Machiavelli, Niccolò
Nella Firenze laurenziana nella quale si svolse la sua educazione letteraria, probabilmente il M. lesse, giovinetto, la Commedia nell'edizione commentata dal Landino (Firenze 1481), anche se essa non compare tra i libri del padre Bernardo. Difatti i segni dell'incontro culturale con D., destinato a lievitare nel tempo, si rinvengono chiari ed entusiastici in uno dei primi contributi politico-civili del segretario fiorentino, nell'Allocuzione fatta ad un magistrato (c. 1500-1501), dove le due terzine di Pg X 73-78, che avviano la raffigurazione esemplare dell'imperatore Traiano, sono allegate ad autorevole testimonianza della virtù della giustizia pubblica, con una chiosa celebrativa dei versi del " Dante nostro " (" versi aurei e divini... Versi, come io dissi, veramente degni di essere scritti in oro, per i quali si vede quanto Iddio ama la giustizia e la pietà "), che in tanto svelano l'intendimento pedagogico-civile della distesa citazione, in quanto tradiscono una disinvolta confidenza con il capolavoro dantesco.
Com'era fatale, per ragioni storiche e di gusto, soltanto la Commedia, e piuttosto precocemente, entrò nel raggio della pratica speculazione del politico e dello storico; la conoscenza del De vulg. Eloq. resta legata a un circoscritto episodio culturale, mentre occasionali quanto rari si presentano invece i ricordi delle altre opere dantesche. La distratta referenza al Convivio (I XI 8), sfogliato forse nell'edizione fiorentina del 1490, nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (I 53 " E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida: Viva la sua morte ! e Muoia la sua vita "), giunge a tal riguardo indicativa: il M. scambia, impiegandolo per la sua precettistica politica, un passo del trattato volgare, addotto da D. a fini linguistici, con un luogo della Monarchia, della quale ebbe forse notizia tramite uno dei due volgarizzamenti quattrocenteschi fiorentini (verisimilmente quello del Ficino, di più ampia diffusione manoscritta), dato che essa ancora giaceva inedita (come del resto altre opere di D., dalla Vita Nuova alle Rime, sempre taciute dal Machiavelli). Si può anzi affermare che con il procedere degli anni la presenza della Commedia si faccia negli scritti pubblici e privati via via più avvertibile, attraverso riecheggiamenti o reminiscenze più o meno fedeli condotti sovente sul filo della memoria.
Al suo ufficiale debutto di storico nel Primo decennale (1504) il M. impiega il difficile strumento metrico di D., la terzina, incorrendo quasi fatalmente, anche se non troppo spesso, per il diverso taglio della narrazione cronachistica, indulgente all'andante popolaresco e prosastico, in calchi della Commedia (cfr. per es. i vv. 124-126, ove s'incrociano Pd VI 108 e If XI 90; i vv. 178-179, risultanti dalla scelta combinata di Pd III 105 con If VII 39 e Pd XXI 125-126; il v. 207 esemplato su If XXIII 102), che si diradano nettamente nell'incompiuto Secondo decennale (il caso più rilevante al v. 181, condotto su Pg XII 70), ancor più secco e documentario del precedente. Il verseggiatore in terza rima dimostra una conoscenza più confidenziale e stretta del modello, quando si dispone a svolgere in quel metro argomenti morali e meditativi, nei Capitoli: da quello, precoce, Dell'ambizione (cfr. v. 83 da If VII 82) a quelli seguenti la disgrazia politica (Dell'ingratitudine 4-6 da Pd XV 4-7, v. 21 da Pd I 12, vv. 118-120 da If XIII 64-66; Di fortuna 67-69 da If VII 91-93), con crescente frequenza la musica della Commedia dà il ‛ là ' a una serie di variazioni personali che di rado infrangono l'organismo delle rime, talora variate nell'ordine, quasi sempre mantenute nelle parole-rima, consentendo al M. di emergere con le proprie idee all'interno dei versi auscultati dal poema.
Al gusto letterario della Firenze cinquecentesca, così affezionata alla memoria di D. da evocarlo sulla scorta di un'ininterrotta tradizione proverbiale, come autorità gnomica e maestra di pratica saggezza, si sovrappone il personale amore del M. verso la Commedia, che riaffiora dall'antica frequentazione all'indomani dell'esilio, quando la pagina si sostituisce all'azione, nelle pieghe dolenti dell'epistolario a segnare il dramma della sventura e la catarsi della solitudine. Sull'onda dell'abbandono pungente e disperato che informa la missiva del 9 aprile 1513 a F. Vettori, la confessione del M. si apre con la citazione delle battute incerte e timorose di D. a Virgilio (lf IV 16-18), che rinfrangono l'amaro sbigottimento dello scrivente, affranto e disilluso dalla risposta dell'amico. E D., cioè a dire la Commedia, apre, nello schizzo autobiografico degli ozi tempestosi di S. Casciano, tracciato nella famosa, eloquente lettera del 10 dicembre di quell'anno al medesimo destinatario, l'olimpo dei poeti che consolano con il loro messaggio fantastico le agitate ore dell'inerzia quotidiana imposta dagli eventi (" Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de' mia, godomi un pezzo in questo pensiero "), e ritorna poche righe appresso con una significativa sentenza (da Pd V 41-42) a motivare la stesura del capolavoro nelle fertili ore notturne: " E perché Dante dice che non fa scienza senza lo ritenere lo havere inteso io ho notato quello di che per la loro conversatione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto ".
I versi della Commedia si attagliano nelle mani del M. sia alla condensazione formulare (cfr. Mandragola prologo 73-74 da If XXXIII 80), sia alla mimesi profetica (nella lettera al Guicciardini del 21 ottobre 1525 la previsione di Ugo Capeto limitatamente a Pg XX 86-87), sia all'utilizzazione interessata ed esemplare (la citazione, nella lettera del 19 dicembre 1525 allo stesso Guicciardini, di Pd VI 133-135). Sciolto da ogni scrupolo filologico, tanto da allontanarsi di proposito dalla lettera delle terzine, e provvisto in cambio di risorse fantastiche che gli consentono di rivivere da una guardatura personale le parole di D., il M. esegue già, nella sfera privata, una lettura interpretativa spregiudicata del poema che incoraggia la creazione originale. Figure e modi danteschi sostengono, anche nelle opere che meno sembrano concedere all'evasione poetica, alcune tra le più felici invenzioni sue: come nel De Principatibus la plastica immagine del centauro Chirone, scolpita, con significativa ammissione (XVIII " Questa parte è suta insegnata a' principi copertamente dalli antiqui scrittori "), sul bozzetto di If XII 71 (è il gran Chirón, il qual nodrì Achille), il quale incoraggia la più geniale iconografia del trattato; e così poche righe innanzi la metafora della " golpe " e del " Lione " viene estratta dalle parole di Guido da Montefeltro (lf XXVII 74-75 l'opere mie / non furon leonine, ma di volpe), supinamente riecheggiate dal Pulci (Morgante XIX 155, 7-8) per il suo Margutte. Dalla spinta inventiva nel trattato politico al sistematico trapianto nelle terzine dell'Asino (o Asino d'oro c. del 1517) si può misurare l'ampia e mobile escursione del dantismo del M., che dalla corrispondenza privata trascorre a irrobustire la teoresi storica (la citazione di Pg VII 121-123 nei Discorsi I 11), dalla lezione pubblica svaria nel ricordo poetico (Serenata v. 8, da If II 135).
Nell'ultima attività dello scrittore la disponibilità mimetica nei riguardi della Commedia abbraccia una scala di colori e di toni variegati e contrastanti che deforma la teoria e la prassi di D. sotto la spinta di ragioni allotrie, morali e civili, del lettore cinquecentesco. Il lineare atteggiamento si scompone e si aggroviglia in un contrastante rapporto dialettico di attrazione e ripulsa, di partecipazione e condanna, tra fedeltà e tradimenti verso i testi e la biografia di D., che insieme testimoniano il prestigio del modello e l'originalità di chi se ne serve. Da un lato sta l'apparente dissacrazione del mondo dantesco, compiuta nell'incompleto poema sul mito di Circe attraverso la scapigliata mescidanza dell'illustre genere allegorico con la satira novellistica di ascendenza decameroniana, sulla piazza contemporanea della rimeria giocosa e burchiellesca. Invero il rapporto trascende l'ambito di un'auscultazione irrispettosa, di un'ironica o satirica deformazione, di un'umoristica distorsione di storie, miti, episodi, versi, emistichi, sintagmi, ritmi, parole in rima e rime della Commedia, avvallati nella bizzarra visione e nelle grottesche metamorfosi dell'Asino dall'amaro e caustico proposito di canzonare i costumi morali e politici della società contemporanea e di affogare nel riso le disgrazie e le ingiurie sofferte personalmente. La fantasia, del M. scatta dalla miseria del presente contro la fortuna e si lancia allo sberleffo, all'ammicco, alla parodia dei testi letterari per flagellare con il giuoco sarcastico di riferimenti impietosi e il rimbalzo degradante di celebri luoghi poetici i vizi degli uomini, per sfogare i risentimenti autobiografici e vendicare attraverso la parodia ostentata dei sogni e dei miti le disillusioni patite in seguito alla rimozione dagl'incarichi politici e all'indifferenza dei concittadini verso il suo messaggio storico. La rabbia aggressiva dell'uomo, piuttosto che del moralista, non del letterato, strumentalizzando il mondo delle lettere (le Metamorfosi di Apuleio, l'Odissea, il Grillo di Plutarco, la Naturalis historia di Plinio) si scarica in una, dissonante e farsesca rappresentazione che si drappeggia nei modi e nei metri della Commedia, senza che la mistione all'insegna dantesca pervenga a fondere i testi in un ‛ pamphlet ' di autentica rivolta etica.
La melodia del poema accompagna, più o meno avvertibile, la discontinua sceneggiatura del poemetto, ora sollecitandola formalmente - come nel manifesto programmatico del primo canto, gremito di trasposizioni caricaturali di versi delle tre cantiche -, ora condizionando la novella ‛ visione ': il secondo canto dell'Asino è un ostentato controcanto dello smarrimento dantesco nella selva infernale, che pretende con uno stridente accostamento di calchi dal Purgatorio e dal Paradiso di tradurre in negazione antidottrinaria l'impegnato dramma della perdizione nel peccato, al fine d'istradare la redenzione burlesca lungo i polemici binari del mito circeo. Il peccatore M. si smarrisce " in un luogo aspro " dal quale lo libera, sfrontato e giocondo Virgilio, una " donzella " di Circe " fresca e frasca " e " piena di beltade ", custode di una mandria di animali (un tempo uomini) e domestica guida dell'autore-interprete al palazzo della maga. I colloqui con la donzella (nel c. III) mimano irriverenti gli altissimi dialoghi D.-Virgilio (p. es. III 127-132 da If XVII 37-42), scaduti a rustici conversari percorsi da consolanti profezie e virili incitamenti. E su questo piano realistico e cotidiano, tra frequenti impuntature dantesche (p. es. i vv. 13-18 da If VIII 43-45), si mantiene l'idillio novellistico, tra corposo, galante e malizioso, del cap. IV, modellato sì sulla fonte apuleiana dopo l'avvio nettamente dantesco, eppure indulgente a umori boccacesco-laurenziani, a quadretti domestici e dimessi. Dopo che l'autore si è autoironicamente purificato dagli erotici amplessi con la guida attraverso la meditazione intorno a virtù e fortuna, che frutta una rapida cavalcata storico-politica dal passato al presente ove trionfa l'umana cupidigia (e qui la spia del modello si riaffaccia ripetutamente), i delicati e trepidi rapporti tra D. e le sue guide sono riproposti dalle rinnovate, scherzevoli effusioni amorose della " duchessa " verso il pellegrino. Di qui la realtà storica, cui si appuntano gli strali delle terzine, respinge ogni richiamo letterario. Il monotono catalogo delle vittime di Circe, degli uomini-bestie, chiuso in un ermetico bestiario allegorico, stilato dal gusto sentenzioso e beffardo dello storico dei Decennali, assorbe la violenta requisitoria contro uomini e stati, istituzioni e politiche.
Anche l'elogio dello stato animale tessuto nel dialogo del poeta con un porco decolla dal dolente ritratto (vv. 1-21) del conte Ugolino, ma si perde poi nei bassi orizzonti di una rassegna moralistica che chiede a Plutarco e a Plinio più modesti aiuti. La rinuncia del M. a svolgere la didassi allegorica programmata nella trasformazione in asino e nell'esperienza sotto spoglie bestiali del mondo e degli uomini prova la sua consapevolezza del fallimento complessivo della trasposizione sogghignante e beffarda. Gl'ingredienti satirici, burleschi, romanzeschi, erotici, solenni, meditativi, giocosi si urtano senza amalgamarsi nell'incompiuto ‛ pastiche ', prologo e antefatto all'ambizioso progetto, frenati dalle digressioni, dalla discontinuità narrativa, dagli scarti tonali, conseguenti al sovrapporsi umorale del motteggio comico, dello sghignazzo sarcastico, del realismo domestico, del vituperio polemico.
Eppure la bizzarra ed eclettica vitalità dell'Asino, l'ambiguità tonale delle sue parodie divaganti devono vizi e virtù alla Commedia. A parte il flusso, ora spontaneo e mnemonico, ora calcolato e sapiente, di cadenze e stilemi danteschi, che si dispongono in una fitta rete di originali collegamenti, narrativamente neutri, il travestimento del M., pur nei modi del suo temperamento poetico, denuncia la carica dei versi danteschi, mostra che nella polemica più arrabbiata e becera, nel grido energico di protesta contro la sorte, nella rivalsa politica contro i nemici, il testo di D., magari sfigurato da una lettura eseguita in disperata segregazione, gli offriva l'arma potenziale del riscatto dall'inerzia. E forse è stata proprio la difficoltà di ribaltare il messaggio dantesco, di piegare la pagina fantastica alla situazione autobiografica a fermare il M. alla porzione introduttiva del poemetto, incapace di convertire in ragli asinini la musica solenne della Commedia.
Dall'altro lato sta il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, che ormai, dopo le proposte del passato (settembre 1514: Rajna; settembre 1515: Baron; 1521-1522: Ridolfi), si deve collocare, giusta l'argomentazione del Grayson, tra le ultime fatiche del M., dopo il 1525 (cioè dopo l'Epistola del Trissino, la Risposta del Martelli e le Prose del Bembo). Per comprendere lo spirito della requisitoria e distinguerne i vari piani, per dissipare i dubbi non inconsistenti intorno alla sua ascrizione al M., prudentemente riaffacciati dal Grayson, converrà muovere dalle Istorie fiorentine, scritte tra il 1521 e il 1525. Lo storico della Firenze dantesca, pur non sottraendosi al fascino di talune vigorose raffigurazioni politiche della Commedia (in II 7 torna da If X 91-93 l'orgogliosa protesta patriottica di Farinata; in IV 8 risuona la profezia di Ciacco da If VI 64-65), quando tocca degli avvenimenti centrali alla biografia di D., si affida di proposito alla Cronica di G. Villani, oggettivando freddamente il resoconto cronachistico in secca constatazione: " Furono pertanto confinati tutti i Cerchi con i loro seguaci di parte Bianca, intra i quali fu Dante poeta " (II 20).
Nella stima del M. la figura di D. uomo politico e storico è nettamente distinta da quella del poeta della Commedia. E questa divaricazione è all'origine dell'apparente disistima verso un poeta, fino ad allora ammirato e imitato, non lontana del resto, anche se mantenuta sul piano teorico, dall'altrettanto vistosa, ma non sostanziale, sconsacrazione esperita nell'Asino. L'esordio del Dialogo (" Sempre che io ho potuto onorare la patria mia eziandio con mio carico e pericolo, l'ho fatto volentieri ") pone le premesse di uno scontro, politico prima che linguistico, tra due uomini ‛ pubblici ' divisi, malgrado il comune destino dell'esilio, sul terreno dell'amore municipale. A distanza di due secoli, in una situazione storica radicalmente mutata, l'ex segretario fiorentino non può comprendere il dramma del poeta di Parte bianca, giudicato " per ingegno, per dottrina e per giudizio, uomo eccellente ", ma accusato di " parricidio " per aver contrabbandato da " inonestissimo " concittadino come " italiana " la lingua fiorentina della Commedia, e infamato e perseguitato la " patria sua ". La sfuocata polemica linguistica, ambientata tra le dispute cinquecentesche (lingua italiana o lingua toscana o lingua fiorentina), è minata alla base da un sostanziale disinteresse del M. verso la teoria di D. e dall'arbitraria divulgazione-interpretazione del De vulg. Eloq. eseguita dal Trissino.
Di certo la lettura del trattato dantesco fu, al massimo, rapida e saltuaria, se non proprio indiretta e condizionata a priori, tanto appaiono generici e manchevoli i rinvii, dalla lente deformante e interessata del polemista veneto. La severa censura contro le supposte teorie linguistiche di D. intende per la verità difendere il mito politico di Firenze, attaccato anche sul terreno letterario con l'arma delle teorie dantesche. Senza nemmeno controllarle, al M. è sufficiente dimostrare l'esistenza di una contraddizione in D. tra teoria e prassi, così da attribuire la prima alla vendetta denigratoria dell'esule, la seconda alla genialità del poeta. Per merito di questa sfasata impostazione polemica il dialogo a tu per tu con D. evade oltre il recinto della retorica bembesca in cui le discussioni formalistiche dei grammatici del tempo rinchiudono il linguaggio letterario, a contatto cioè con le dimensioni, i fattori, le spinte, le leggi della realtà politico-sociale che presiedono alla lingua parlata. Le osservazioni intorno agli aspetti fonetici, morfologici e lessicali che caratterizzano i diversi dialetti municipali nella capacità ricettiva d'impossessarsi di forestierismi, di recuperare latinismi, di coniare neologismi, assimilandoli al tessuto linguistico originario, vengono comprovate ed esemplificate attraverso una campionatura dei modi della Commedia.
L'arbitrario processo alle dottrine del De vulg. Eloq. si trasforma così in una penetrante analisi del tessuto linguistico fiorentino della Commedia, dove municipalismi (dal lombardo al fiorentino), forestierismi, latinismi e neologismi si adagiano per necessità espressive senza lacerare la struttura unitaria del dettato. D. è costretto ad ammettere che trasumanar (Pd I 70) è un latinismo, che intuassi e inmii (Pd IX 81) sono coniazioni originali, che forme colte e neologistiche aumentano per necessità dottrinarie nel Paradiso, ma anche che spingava (If XIX 120) e zanca (v. 45) sono voci dialettali fiorentine; M., che pretende invano con questo di far ritrattare all'interlocutore la definizione di ‛ lingua curiale ', dimostra la propria sensibilità di lettore ai poli opposti del linguaggio dantesco, quello colto e quello idiomatico.
Pur con le fatali lacune d'informazione del tempo, il plurilinguismo stilistico della Commedia è esemplificato con sufficiente oggettività, anche se poi il traguardo del polemista privilegia il piano municipale e ne deforma i contorni. Ma anche qui converrà distinguere le simpatie personali dai pregiudizi politici: la scelta del Morgante come termine di paragone per comprovare la fiorentinità della Commedia e smentire le supposte argomentazioni teoriche dantesche è di per sé altamente indicativa di un gusto, di un modo di leggere il poema originalmente deformante, attento alle forme plebee e dialettali, corpose e terrestri del verso dantesco. Nel rimproverare a D. " il goffo ", " il porco " e " l'osceno ", il poeta dell'Asino risfodera tre versi dell'Inferno (rispettivamente XX 130, XXVIII 27, XXV 2), che dovrebbero far arrossire ed emendare il rivale, e invece destano l'invidia dell'imitatore piuttosto che il disprezzo del concittadino cinquecentesco. E del resto, prima di procedere per le proprie strade all'esaltazione del fiorentino contemporaneo, cioè della Firenze " caput Italiae " nelle lettere (e ormai dominante solo sulla pagina), il M. riscatta le indebite accuse appena mosse all'archetipo di tanti suoi versi con un'eloquente professione critica che opportunamente discrimina l'ammirazione verso il poeta dalla condanna contro il traditore della patria: " E gli uomini che scrivono in quella lingua come amorevoli di essa, debbono far quello ch'hai fatto tu, ma non dir quello ch'hai detto tu, perché se tu hai accattato da' latini e da' forestieri assai vocaboli, se tu n'hai fatti de' nuovi, hai fatto molto bene; ma tu hai ben fatto male a dire che per questo ella sia diventata un'altra lingua ".
Bibl. - O. Tommasini, La vita e gli scritti di N.M., Torino 1883, I 100; II 323-325; M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890, 295-300; P. Rajna, La data del " Dialogo intorno alla lingua " di N.M., in " Rendic. Accad. Lincei " s. 5, II (1893) 203-233; U. De Maria, Intorno ad un poemetto satirico di N.M., Bologna 1899; N.M., Operette satiriche, a c. di L. Foscolo Benedetto, Torino 1916, 20-29; P. Villari, N.M. e i suoi tempi, Milano 19274, 399-407; C. Grayson, Lorenzo, M. and the Italian language, in Italian Renaissance Studies, a c. di E.F. Jacob, Londra 1960, 410-432; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, 351-353; H. Baron, M. on the Eve of the " Discourses ": The Date and Place of bis " Dialogo intorno alla nostra lingua ", in " Bibliothèque d'Umanisme et Renaissance " XXIII (1961) 449-476; N.M., Opere letterarie, a c. di L. Blasucci, Milano 1964, XXXI-XXXVIII; R. Ridolfi, Vita di N.M., Roma 1969³, 259-274, 510-511; I. Baldelli, Il " Dialogo sulla lingua " di M. e D., in " L'Alighieri " II (1969) 5-11; ID., Il dialogo sulla lingua, in " Cultura e Scuola " 33-34 (1970) 148-159; D. Consoli, Echi danteschi nell'Asino del M., in " L'Alighieri " II (1969) 12-23; M. Puppo, M. e gli scrittori italiani, in " Cultura e Scuola " 33-34 (1970) 148-159; A.E. Quaglio, D. e M., ibid., 160-173; L. Blasucci, M. novelliere e verseggiatore, ibid., 174-191; F. Figurelli, Ancora sul M. verseggiatore (i " Capitoli " e l'" Asino "), ibid., 192-215; C. Grayson, M. and D., in Renaissance Studies in honor of Hans Baron, Firenze 1971, 361-384; ID., M. e D. - Per la data e l'attribuzione del ‛ Dialogo intorno alla lingua ', in " Studi e problemi di critica testuale " II (1971) 5-28.