assidua lettura degli autori antichi, come la fonte e quasi la garanzia del proprio sapere politico. Nel 1512, a seguito della restaurazione dei Medici in Firenze, M. – in quanto braccio destro del deposto gonfaloniere – fu estromesso dal suo ufficio, incarcerato e torturato, per essere poi confinato fuori Firenze. All’inattività forzata che seguì risale la composizione di tutti i suoi maggiori testi politici e storici (fino ad allora non era stato autore che di poesia e di teatro): il Principe (➔) (1513), nel tentativo di conquistare il favore dei nuovi signori di Firenze; i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1513-19), nati da un libero esperimento pedagogico a contatto con il gruppo dei giovani aristocratici degli Orti Oricellari; l’Arte della guerra (1521), unica sua opera maggiore pubblicata in vita; nonché, riconquistata almeno parzialmente la fiducia dei Medici, le Istorie fiorentine (1525) commissionategli da papa Clemente VII. Solo negli ultimi anni tornò a ottenere qualche minore incarico diplomatico e militare. Morì nel giugno del 1527, a poco settimane dal sacco di Roma, che sanciva quella gravissima crisi politica e militare degli Stati italiani in tanti suoi scritti deplorata e combattuta. Si era frattanto affermato come il massimo commediografo del tempo, grazie in partic. alla Mandragola.
Fondamentali, per la ricostruzione del pensiero politico che gli avrebbe dato fama mondiale, sono il Principe e i Discorsi. Considerato il carattere della formazione e della biografia machiavelliana, e più ancora l’intento sempre pragmatico e in qualche misura occasionale delle sue opere, sarebbe inutile e persino fuorviante attendersi una definizione formale e scolasticamente impostata dei temi e dei concetti che costituiscono la trama di queste due opere. Una ricca esemplificazione storica accompagnata da commenti volti a estrarne «regole» è la sostanza del metodo argomentativo machiavelliano, ben attivo fin nei primi testi degli anni del segretariato, dove è evidente l’esigenza di compenetrare esperienza politica e riflessione teorica. Già questi brevi scritti lo mostrano del tutto consapevole di quelli che saranno i temi al centro della successiva riflessione. In primo luogo il classicismo esasperato, ossia la convinzione che dalla vicenda di Roma antica sia possibile dedurre le «regole» della buona politica, valide sempre e comunque. Quindi il naturalismo di fondo e il pessimismo antropologico; l’assenza di un disegno provvidenziale nella storia umana e naturale; la centralità della guerra come condizione immanente alla realtà politica; la considerazione della funzione politica della religione e delle istituzioni deputate al culto; la meditazione sulla fortuna; l’attenzione per le divisioni sociali colte nel loro nesso con la forma istituzionale dello Stato. Che sono appunto le disposizioni teoriche e i grandi temi che trovano pieno sviluppo nel Principe. Quest’opera non è solamente una teoria del perfetto agire politico e una fenomenologia dei principati, ma anche un progetto per il presente: su scala cittadina, con la delineazione di un «principato civile» che derivava dal passato fiorentino; e su scala nazionale, esortando a una reazione militare contro il predominio straniero. È inoltre il tramite dal quale l’autore sperava il proprio reinserimento nella politica attiva. Pur nel carattere composito dell’opera, a M. non manca la precisa consapevolezza del proprio metodo e della sua novità: «sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende – proclama in un celebre passo in cui prende congedo da un’illustre tradizione classica e cristiana di pensiero politico – mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità». Il rifiuto di costruire una precettistica alla luce del rapporto tra politica e morale, non è in M. una premessa empirica o una disposizione psicologica, come poteva essere presso alcuni pensatori classici e anche dell’era cristiana, ma è la conseguenza di una consapevole impostazione di metodo, che consiste nell’intuizione di un dato fondamentale della realtà umana, la quale è strutturalmente varia, mutevole, insicura, perché vari, mutevoli e insicuri sono e si sentono gli uomini, e il loro naturale tentativo di contenere e volgere a proprio vantaggio l’immane potenziale negativo che è nella loro stessa condizione, non fa che confermarla e rimettere continuamente in moto il flusso della storia. Di tale carattere della condizione umana, singolarmente e collettivamente considerata, il Principe abbonda di espressioni divenute celeberrime per la loro icasticità (alla fortuna mondiale dell’opera non è estraneo uno stile asciutto, conciso e di rara efficacia) le quali nel loro insieme indicano e caratterizzano il rischio permanente che la realtà umana crea a sé stessa. Proprio questa continua minaccia di disgregazione e di rovina è la materia sulla quale sorge e si esercita la politica: essa infatti si rende necessaria per contrastare la minaccia che l’azione degli uomini e delle cose della natura (ma, almeno nel Principe, più degli uomini che delle cose della natura) rappresenta per altri uomini. Ecco perché, segnando con ciò la massima distanza da posizioni universalistiche e irenistiche ancora profondamente vive nel Rinascimento, per M. la politica è sempre, strutturalmente, conflittualità; gestione quanto più possibile razionale e utile della conflittualità che segna la condizione umana, ma mai utopica elisione o soppressione di essa. In tal senso, nella sua radice ultima, la politica è comunque una relazione che presenta vincitori e vinti, uomini che comandano e uomini che obbediscono, uomini che l’equilibrio esistente vogliono conservare e altri che lo vogliono capovolgere. L’autentica rivoluzione nell’episteme della politica operata da M., che alcuni hanno voluto paragonare a quella galileiana, consiste proprio nello scrutare il mondo della politica nella sua elementarità definendone le dinamiche costitutive. In ciò consiste il suo realismo e l’orgoglio, che non gli è estraneo, di aver fondato la moderna scienza politica. Tale rivoluzione fu resa possibile proprio dall’aver posto al centro della considerazione la concreta esperienza della storia congiunta a una rinnovata capacità di leggere gli autori antichi, ormai umanisticamente avvicinati senza il filtro dell’allegorismo medievale e cristiano. Tutta l’opera è attraversata dalla percezione della «necessità» della politica; ossia la necessità, che non conosce gradazioni o attenuazioni, di conservare lo Stato: essa è assoluta e come tale il principe deve sentirla. La perfezione della «virtù» politica – vecchia parola che, spogliata di ogni connotazione morale o religiosa, riceve in M. contenuti affatto nuovi – consiste proprio nel porsi in condizione di rispondere agli imperativi di tale necessità. Pertanto l’agire politico, nella sua essenza e nelle dinamiche che gli sono proprie, è compiutamente autoreferenziale, non rinvia a null’altro che gli offra giustificazione e fondamento e che, in qualche modo, lo redima su di un diverso piano, sia esso morale, giuridico, religioso. Ecco perché, piuttosto che di autonomia (Croce parlò di M. scopritore dell’autonomia della politica), che è pur sempre un relazionarsi e distinguersi da altro, bisognerà parlare per M. di assolutezza della politica; ossia, di un criterio dell’agire che, una volta assunto, tutto a sé riconduce e di tutto diviene norma. Nella sua pagina, come nella sua teoria, l’ambito della morale rimane allora irrelato rispetto a quello della politica; né mai può parlarsi di un fine extrapolitico che offra riscatto al male che può essere intrinseco al mezzo politico. In realtà per l’autore del Principe il male non cessa di essere tale perché talvolta esso può essere politicamente necessario per la salvezza dello Stato e la conservazione del potere. L’autentica grandezza etica di M., e la radice dell’inconfondibile accento tragico che segna la sua opera (nonché la sua incommensurabile distanza rispetto alla posteriore trattatistica della «ragion di Stato» e al casuismo gesuitico del «fine che giustifica i mezzi»), sta proprio nella consapevolezza con la quale entrambi i termini – la politica e l’etica – sono saldamente posseduti, senza che tuttavia dell’antinomia che li oppone sia avvertita come possibile una qualche mediazione. In M. non manca una considerazione naturalistica dei soggetti politici e dunque la tendenza a considerarne in termini fisiologici le dinamiche, evidente nel fiorire di metafore mediche, zoologiche e vegetali (le società come «corpi misti», lo Stato come edificio o come pianta la cui robustezza dipende dalle fondamenta o dalle radici, le classi sociali come liquidi fisiologici, ecc.). Ma per lo più i suoi testi vivono nella non risolta contraddizione tra una logica e un tempo della natura al quale apparterrebbero le società umane, che dunque conoscono una vicenda di nascita, sviluppo e morte che in quanto tale non dovrebbe subire deviazioni; e una logica e un tempo della «virtù» politica, individuale e collettiva, che invece viene dichiarata capace di contrastare il «corso» che la natura e i cieli assegnano a ciascun corpo. In effetti, l’assolutezza e la necessità della politica sono tali non perché esprimano una struttura eterna e immutabile della realtà umana e naturale, ma perché, semplicemente, sul filo di un primordiale bisogno di sicurezza e di garanzia contro la morte e la rovina che possono derivare dall’essere «tristi», e cioè «non buoni», la politica afferma sé stessa e la sua logica, la quale può imporre di infrangere il dettato della coscienza morale. È dunque chiaro che la necessità propria all’azione politica non va confusa con la necessità che risulta da una legge di tipo strettamente naturalistico. Quindi per il principe adeguare la propria azione agli imperativi della politica non è un destino inscritto nella naturale struttura delle cose, ma è, anzitutto, una scelta tragica poiché può richiedere il sacrificio della coscienza; è un difficile compito da perseguire, una capacità (una «virtù» nel lessico di M.) da acquisire e mantenere nelle fluttuazioni insidiose della «fortuna», la quale altro non è che il trasparente sinonimo della minaccia che dal caos della storia è sempre pronta a risorgere contro di lui e contro lo Stato. Lo stesso ricorso, che M. prescrive, al lato bestiale e ferino della natura umana è, per il principe, non l’abbandonarsi a una bassa istintualità, bensì una scelta dettata da calcolo razionale, che richiede sapere e capacità di distacco, plastico adattamento alla varietà delle situazioni e senso dell’occasione, come è chiaramente espresso dalla celebre metafora del principe-centauro, il cui senso è che «a uno principe è necessario sapere usare bene la bestia e l’uomo». Dalla sua pubblicazione postuma nel 1532 il Principe si è subito imposto come uno snodo centrale nella coscienza politica occidentale, ben al di là dei fenomeni più contingenti del machiavellismo (➔) e dell’antimachiavellismo del 16° sec. e della coeva trattatistica intorno alla ragion di Stato. Dopo di allora non ci fu scrittore di storia e di politica che in una maniera o nell’altra non risentisse della lezione di Machiavelli. Per altro verso, una lettura semplificata del Principe ha fatto di questo testo e del suo autore, dal teatro elisabettiano fino alla contemporanea letteratura per manager, il simbolo della spregiudicatezza e del cinismo politico, fornendo il pretesto alle più disparate rivisitazioni che continuano ad alimentare il mito, ancor vivo specialmente fuori d’Italia, di un M. demoniaco e maestro del male.
Diversamente dal Principe, il commento liviano non risponde a una sfida delle contingenze presenti: dà bensì espressione vivissima alla passione politica dell’autore, ma la dispone in un congegno teorico ed espositivo assai più largo, nel quale l’approfondimento dei propri motivi teorici e storiografici risulta di gran lunga prevalente. Medesimo è però lo sfondo di letture classiche e di esperienze moderne che è dato scorgere dietro le due opere. Rimane, come maggiore differenza di impostazione, che nell’opuscolo sui principati la politica è prevalentemente considerata dal punto di vista dell’azione individuale, mentre i Discorsi si presentano come una teoria della perfetta repubblica e un’analisi distesa dei fattori di lunga durata nella vita degli Stati. Anche in questo diverso e più complesso contesto non è però trascurato quel che la politica e la vita associata devono, specie nei momenti aurorali o nelle crisi acute, al ruolo demiurgico dell’individuo d’eccezione. Inoltre, la maggior ampiezza dell’opera e il suo andamento di libero commento ad alcuni luoghi dello storico latino consentono a M. quelle chiarificazioni di carattere gnoseologico e anche di filosofia della storia e di cosmologia che non avevano trovato luogo nel Principe. I Discorsi sono anzitutto una sfida pedagogica: a essere indicato come degno di imitazione è lo stesso sapere politico degli antichi, e le realizzazioni civili alle quali esso pervenne. In tal modo il motivo tutto umanistico dell’imitazione degli antichi, che è il cuore del classicismo rinascimentale, riceve un’estensione tanto provocatoria quanto inedita, quando almeno sia considerata nell’intensità e nel valore che l’autore vuol conferirle, includendovi la vita civile e i costumi militari. L’imitazione viene dichiarata possibile perché nulla è cambiato: il principio dell’uniformità umana e naturale della storia (gli uomini sono sempre gli stessi, così come gli elementi naturali e cosmici che ne influenzano le vicende) consente che con l’antichità siano istituiti dei confronti autentici e normativamente validi, e che l’imitazione sia ritenuta politicamente praticabile. È soprattutto a causa della religione cristiana che l’uomo moderno è divenuto incapace di apprezzare quel sapere politico che invece gli antichi possedevano pienamente. Il compito, teorico e pratico, conoscitivo e pedagogico, che M. assume consiste nel rendere nuovamente udibile la lezione civile degli antichi. Da questa posizione discende non solo il generale atteggiamento antimoderno, ma la più radicale polemica anticristiana che percorre il testo e si esplicita più che nell’invettiva contro la Chiesa di Roma, nell’adesione alla teoria, di derivazione averroistica, dell’eternità del mondo. Ai primi 18 capp. dell’opera, che appaiono più marcati da un’intenzione sistematica, M. affida il compito di delineare il quadro delle condizioni che rendono possibile la genesi del vivere politico nelle sue varie forme, individuando le ragioni del differenziarsi di tali forme, del loro mantenersi e crescere potenti, e infine del loro decadere (secondo l’impostazione classica, di matrice aristotelica, le forme sono tre: monarchia, aristocrazia e democrazia, con le relative degenerazioni). Al di là degli intenti classificatori, è subito chiarissimo il punto di metodo: non è nei cieli della religione, o negli ideali del diritto e dell’etica, che va cercato il criterio con il quale giudicare le «città» e il loro sviluppo; è piuttosto nella loro stessa storia che bisogna saperlo scorgere, nelle concrete realizzazioni alle quali esse pervennero, nella capacità di resistere agli «accidenti» e nella «civiltà» che seppero esprimere. Ecco perché il paradigma dell’antichità si specifica nell’ulteriore paradigma della storia romana arcaica: ossia di quella storia che pose le premesse per la più straordinaria realizzazione civile che l’umanità abbia mai conseguito. Su questi fondamenti M. delinea una genesi delle società nella quale un’umanità ferina, mossa solo dall’elementare bisogno della propria difesa e sostentamento, viene trovando gli istituti del vivere civile a poco a poco e senza la guida di una qualche razionalità superiore. La stessa «cognizione delle cose buone e oneste», e la conseguente «cognizione della giustizia», con movenza crudamente utilitaristica non nasce che dal calcolo di coloro che, essendo ormai nella condizione di poter «fare leggi» e «ordinare punizioni», presumono di doversi difendere dalle «ingiurie» che vedono compiere contro terzi, e delle quali temono di divenire possibili bersagli. Prospettata nella dimensione antropologica degli «inizi», inscritta in una «sterminata antichità», esce confermata quell’intuizione della politica come risposta a una primordiale esigenza di sicurezza e di difesa che nel Principe veniva invece ragionata nella logica che deve sorreggere l’azione individuale, o dello Stato già costituito come individualità. Sempre sulla falsariga della storia romana, messa a confronto con altre vicende istituzionali, M. scorge nelle costituzioni che reggono la vita degli Stati il riflesso degli assestamenti e dei compromessi a cui mettono capo le inevitabili lotte sociali che attraversano il «corpo» di ogni società. Quanto mai innovativo a questo proposito il suo atteggiamento e la sua valutazione storiografica: se pressoché unanime era stata e ancora a lungo sarà la condanna delle lotte e dei tumulti sociali, in nome della pace sociale, M. al contrario, guardando agli esiti politici e militari cui Roma pervenne, scorge negli urti tra patrizi e plebei il fattore che spinse a trovare un più equo assetto istituzionale, rendendo la stessa società più dinamica e libera, nonché pronta a correre l’avventura della conquista militare e della grandezza. La libertà che a più riprese M. evoca, e della quale Roma offrì la più alta realizzazione, non ha nulla a che vedere con la moderna libertà dell’individuo nei confronti dello Stato – problema che nel suo orizzonte teorico neppure si pone – ma è ragionata nei termini esattamente opposti, e in ciò veramente rispondenti all’esperienza storica dalla quale proveniva, della libertà dello Stato e delle sue istituzioni dagli appetiti degli individui e delle fazioni. Le varie espressioni sinonimiche o concettualmente equivalenti impiegate da M. – «vivere civile», «vivere libero», «comune bene», o anche talvolta e più semplicemente «repubblica» – concernono sempre la vitalità e la potenza di quello Stato che, avendo saputo dare adeguata espressione alla materia sociale che racchiude nel suo seno, non teme che da tale materia si generino «sette» o fazioni operanti fuori e contro la propria struttura, e perciò è nelle migliori condizioni per prevenire le minaccie che sempre sorgono sulla scena internazionale. È più che legittimo considerare i Discorsi come l’atto fondativo della moderna storiografia sulla Roma classica. Ma al di là del suo valore storiografico, quest’opera così integralmente penetrata dal motivo umanistico dell’imitazione, così potentemente animata da una passione antimoderna, che è civile prima ancora che culturale; quest’opera che tanto in là ha spinto il mito dell’incondizionata perfezione degli antichi, ha poi aperto la strada, percorrendone per suo conto un buon tratto, a una considerazione scientifica e disincantata della storia e della politica del mondo antico. E, conseguentemente, della storia e della politica degli stessi moderni.
Nasce a Firenze da famiglia modesta
Svolge l’incarico di segretario della seconda cancelleria della Repubblica fiorentina
Dopo la restaurazione dei Medici si ritira dalla vita politica
Scrive il Principe, e lavora (1513-19) ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, entrambi usciti postumi
Gli vengono nuovamente affidati incarichi pubblici, sia pure di minore importanza
Pubblica l’Arte della guerra
Muore a Firenze