MACHIAVELLI, Niccolò
Di media statura, magro, "bianco come la neve", ma col capo "che pare veluto nero"; "savio et prudente" nell'estimazione dei colleghi d'ufficio, commendato dai superiori per la diligenza apportata nell'espletare le sue missioni: tale ci appare verso il 1500, quando cioè la sua vita è uscita dalla penombra ond'era stata avvolta per tutto il periodo della infanzia e della giovinezza, messer Niccolò Machiavelli. Era nato il 3 maggio 1469 in Firenze, da Bernardo e da Bartolomea Nelli, vedova di Niccolò Benizzi: di buona schiatta, ché se i suoi pretendevano di discendere dal medesimo stipite degli antichi signori di Montespertoli, fra la Val d'Elsa e la Val di Pesa, dei quali nel 1393 avevano ereditato i superstiti diritti, certo sino dal secolo XIII la Maclavellorum familia era nominata in Firenze, fra le aderenti di parte guelfa; certo nel corso dei due secoli seguenti aveva dato alla repubblica parecchi gonfalonieri e priori. Tuttavia, al decoro del nome non si può dire corrispondesse pienamente la condizione economica, non precisamente angusta, ma nemmeno tale da consentire una esistenza libera da preoccupazioni materiali; tanto più che, oltre a Niccolò, secondogenito, c'erano un fratello, Totto, e due sorelle, Primerana e Ginevra. Così avvenne che Niccolò, forse dopo avere già prestato servizio, dal 1494 o 1495, in qualità di coadiutore presso la cancelleria, entrasse ufficialmente nel giugno 1498 nell'amministrazione della repubblica, come segretario della Signoria, incaricato di presiedere alla seconda cancelleria e poi anche, dal 14 luglio, di servire i Dieci di Balìa: con attribuzioni, dunque, piuttosto late, non fissate con estremo rigore, che gli dovevano permettere, volta per volta, di occuparsi di questioni amministrative e militari, all'interno del dominio, e di andare in missione presso i potentati esteri.
Quali fossero state le sue vicende sino a quel momento, quale la sua educazione, è difficile precisare. La figura del M. viene fuori quasi d'un tratto, senza che si possa seguirla negli anni della preparazione; la terza lettera che di lui ci rimane è quella, famosa, del 9 marzo 1498, concernente il Savonarola e la sua predicazione, ed è già documento di una mente matura. E pure ascrivendo a questa prima parte della sua vita alcuni dei Canti Carnascialeschi, quello ad es. De' Ciurmadori e quello Di Uomini che vendon le pine, non ne deriva altra luce per rischiarare l'educazione di Niccolò, tranne per quel ch'è di un generico influsso dell'ambiente di Lorenzo il Magnifico. Ch'egli avesse una certa cultura classica, è ovvio; e consta chiaramente che conosceva assai bene alcuni de' grandi classici latini, soprattutto Livio, e i padri della letteratura italiana, Dante, Petrarca, Boccaccio, così come è certo che s'intendeva di musica. Ma è poi impossibile specificare maggiormente i limiti e il carattere di questa cultura e decidere, p. es., fino a che punto il M. sapesse di greco. Molto dovette invece giovargli, quand'era già in ufficio, la consuetudine e familiarità con Marcello di Virgilio Adriani, fino al 1512 suo collega, se pure superiore in dignità come segretario della prima cancelleria, discepolo di Cristoforo Landino e del Poliziano ed egli stesso umanista consumato; sì che la cultura fu per il M. un acquisto continuo e progressivo non meno dell'età matura che della prima giovinezza, acquisto voluto già con piena coscienza e secondo certe profonde esigenze spirituali: non quindi una cultura esteriormente e inutilmente varia, bensì tutta accentrata e serrata su alcuni problemi fondamentali, non semplice e superficiale condimento erudito, bensì linfa vitale che faceva tutt'uno con il pensiero stesso del M.
Del quale pensiero già nella lettera sul Savonarola emergono, nettissime, in luce alcune delle caratteristiche peculiari. Era il momento di declino del frate, ormai prossimo alla tragica fine (maggio 1498); erano gli ultimi disperati tentativi per mantenersi in forza di un uomo che aveva dominato per parecchio tempo la vita fiorentina, ed era riuscito a sostituire, sia pure per breve periodo, alla festaiola e lieta Firenze del Magnifico una Firenze di stampo pressoché puritano: figura tutta impeto religioso, tutta afflato mistico e attesa messianica, quale da lunga pezza non s'era più vista in Italia. Ma precisamente la scaturigine prima del movimento savonaroliano - l'aspirazione al rinnovamento religioso - rimane ignota al M., che, preoccupato unicamente del carattere politico della predicazione, vede nelle profezie solo il mezzo di cui il frate si vale per tenere unita la parte sua e debilitare gli avversarî: onde il tutto si riduce per lui a un mero tentativo di dominio e l'appassionata parola del domenicano diviene "bugia", che si colora a seconda dei tempi. È già l'atteggiamento di chi, più tardi, del fatto religioso scorgerà solo la ripercussione politica e sociale; un atteggiamento e uno stato d'animo puramente "politici", a cui rimangono incomprensibili slancio mistico e fervore di Dio, e che sono dominati completamente dall'ansia di seguire gli "eventi", di prevederne i futuri sviluppi: l'ansia per cui egli prega l'amico di rispondergli "che iudizio di tale disposizione di tempi e d'animi circa le cose nostre facciate". E v'è pure di già il tono secco e netto nel prospettare e valutare una situazione, la sobrietà incisiva della frase, la forza quasi brutale del giudizio, estremamente reciso e noncurante della sfumatura.
Che se nella seconda missione affidatagli fuori di Firenze, quella presso Caterina Sforza Riario, signora d'Imola e di Forlì, nel luglio 1499 (era stato prima inviato, nel marzo, a Jacopo IV d'Appiano signore di Piombino) il giudizio è più prudente e si assicura e cautela con la premessa ch'è difficile giudicare l'animo della contessa; se dunque i primi passi nell'arringo diplomatico, a fronte a fronte con altre persone di spregiudicata esperienza, di cui bisognerebbe scrutare fino i più riposti propositi, vengono mossi con maggiore ritegno, nello stesso tomo di tempo e subito dopo si offrono invece al M. le occasioni propizie per ribadire ancora più chiaramente le qualità peculiari del suo ingegno e del suo modo di concepire la vita politica. L'una fu la ripresa della guerra contro Pisa, sino dalla primavera del 1499 (al campo fiorentino presso Pisa egli veniva poi inviato nel giugno 1500, in qualità di segretario dei due commissarî speciali Luca degli Albizzi e Giovanni Battista Ridolfi, recandosi in seguito, sempre a causa di quella guerra, in Francia nel luglio-novembre); l'altra fu nel 1502 la ribellione di Arezzo e della Val di Chiana, promossa e favorita da Vitellozzo Vitelli, allora condottiero di Cesare Borgia, al quale infatti il M. veniva inviato, nel giugno 1502, in un con il vescovo di Volterra, Francesco Soderini.
I due eventi davano modo al M. di esaminare da presso alcuni dei problemi più delicati della vita italiana d'allora: da un lato, la questione di Pisa, che voleva dire la politica fiorentina nel suo nucleo essenziale, e in correlazione con essa l'atteggiamento della Francia nelle questioni della penisola - l'affare di Pisa ne costituiva uno degli episodî, ma il più preoccupante per Firenze -; dall'altro, il tentativo del Borgia di crearsi un forte stato nell'Italia centrale. Di più, al campo contro Pisa l'indisciplina e la mala volontà dei mercenarî svizzeri del Beaumont; le scene di orrore di cui gl'inviati fiorentini dovettero essere non solo spettatori, ma persino vittime, fra soldatesche mal guidate che solo si preoccupavano di chiedere denaro, vicino a un condottiero tale solo di nome: tutto ciò dovette costituire una di quelle "lezioni delle cose" che messer Niccolò non dimenticava, primo spunto, forse, da cui doveva poi trarre il suo disprezzo per le milizie mercenarie e il suo programma della "milizia propria". Ma se per tal modo ricavava dagli eventi a cui assisteva insegnamenti fruttuosi e indelebili, d'altra parte il modo con cui, esponendo per iscritto le sue impressioni, riassumeva il succo delle cose e prospettava le possibilità future d'azione, rivela ch'egli era già in possesso di un suo proprio modo di concepire l'azione politica, di un suo proprio metodo per ritrarre dal susseguirsi incessante e spesso turbinoso degli avvenimenti la "lezione" nella sua essenzialità.
Nel Discorso fatto al Magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa, composto probabilmente già nella primavera del 1499, e specialmente nell'altro scritto Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati è ormai, in nuce, tutto il M.: non solo con quel suo volere trarre dall'evento determinato una "lezione" di valore generale e servirsi del fatto singolo per giungere all'assioma politico, ond'egli inquadra l'episodio di Arezzo in una teoria generale circa il modo di comportarsi con i sudditi (non diversamente, alla corte di Francia, per stornare il cardinale d'Amboise dall'amicizia troppo stretta col papa e con i Veneziani, aveva fatto appello alle norme che devono seguire quelli che vogliono dominare in una provincia esterna); ma altresì con quel suo percepire, di una situazione, le possibilità estreme e opposte, col prospettare, quindi, i rimedî per alternativa, per mezzo di un caratteristico procedimento dilemmatico - portato alla massima espressione nel Principe - per cui tertium non datur, e si trapassa da una soluzione e da un metodo al metodo e alla soluzione opposti, senza compromessi. Il compromesso, anzi, la via intermedia, appaiono fin d'ora al M. le più fallaci tra le soluzioni: o essere al tutto buoni o al tutto cattivi, dirà più tardi proseguendo con perfetta coerenza in quella via per cui ora, nel 1502, di fronte ai popoli della Val di Chiana egli biasima la politica fiorentina mista d'inutili blandizie e d'insufficiente rigore.
Una concezione dunque estremamente lineare, rifuggente dal giuoco d'equilibrio; una politica precisa, tagliente, senza equivoci, a cui corrispondono il periodare stesso dello scrittore, non ancora terso e incisivo come il periodare del Principe, ma già contrassegnato dal procedere a mezzo di alternative, per netta contrapposizione di frasi, non collegate e coordinate dalla copulativa "e", ma seccamente differenziate dalla disgiuntiva "o" ("solo esaminerò i mezzi che conducano, o che possano condurre a questo..."; "... o spogliarle degli abitatori vecchi, o lasciandovi i vecchi..."; ad ultimare l'impresa di Pisa bisogna averla o per assedio o fame, o per espugnazione..."), e la struttura generale del discorso, non basato su armonico fluire di un periodo nell'altro, ma sul netto rilievo di ciascuno dei periodi, ai quali spesso il tono è dato, con forza, dalla ripetizione della frase d'inizio ("Quando vi fusse entrato per forza... Quando vi fusse entrato dentro per amore...").
È una contrapposizione continua, di parola e d'immagine, fra l'esempio passato e la realtà presente ("E se il giudizio dei Romani merita di essere commendato, tanto il vostro merita di essere biasimato"); talora anche, con insistente tono polemico, fra il M. stesso e invisibili interlocutori ("E se voi dicessi... direi...").
E affioravano di già pensieri che poi avrebbero costituito la chiave di vòlta della concezione machiavelliana: quelli cioè sull'immutabilità della natura umana nei secoli ("e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre le medesime passioni"), e, pertanto, sulla validità dell'esempio storico, da cui si devono trarre lezioni per il presente - e già ora l'esempio viene cercato nella storia di Roma antica, tra le pagine di Livio; anche, se pur meno nettamente, quelli sul rapporto fra la virtù umana e la fortuna, con "l'occasione" per mediatrice fra l'una e l'altra ("... è necessario che gli usi la prima occasione che se gli offerisce, e che commetta della causa sua buona parte alla fortuna").
Ora, in un momento in cui, al contatto con le prime esperienze pratiche, il M. andava precisando e chiarendo a sé stesso i suoi pensieri, gli toccò di avvicinare proprio l'uomo che, nella politica attiva, bandite le incertezze e le vie di mezzo, agiva con fredda lucidità di propositi e implacabile fermezza di mano. Al Valentino il M. era già stato inviato una prima volta nel giugno 1502; ma, passati pochi mesi, nell'ottobre, dovette rimettersi in via per raggiungere, questa volta tutto solo, il duca: proprio a tempo per assistere, dal centro della scena, al grande spettacolo della ribellione di Vitellozzo Vitelli e compagni, del momentaneo declino della stella di Cesare Borgia, del giuoco abilissimo di questo e della fine miseranda di parte dei congiurati a Sinigaglia.
Quale fosse l'impressione destata nell'inviato fiorentino dalla lezione di strategia politica data dal duca, dimostra la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini: brevissima, senza un solo rigo di commento personale dell'autore, in apparenza nuda e obiettiva cronistoria di fatti; in realtà per la stessa impersonalità della trattazione, tersa e nitida anche nel momento del finale, e il taglio secco e preciso della frase, priva di ogni lenocinio formale, constatazione di un modello trovato e riprodotto, così com'è, senza bisogno di aggiunte. Quello era lo stile politico voluto dal M., chiarezza di idee e decisione nell'attuarle, quali esse si fossero: i pensieri già prima maturati trovavano piena conferma pratica, in netta antitesi con l'incerta e timorosa politica della repubblica fiorentina guidata da Pier Soderini. E quindi, assai più che Descrizione di spettatore imparziale e indifferente, era una tacita lezione di arte politica che il M. intendeva offrire, rivelando anche ora, sotto la forma del tutto impersonale, quasi fredda, quella stessa volontà e capacità di trarre dall'evento la lezione che ben presto si sarebbero palesate con maggior rilievo.
Era infatti da poco tornato in Firenze, che gli toccò preparare, probabilmente per ordine del Soderini, un discorso in materia finanziaria (Parole da dirle sopra la provvisione del danaio). Argomento, parrebbe, di pure considerazioni tecniche: ma il M., che vi premetteva un poco di proemio e di scusa, trapassava di colpo a ben altro tema, affermando, con nuovo ricorso a teorie generali, la necessità delle armi proprie, unica provvisione efficace per uno stato geloso della propria sorte. Anche qui, l'impressione di ciò che aveva visto fare dal Valentino in Romagna - gli uomini del paese comandati al servizio militare, e con buon risultato -, e di ciò che il duca stesso gli aveva detto, sia contro i condottieri come Vitellozzo Vitelli "buono a guastare i paesi che non hanno difesa", sia sollecitando Firenze a seguire lo stesso suo esempio, non aveva fatto se non confermare e chiarire i dubbî già prima nutriti circa le armi mercenarie, additando in pari tempo il rimedio; e ne derivava quel subito assumere a precetto teorico, di valore universale, l'esperienza, propria e altrui, di un determinato momento. La sua potente "immaginazione" lo traeva di colpo al disopra della particolarità degli eventi, facendogliene trasfondere il succo in pochi precisi assiomi; anzi, lo induceva ora ad avvicinarsi all'evento con la volontà determinata di cogliere, in esso, la particolare attuazione di un eterno momento dell'agire politico, predisponendolo quindi a trascurare magari i particolari e le fasi di semplice schermaglia diplomatica per seguire quello che, secondo il proprio pensiero, avrebbe dovuto essere il logico sviluppo delle cose, per vedere se l'effetto corrispondeva "a' discorsi et concetti che si fanno...".
Così gli succedette, in certa misura, quando, inviato a Roma sulla fine dell'ottobre 1503, dopo la morte di papa Pio III, effimero successore di Alessandro VI, per rappresentare la repubblica in quel momento criticissimo, assai più che non agl'intrighi precedenti il conclave badava a come si sarebbero messe le cose del Valentino, da lui rimirato nemmeno un anno prima nel pieno fulgore della sua potenza, ora in procinto di perdere tutto: il vero frutto della sua nuova missione furono le più tarde annotazioni del capitolo VII del Principe, le massime sugli uomini che offendono o per paura o per odio, e sull'errore di chi crede che nei personaggi grandi i benefici nuovi facciano dimenticare le ingiurie vecchie; nel compito più specificamente diplomatico egli si muoveva, invece, come già nella legazione a Caterina Sforza, con molta cautela, limitandosi, nei momenti immediatamente precedenti l'elezione del nuovo pontefice, a segnalare le voci correnti in Roma, non senza avanzare anche, sull'attendibilità di queste, prudenti riserve.
Ma nel riassumere l'esperienza viva in pochi, lineari precetti generali, non era soltanto il compiacimento del tecnico della politica, il gusto - si potrebbe dire - dell'arte per l'arte: giacché sulla base di quegli stessi precetti il M. tornava poi a rivolgersi verso la vita di ogni giorno, per cercare di modificarne il corso proprio in base alla dottrina così formulata. Bisogno di tradurre in realtà l'idea, modificando la prima là dove essa fosse in contrasto con la seconda, a cui messer Niccolò era sospinto non dall'ambizione personale e dalla brama di acquistarsi più alto seggio, e nemmeno solo dal desiderio, istintivo in ogni creatore di dottrine, di vedere queste tradotte in realtà, ma anche da un amore fervidissimo per la patria sua, ch'egli amava "più dell'anima". Gioviale e faceto e beffardo spesso, e tutto arguzie e piacevolezze con gli amici, nella pratica quotidiana; ma altrettanto serio e appassionato quando, smesso l'abito di tutti i giorni, indossati i panni "reali e curiali", cominciava a ragionare seco stesso dei gravi problemi. Allora, se il sorriso permaneva, era sorriso amaro di compatimento per l'imbecillità degli uomini e l'inetta politica di uno stato, in particolare proprio di Firenze: ma l'ironia celava il dolore, e spesso, quindi, cedeva il luogo a un concitato e appassionato fervore, assai simile, proprio per la sua natura di slancio dell'anima verso alte idealità anche se dissimilissimo nell'oggetto, a quel fervore mistico del Savonarola di cui una volta egli s'era beffato. Allora, di fronte alle tristi condizioni e di Firenze e dell'Italia tutta, la patria maggiore, l'animo suo ora s'infiammava di speranza, ora si carcava di timore consumandosi a dramma a dramma: e le massime, nitide e fredde, della ragione politica venivano pervase da un potente soffio che dalla pura tecnica le trasportava nell'ambito di un'alta vita passionale.
L'una e l'altra caratteristica - il cercare cioè di trarre dagli eventi la "lezione" e l'applicare questa alla vita del tempo, conchiudendo l'esperienza in un sogno ideale - emergono pienamente nel Decennale primo, dal M. dedicato nel novembre 1504 ad Alamanno Salviati, quasi riassunto della sua esperienza e dei suoi pensieri di cinque anni di attività politica. Povera cosa, sotto l'aspetto artistico, questo susseguirsi di terzine dall'andamento affaticato e ansimante. Ma notevolissima - a prescindere anche dai singoli giudizî - sia per il caldo sentimento patrio che la pervade e che, sommesso e qua e là velato dall'ironia, trabocca nel finale, sia per il ritorno insistente sul motivo delle armi proprie col quale anzi il Decennale si chiude: augurio di azione pratica in cui pare assommarsi la lezione delle cose dal M. appresa e in cui precisamente si appalesa l'ansia di trasferire le sue norme dal mondo puramente teoretico alla vita concreta.
Questa volta l'augurio non doveva riuscire vano. Le condizioni estremamente precarie dell'Italia centrale e i pericoli da cui Firenze era minacciata (nell'agosto 1505 si dovette combattere contro il condottiero Bartolomeo d'Alviano, per le cui mene il M. era stato inviato nel luglio a Pandolfo Petrucci, signore di Siena); il nuovo insuccesso di un deciso assalto sferrato contro Pisa, tra il 9 e il 14 settembre 1505, se acuirono nel M. il proposito di assicurare stabilmente la difesa della patria con una riforma radicale dell'esercito, indussero il governo della repubbfica a prestare maggiore attenzione a quanto egli diceva e consigliava. E pertanto, il 30 dicembre 1505, furono concesse al M. le prime patenti con l'incarico di recarsi nel vicariato del Mugello per iscrivere tra i ruoli dell'esercito gli uomini atti alle armi "che a lui pareva e piaceva". Nemmeno due mesi dopo, il 15 febbraio 1506, di carnevale, 400 dei suoi fanti, vestiti di un "farsetto bianco, un paio di calze alla divisa bianche e rosse, e una berretta bianca, e le scarpette, e un petto di ferro e le lance e a chi scoppietti" già sfilavano in piazza della Signoria dinnanzi al popolo; finalmente, il 6 dicembre, il Consiglio Maggiore approvava la Provvigione redatta dal M., creando un nuovo magistrato esclusivamente per sopraintendere alla riorganizzazione dell'esercito, i Nove ufficiali dell'ordinanza e milizia fiorentina, di cui fu cancelliere, naturalmente, il M.
Nel nuovo esercito, che giunse a comprendere fino a circa 20.000 uomini, i Nove avevano autorità d'includere chi loro piacesse (in realtà, si ricercavano gli uomini dai 18 ai 30 anni), e a tale scopo rettori dei popoli e sindaci dei comuni dovevano loro presentare, al 1° novembre di ogni anno, la lista degli uomini validi per ogni comune dai 15 anni in su. I fanti erano ripartiti per "bandiere" con un capitano, un tamburo e un certo numero di capi di squadra o caporali; due o più bandiere costituivano il battaglione, agli ordini del "conestabile", l'unico vero e proprio ufficiale di mestiere che ebbe sotto il suo comando, in origine circa 450 uomini, in ultimo circa 800. I fanti di ogni bandiera erano tenuti a esercitarsi insieme, sotto gli ordini del conestabile "secondo la milizia e ordine de' Tedeschi" nei giorni di festa, almeno una volta al mese dal marzo all'ottobre, e almeno 3 volte in tutto dall'ottobre al marzo di ogni anno; nei giorni festivi in cui non si tenevano le esercitazioni collettive, a fare qualche esercizio militare, comune per comune. Due volte all'anno (dal 1507 però una sola volta) si faceva la rassegna generale (mostra grossa) di tutte le bandiere di una o più provincie. Come armamento, un petto di ferro a ognuno, per difesa; e per offesa, 70 lance e 10 scoppietti su 100 uomini, gli altri con spiedi, balestre, ronche, spade.
Dunque un esercito di cittadini che, senza lasciare le proprie occupazioni, fossero ad un tempo in grado di prestar servizio militare, grazie ad esercitazioni periodiche, con quadri professionali estremamente ridotti; e, come annotava il Guicciardini, un netto ritorno verso la milizia dei primi tempi dei comuni. Per vero, aspirazioni a una milizia propria di questo stampo non erano mai cessate; e proprio nel periodo savonaroliano, poco prima che il M. entrasse in ufficio, se n'era fatto aperto sostenitore Domenico Cecchi, nella sua Riforma sancta et pretiosa, assumendo a motivo fondamentale quello che poi sarebbe stato anche il motivo di messer Niccolò - il non aversi a fidare de' forestieri "che come egli ànno presi i nostri danari, rendono l'arme... e assaì se ne vanno con Dio" - e ch'era già da lungo tempo, dal Petrarca in poi, motivo polemico notissimo. V'erano anche precedenti di fatto (sino dal 1499 erano stati levati, per la guerra di Pisa, uomini del dominio fiorentino, specialmente per servire da marraiuoli o guastatori, ma anche per compiti diremmo di milizia territoriale): per quanto si trattasse, qui, di tentativi occasionali e sporadici, e non, come volle invece il M. della creazione di un vero e proprio esercito stabile, con funzione di combattente.
Precedenti più simili al progetto del M. si potevano invece riscontrare non solo nel Valentino, ma in Venezia stessa, così biasimata e calunniata dal M., e, fuori d'Italia, nei re di Francia i quali, con l'istituzione dei francs-archers, avevano inteso precisamente crearsi una fanteria stabile, non mercenaria.
Ma se il sistema di reclutamento misto di Venezia poteva considerarsi, nel complesso, riuscito, in genere le "ordinanze" di per sé avevano dato cattivi risultati: i francs-archers avevano, sul campo di battaglia, offerto disastroso saggio delle loro qualità belliche, né più né meno di quel che avrebbero fatto i soldati del M. a Prato, nel 1512. E l'una e l'altra istituzione poggiavano infatti su un presupposto errato, cioè sul presupposto che gli uomini del paese potessero, con qualche saltuaria esercitazione e senza essere bene inquadrati (la mancanza di ufficiali subalterni costituisce uno dei difetti tecnici più gravi dell'Ordinanza), mettersi in grado di resistere agli eserciti bene addestrati dei professionisti della guerra, svizzeri e lanzichenecchi - e questo proprio in un momento in cui l'adozione di nuovi corpi tattici (svizzeri) e il mutamento generale nei sistemi bellici rendevano delicatissimo il funzionamento effettivo di un esercito e quanto mai necessaria una lunga, continua preparazione degli uomini.
Se questo era il difetto dal punto di vista prettamente tecnico, un altro ve n'era non tecnico - ma forse più grave ancora -, al quale non si poteva porre rimedio se non modificando la struttura stessa dello stato. Ed era che acciò gli abitanti del dominio fiorentino profondessero la loro anima nella difesa della patria, sarebbe occorso prima ch'essi sentissero Firenze e lo stato fiorentino come patria, e avessero, con i Fiorentini, parità di diritti oltreché parità di doveri: difficile invece chiedere loro il sacrificio di sé quando ancora lo stato, come pienezza di diritti, si esauriva nell'ambito delle mura fiorentine! Non solo la rivolta di Pisa, mal doma sempre e troppo conscia del suo passato per abdicare di fronte alla vecchia rivale, ma, ben più, le recenti ribellioni della Val di Chiana stavano ad attestare come di unità morale nel dominio di Firenze non fosse per anco il caso di parlare. E proprio il M. rendeva palese tale debolezza di base dello stato fiorentino, quando faceva escludere dall'obbligo del servizio militare, per il momento, quei luoghi del distretto "dove sieno nidi grossi, dove una provincia possa fare testa [come Arezzo, Cortona, Volterra, ecc.] perché li umori di Toscana sono tali, che come uno conoscesse poter vivere sopra di sé non vorrebbe più padrone..." Di più, il fatto che lo stato fiorentino fosse ancora stato partito, faceva sì che lo stesso governo soderiniano, sempre timoroso d'intrighi medicei, finisse col non volere una milizia troppo forte, temendo ch'essa potesse poi diventar strumento nelle mani del partito avverso, e diffidasse specialmente degli ufficiali di mestiere, ch'erano pertanto ridotti e di numero e di autorità: conseguenza tecnica di una condizione di cose prettamente politica, che minava alle basi la saldezza del nuovo ordinamento. La riforma militare avrebbe dovuto presupporre una riforma nella natura stessa dello stato fiorentino; rimanendo isolata - come non poteva non essere - era poggiata su troppo fragili basi per poter poi reggere alla prova effettuale. Ma il M., inebriato della sua idea - alta idea, poi, in quanto affermava il principio dello stato capace di difendersi e di reggersi da sé - continuò da allora, con ammirevole tenacia, a lavorare attorno alla sua milizia, confortato anche nei suoi propositi da nuovi esempî.
Nel dicembre del 1507, infatti, veniva inviato in Germania, ad apportare istruzioni a Francesco Vettori, inviato della Signoria presso Massimiliano imperatore; nel viaggio, attraversò la Svizzera, da Ginevra a Costanza, recandosi poi a Bolzano, a Trento, ove era disceso l'asburgico che preparava l'impresa contro Venezia, a Innsbruck, per tornare a Firenze nel giugno 1508, e redigere subito il Rapporto di cose della Magna (rielaborato verso la fine del 1512 col titolo di Ritratto delle cose della Magna). Viaggio prezioso per lui, giacché gli consentiva di osservare, da un lato, lo stato di semianarchia in cui si trovava l'impero e l'impossibilità per il suo capo di attendere a imprese di grande stile, di esaminare cioè un organismo politico di natura e condizioni totalmente opposte a quelle della Francia; dall'altro, la potenza e delle leghe svizzere e delle comunità imperiali (cioè delle città immediate dell'impero), le une e le altre forti perché armate di armi proprie.
In siffatte considerazioni e in altre di simile genere sulla ricchezza delle comunità tedesche, ricche in pubblico perché il privato è parsimonioso e povero, era il succo della nuova esperienza di messer Niccolò, che rimaneva invece del tutto indifferente di fronte a un evento d'importanza grandissima: vale a dire all'assunzione, da parte di Massimiliano I, in Trento, il 4 febbraio 1508, del titolo di imperatore eletto, sebbene non fosse stato incoronato, giusta la consuetudine secolare, in Roma. La cerimonia di quel giorno significava sostanzialmente la fine, anche formale, dell'impero medievale, la fine di tutta una concezione del mondo, non solo politico bensì anche morale; e solo un secolo e mezzo prima, al tempo di Cola di Rienzo, avrebbe suscitato le proteste e le polemiche piu̇ aspre di qua dalle Alpi, così come le avevano suscitate, ad opera del tribuno romano, le deliberazioni della dieta di Rense (15 luglio 1338) che facevano dell'elezione imperiale una questione puramente tedesca. Ma il M. si limita a dedicare all'evento un brevissimo cenno in una lettera alla Signoria, senza far nessun caso del suo possibile valore: tipico atteggiamento di un uomo per cui le due grandi idee del Medioevo, papato e impero, non erano nemmeno più ricordi. Quel che aveva valore, era la realtà effettuale dell'oggi; perciò non la mistica e mitica idea dell'impero, ma la possibilità d'azione di Massimiliano doveva esser valutata in rapporto con le possibilità di azione degli altri capi di stato. E questa reale capacità d'azione dell'imperatore era assai misera.
Se ancora ne avesse avuto bisogno, il M. poteva convincersene quando, nel giugno 1510, venne inviato, per la terza volta, alla corte di Francia (la seconda legazione era avvenuta nel 1504) dopo che, rotti i Veneziani ad Agnadello, era scoppiato il contrasto fra Luigi XII e papa Giulio II, con gran terrore dei Fiorentini minacciati e presi in mezzo fra i due contendenti. Poiché egli concludeva la sua missione prospettando, nel Ritratto di cose di Francia, la gagliardia di quel re che, all'opposto di Massimiliano, era ormai padrone assoluto di uno stato ricco, fertile, ben organizzato: esempio vivo che nelle cose umane non il nome o l'immaginazione delle cose, ma la effettuale capacità di azione era quella che contava, per gli stati come per i singoli uomini.
Ora, tornando alla sua Italia, il M. di stati capaci di agire non ne scorgeva più: non Venezia, da lui sempre e ora nuovamente mal giudicata - a torto - in quel Decennale secondo, forse della fine del 1509, dopo la battaglia di Agnadello; non Firenze, che aveva sì potuto occupar finalmente Pisa (giugno 1509), ma era allora cacciata nella più difficile delle situazioni dal conflitto tra la Francia e il papa, sostenuto da Ferdinando il Cattolico, ed era insidiata da' Medici cospiranti contro il Soderini e la repubblica.
Il M., inviato, in quei due anni critici, 1511 e 1512, or qua or là, in missione (fra l'altro, nuovamente in Francia), vedendo addensarsi la tempesta pensava ad assicurar almeno la difesa militare della repubblica, facendo approvare, nel marzo 1512, la Provvigione per le milizie a cavallo, cioè la leva di cavalieri, secondo gli stessi principî stabiliti per i fanti; ma quando, dopo la ritirata dell'esercito francese dalla valle padana, l'esercito spagnolo di Raimondo di Cardona mosse contro Firenze, anche le speranze riposte nella milizia vennero meno. A Prato, il 29 agosto 1512, le bandiere dell'ordinanza, di fronte ai mercenarî spagnoli che muovevano all'assalto, abbandonavano il loro posto e fuggivano. La città era presa, orrendamente saccheggiata; il 31 il Soderini, cedendo alle imposizioni del Cardona, rinunciava al governo e abbandonava Firenze, in cui rientravano i Medici. Con due deliberazioni del 7 e del 10 novembre, il M. era cassato da ogni suo ufficio, confinato per un anno nel territorio fiorentino - salvo alcuni giorni concessigli per assettare le sue faccende. Né i guai erano finiti: nel febbraio del 1513, scopertasi quella che fu detta la congiura di Pietro Paolo Boscoli (v.), il M., il cui nome figurava nella lista dei presunti congiurati, veniva imprigionato e sottoposto a tortura, sia pur lieve (alcuni tratti di corda). Fu bensì liberato quasi subito e graziato pienamente il 4 aprile; ma, toltagli ogni possibilità di riavere, per il momento almeno, qualche ufficio dai Medici, si ritirò a San Casciano, piccolo borgo fra la Val di Greve e la Val di Pesa, dove erano i pochi beni lasciatigli dal padre.
Da "Il Principe" all'"Arte della Guerra". - In quel sito tranquillo, monotona trascorreva la giornata di messer Niccolò, di primo mattino occupato coi boscaioli, in un suo bosco che faceva tagliare; poi intento o alla lettura di Dante e di Petrarca o a dilettarsi nel ricordo delle proprie avventure amorose rileggendo i casi d'amore di Ovidio e di Tibullo; infine, "ingaglioffato", all'osteria a giocar a carte con alcuni rozzi paesani e a contendere e vociar seco loro pel giuoco. Ma a sera, nella solitudine dello scrittoio, "in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui homini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui": cioè di quell'arte del reggere i popoli di cui soltanto poteva egli discorrere, non avendolo la natura fatto per ragionar dell'arte della seta o della lana, né dei guadagni e perdite di un banco. E nacquero, da tale intrattenimento con sé stesso e con gli antichi maestri, i primi frammenti dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, le annotazioni che cominciavano a esprimere, nella loro interezza, i molti e varî "concetti" costruiti in quattordici anni di esperienza politica, e alla cui precisa formulazione teorica servivano ora da spunto e filo conduttore i libri dello storico romano, il "latte d'eloquentia" da due secoli maestro e donno agli spiriti magni del Rinascimento.
Ma d'altra parte urgevano le preoccupazioni dell'ora presente, di cui risonava la nutrita corrispondenza con l'amico Francesco Vettori, a Roma; e ai precetti degli antichi maestri faceva malo riscontro una situazione politica piena d'incognite, per l'Italia e per tutta l'Europa centro-occidentale, con i nuovi propositi di lotta del re di Francia, gl'intrighi di Ferdinando il Cattolico e le minacce di Massimiliano imperatore. Quand'ecco aggiungersi le prime voci sui progetti di creazione, da parte di papa Leone X, di uno stato a vantaggio dei nipoti Giuliano o Lorenzo de' Medici. Vaghi e incerti parlari, per il momento: ma sempre tali da far intravvedere al M. non solo e non tanto la possibilità di un suo ritorno alla vita politica attiva, quanto - e soprattutto - la possibilità di veder realizzato un organismo statale "sano", su retti criterî, sui "suoi" criterî, e, attraverso a esso, di veder posta fine alle tristi vicende d'Italia, corsa, predata, sforzata e vituperata da un ventennio per le discordie de' principi e la viltà delle milizie mercenarie. Fu quindi un bisogno prepotente dell'animo a spingerlo ad additare la via giusta a quelli che potevano divenir nuovi capi di stato: tra il luglio e il dicembre del 1813, interrottosi il commento a Livio, nacque il breve trattatello, in ventisei capitoli, che il M. chiamò, nella sua lettera al Vettori del 10 dicembre, De Principatibus, che è poi assurto a fama mondiale come Il Principe.
Fama e importanza mondiale: perché, se la passione del M. prorompeva tratto tratto attraverso tutto il libro per concludersi nella concitata chiusa, con l'appello al principe redentore dell'Italia; se per tal modo Il Principe diveniva una delle più alte e commosse espressioni del sentimento nazionale, che la storia dello spirito italiano possa vantare; d'altra parte quel fervore di ispirazione sentimentale non impediva che il M., nel corso dell'analisi, disciplinata e contenuta la passione, non riprendesse il problema politico generale con una chiarezza e una nitidezza di idee, con una sobrietà di tono, con una serenità logica, ch'era stacco fra sè e l'oggetto, da riuscire, nello stesso tempo che a un appello nazionale, alla formulazione più incisiva e perspicua fin allora avutasi della vita politica. Era dote caratteristica di questo ingegno sovrano, come il fermare d'un subito il valore universale di un fatto contingente, così il saper trasformare il momento puramente emotivo in una più pacata e serena contemplazione, che, senza annullare la passione, le impedisse di traboccare e di offuscare la chiarità del giudizio. Così avvenne proprio nel Principe, dove la passione si fa luce tratto tratto, in qualche frase amara, per es., nella battuta sui condottieri che hanno condotto l'Italia a esser "corsa, predata, sforzata e vituperata", e prorompe infine, al termine della costruzione, nel capitolo conclusivo; ma dove, a un tempo, rimangono intatte la capacità di contemplazione e di valutazione del problema politico generale e il rigore logico del giudizio. E così il libro, nato sotto l'impulso di un fine pratico immediato, divenne l'opera classica della teoria politica, l'opera in cui, per la prima volta dacché il mondo era cristiano, fu affermato il principio dell'autonomia dell'agire politico da ogni premessa e finalità metafisica la sua autonomia dalle altre forme di attività umana, prima fra tutte la morale.
Non che il M. dedichi spazio e tempo ad affermare espressamente siffatta autonomia, premettendo alla trattazione sui principati, capitoli introduttivi per spiegare che cosa sia la politica, che cosa sia lo stato e i fini e i limiti della sua azione, secondoché era consuetudine della pubblicistica sino a lui. L'affermazione scaturisce invece, e ancor più perentoriamente, proprio dal fatto che il M., senza preoccuparsi di giustificare né l'agire politico, né l'esistenza di un organismo detto "stato" entra immediatamente nel cuore dell'argomento, svolgendolo poi senza cercare il collegamento né con le norme dell'etica tradizionale, né con qualsiasi altra norma che non sia "politica" (tipico appunto al riguardo il famoso cap. XVIII, sul come il principe deve osservare la fede). Lo stato e la politica sono realtà di fatto, verità "effettuali", di cui è vano chiedersi il perché e il come: quel che occorre è vedere come il politico debba agire per raggiungere i suoi scopi, che per lui sono puramente scopi politici. Lasciata quindi da parte ogni preoccupazione di altra natura, il M. s'affisa tutto nell'atto politico e ne detta le norme: non diversamente, certo, da quanto aveva fatto sin dalle sue prime meditazioni, ma ora con una forza e nettezza di rilievo non mai raggiunta.
A determinare siffatto atteggiamento erano, da un lato, lo stesso individualismo" del M., vale a dire il suo affisarsi nella energia e capacità di fare - nella "virtù" - dell'uomo, come nell'elemento primo e determinante della storia, dei singoli e dei popoli, il suo vagheggiare una "virtù" piena e perfetta, un uomo - eroe capace sempre di tradurre in atto il suo volere (volere però non arbitrario né capriccioso, ma intelligentemente commisurato alle possibilità offerte dalla situazione di fatto, alla "occasione" offerta dalla "fortuna"): giacché un siffatto atteggiamento conduceva a lasciare libero giuoco alla "virtù" nel suo esplicarsi, a far sentire il valore dell'azione per l'azione, anche a prescindere dai fini dell'azione stessa. Di più, all'entusiasmo per l'ideale di "virtù" faceva riscontro il pessimismo del M. riguardo alla natura "effettuale" degli uomini in genere, fiacchi e incapaci, o cattivi ed egoisti: pessimismo teorico, a cui contraddiceva poi lo stesso abbandonarsi fiducioso dello scrittore ai grandi progetti, il suo sperare e quasi credere nel redentore d'Italia, il suo commosso implorare; dunque di ben diversa natura del pessimismo del Guicciardini, assai meno accentuato in teoria, ma tradotto poi in pratica con l'abbandono delle ardite speranze, con la diffidenza verso i programmi di rinnovamento e la cura del proprio particolare. Un pessimismo che non escludeva la volontà d'agire, l'entusiasmo, che poteva anzi sussistere solo in correlazione con la presenza di un alto e vivo ideale di vita: ma, forse appunto per reazione a questo, tanto più accentuato quando, contenuta la passione, si entrava nel campo del giudizio critico. "Egli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua": è l'affermazione con cui il M. giustifica il suo teorizzare, che rinunciando all'utopia del "dover essere" sta ben fermo alla "realtà effettuale" delle cose, cioè alla pura considerazione "politica" dell'agire umano.
L'altro concetto base era, invece, di natura schiettamente naturalistica. Lo stato, cioè, è per il M. - in questo influenzato dal naturalismo del Rinascimento - simile a un organismo naturale, che nasce, cresce, ha le sue malattie, declina e perisce, ove i rimedî non siano pronti ed efficaci. Lo stesso fiorir di locuzioni e similitudini riferentisi alla natura e alla scienza medica (gli stati che vengano subito, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro"; gli "umori" nel corpo statale, ecc.) attesta chiaramente quanto forte sia, nel pensiero machiavelliano, il parallelismo fra l'organismo naturale e l'organismo statale. Pertanto, come a tener sano l'uomo occorre conoscere la natura sua e a curar il malato l'esatta diagnosi del male e il tempestivo ricorso ai rimedî, senza affidarsi né a Dio né ai santi, così a tener in vita o a guarire quell'uomo in grande che è lo stato bisogna saper che cosa esso sia e quali le sue norme di vita, e non pensar di attendervi con sermoni morali (nella conclusione combaciano dunque e la tendenza naturalistica e quella individualistica). Concetti, questi, che verranno espressi ampiamente e nettamente nei Discorsi, ma che già da tempo son presupposti e che costituiscono l'altra di quelle grandi idee direttive del M., che gli consentono di star fermo sul puro terreno politico e di comprimere l'anelito - a lui certo non sconosciuto, anzi motivo primo dell'amarezza che talvolta lo coglie di fronte alla mala realtà - verso il "dover essere", verso un mondo moralmente migliore.
Per tal modo, spezzando recisamente l'unità del pensiero medievale e imponendo alle varie forme di vita un agire autonomo e chiuso in sé, il M. faceva sorgere uno dei più grossi problemi dello spirito europeo, intorno a cui si affaticheranno per secoli machiavellisti e antimachiavellisti; per tal modo, anche, lasciando coesistere in sé due motivi ispiratori nettamente diversi, se pur accomunati nel punto di sbocco - il culto dell'individualità e della "virtù" umana da un lato, la valutazione naturalistica dell'organismo statale, dall'altro - il M. finiva e con l'accentrare la somma delle cose nella personalità determinata, particolare e quindi contingente di questo o quel capo di governo - il principe è lo stato, non, come sarà più tardi in pieno assolutismo europeo, il primo servitore dello stato -, e per attribuire allo stato stesso un soverchio carattere di organismo naturale. Il contrasto fra la virtù umana e la fortuna, a cui il M. si rifà di continuo, è insito nel suo stesso pensiero, come contrasto fra senso dell'umano e senso della natura. Erano le antinomie in cui persisteva colui che d'altra parte, e proprio in grazia della sua potente unilateralità, apriva decisamente una via nuova nella storia dello spirito umano e conchiudeva, nel campo della speculazione politica, quel movimento di liberazione dall'unità medievale che nel campo dell'arte s'era già affermato, da Giotto in poi, e nel campo della scienza stava trionfando con Leonardo.
Nel Principe era soprattutto accentuato, dei due motivi dominanti, quello individualistico, tanto che l'elemento naturalistico si poteva solo intravvedere di sfuggita: con piena logica, data la genesi stessa dell'opera. La speranza in un redentore d'Italia, che costruendo un forte stato nell'Italia centrale fosse in grado di promuovere la liberazione d'Italia dai barbari e di assicurare poi la vita indipendente della penisola (senza per questo giungere a una vera e propria unificazione politica dell'Italia, dal M. non concepita né sognata) era infatti in intima connessione con il giudizio storico sulle cause della catastrofe italiana, dal M. ricondotta sostanzialmente a un "peccato", la ignavia e viltà dei principi che non avevano saputo e voluto armarsi di armi proprie, accontentandosi delle armi mercenarie, fonti d'ogni male; era dunque in dipendenza di una valutazione basata su elementi puramente umani e individualistici. Che il crollo della potenza politica di alcuni stati italiani e l'intromissione dello straniero nelle cose nostre avesse origini assai più profonde, vaste e, anche, lontane; che gli stati allora e per lunga pezza trionfanti, Francia e Spagna, combattessero proprio con armi mercenarie; che i professionisti italiani della guerra avessero dato, nel sec. XV, notevoli prove di valore e abilità, in battaglie parecchio cruente; che l'inferiorità militare degli stati italiani dovesse ricercarsi in altre cause che non nel fittizio contrasto fra mercenarî e non mercenarî: tutto ciò rimaneva lontano dalla visione del M., fisso soltanto nelle colpe de' principi, convinto di riuscire a trovare il rimedio ai mali con la riforma del carattere e del pensiero dei principi, e in questo perfetto espositore teorico del processo di svolgimento della storia italiana negli ultimi due secoli, imperniato sulle figure de' grandi signori, dominato dallo sforzo creativo di potenti individualità. Di qui, l'apparir in piena luce della figura individuale del capo di stato, scolpita in una prosa che dell'individualità potente ha la pienezza plastica del rilievo.
Prosa nuda, spoglia d'orpelli, talora fin scheletrica con quel procedimento a dicotomia già osservato, o... o..., e la brusca contrapposizione, senza trapassi, di concetto a concetto, di cosa a cosa; talora di una crudezza popolaresca di parola e d'immagine, come è nella raffigurazione della fortuna, donna che, volendola tenere sotto, si deve battere e urtare; talora martellata e piegata a esprimere il rapido trapasso di pensiero da arditissimi anacoluti: sempre di una nettezza di rilievo e forza incisiva di rappresentazione da non aver forse l'eguale in tutta la letteratura italiana. E anche quando la passione del M., sin allora contenuta, erompe nell'ultimo capitolo, anche allora il nitore dello stile rimane inalterato, pur quando incalzano l'una sull'altra le immagini bibliche: tal che al momento di concludere il M. non trova altro modo di gridare la sua passione che riparar nell'invocazione petrarchesca all'Italia.
Sennonché l'appello alla redenzione rimase inascoltato; e l'illusione generosa del M. dovette rivelarsi ben presto un sogno. I progetti dei Medici cadevano l'un dopo l'altro; nel 1516 Giuliano moriva, nel 1817 la guerra di Urbino rivelava in Lorenzo tutt'altra tempra che di restauratore della fortuna italiana. Invece, dal settembre del 1515 il re di Francia era nuovamente padrone di Milano; dal 1516, con l'assunzione di Carlo d'Asburgo al trono di Spagna, si poteva prevedere lo scoppio del nuovo conflitto che avrebbe avuto a protagonisti Francia e Spagna, e per uno dei teatri di contesa la penisola. E d'altronde, già pochi mesi dopo aver conchiuso Il Principe, al M. le speranze erano cadute: forse per momentanea reazione alla veemenza passionale di prima, nell'agosto del 1514 egli annunziava all'amico Vettori di aver lasciato i pensieri delle cose grandi e gravi, di non dilettarsi più nel leggere le cose antiche e nel ragionar delle moderne, ma di aver convertito tutti i suoi pensieri in pensieri d'amore per una creatura incontrata in villa. Già presso ai cinquant'anni, era stato ripreso nei non ignoti lacci d'amore; e vi ci sentiva una gran dolcezza "etiam per avere posto da parte la memoria di tutti e' mia affanni, che per cosa del mondo, possendomi liberare, non vorrei".
Ma non l'innamorarsi e il parlar di Venere, bensì il ragionar dello stato era il cibo "proprio di lui", quello per cui egli era nato; onde, poco dopo, ritornò ai suoi "castelluzzi" e riprese a chiosar Livio, fino a che non furon compiuti - certo entro il 1519 - i tre libri dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, da lui letti man mano, durante l'elaborazione, agli amici degli "Orti Oricellari", cioè ai frequentatori dei dotti convegni di casa Rucellai.
Frutto di una meditazione che non aveva avuto, a prima origine, un impulso pratico immediato e non voleva esser esortazione a un particolar principe, per le particolari necessità di un momento storico, anzi esortazione e consiglio ai politici di ogni tempo e di ogni paese; più pacati pertanto nel tono, pur se la passione del M. si riveli tratto tratto, quando si tocchi delle cose d'Italia, o col sarcasmo (abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi...") o con la severità di un giudizio (cfr. per esempio, II, xviii), i Discorsi sono tuttavia - e non solo dal punto di vista materiale - di più larga inquadratura, di più ampio respiro che non Il Principe. Non perché sia mutata la forma mentis del M., nell'uno come nell'altro scritto sempre orientato verso la recisa differenziazione, sempre in atto di cogliere, di una questione, le soluzioni estreme e opposte, sempre procedente per dicotomia; nemmeno perché si affaccino concetti e idee propriamente nuovi o diversi e meno che meno perché al M. esaltatore del tiranno si contrapponga, come fu troppo spesso ripetuto, un M. democratico repubblicano. Da questo punto di vista, anzi, la continuità logica fra le due opere è piena e perfetta: giacché anche nei Discorsi il M. contempla il fluire della vita collettiva non già dal punto di vista dei varî gruppi e partiti, ma sempre dal punto di vista generale dello stato, il cui "interesse" costituisce, sempre, il fulcro della considerazione sua (nulla quindi, in lui, di democratico nel senso moderno).
Ma se identico è il concetto di "virtù" e identica l'importanza a essa attribuita e identica la sua contrapposizione alla "fortuna" e identico l'intervento dell'occasione come mediatrice, resta il fatto che, nel Principe, di virtù effettuale una sola era dato di scorgere, quella del capo di stato, restando completamente assente la "virtù" del popolo; mentre nei Discorsi, non solo appare in piena luce anche la virtù delle membra, del popolo, ma anzi allato della "virtù" di uomini singoli o di folle risalta una virtù completamente spersonalizzata, quella delle leggi, dell'educazione, della religione - sempre considerata in funzione del suo solo valore politico e sociale, ma ora con ben diverso valore di quel che non avesse avuto prima. Ne deriva che la vita statale è pervasa da un soffio ampio e possente, è costituita di una molteplicità di forze del tutto sconosciute allo stato - virtù del principe, effigiato tra il luglio e il dicembre 1513. Certo, anche ora il M. non dimentica mai l'individuo e la sua personale capacità d'azione; anzi, per le contingenze più gravi, sia per l'ordinamento ex novo dello stato, sia per la riforma di uno stato corrotto, pone nuovamente nel centro della scena l'uomo di eccezionale virtù, che agisce da solo e da solo pone le fondamenta del vivere civile. Ma anche se dovuto all'iniziativa di un condottiero, lo stato effigiato nei Discorsi non ha il carattere antropomorfico di cui s'era investito nell'altra opera, non è più un organismo che vive tutto nella figura umana del suo capo, ma un organismo che vive soprattutto nei suoi ordini, di vita robusta se questi sono efficienti, in dipendenza di un largo fluire di "virtù" nel popolo; di vita intristita quando la "virtù" della massa si affloscia e gli ordini non sono più osservati.
È una sensibilissima differenza di tono e di prospettiva, percepibile anche nello stile, che ha un che di più complesso e di più costruito nell'articolazione del periodo, e che, quasi sempre, rifugge da quelle accentuazioni violente su di un aggettivo, un verbo, frequenti invece nel Principe: prosa meno scavata, immagini meno sbalzate in rilievo, andamento ritmico più eguale e continuo.
Ma se assai meno accentuato era nella nuova opera il lato individualistico del pensiero machiavelliano, assai di più era invece accentuato il lato naturalistico. Qui lo stato appare apertamente come un "corpo misto", che nasce, cresce, giunge a pieno sviluppo, si corrompe e muore, come un qualsiasi altro organismo naturale, per es., lo stesso corpo umano, sovente preso a termine di raffronto: con un processo circolare, quindi, di avvicendamento fra vita e morte, fra prosperità e decadenza, più rapido e disordinato per gli stati non bene ordinati e che non sanno a tempo rimediare ai mali, più lento, giusta "il corso... loro ordinato dal cielo", per gli stati ben ordinati e che sanno provvedere a tempo. Il modo sicuro e anzi unico di provvedere è rinnovarsi, ridursi ai "principî", cioè ritornare alla prisca vitalità e sanità, riprendere l'osservanza dei "buoni costumi", che erano all'inizio e che poi si sono guastati. Lo stato che non si rinnova in tal modo è destinato a perire.
E tuttavia in quest'ultima affermazione del ritorno ai principî si fa luce un atteggiamento di ben diversa origine che non naturalistica, un'eredità di altra epoca, inconsciamente ereditato dal M. e dai suoi contemporanei e da loro trasformato profondamente nella sua essenza. Poiché la fiducia nel rinnovo, nel ridursi ai principî, i quali sempre "conviene che abbiano in sé qualche bontà", è tipicamente analoga alla fiducia nel rinnovo che, nel campo religioso, aveva dominato tutto il medioevo cristiano: orientamento caratteristico della mentalità religiosa in genere e della mentalità cristiana in specie, la quale aveva in un certo momento della storia umana, nel momento della sua origine, nella parola di Cristo, le tavole eterne della sua legge, i principî che originavano e a un tempo conchiudevano tutta la vita dell'umanità cristiana. Il mito del rinnovo, sotto forma di ritorno all'alta e pura vita morale delle origini, vagheggiate come età di perfezione, era stato mito tipicamente religioso, or contenuto nell'ortodossia, or traboccante invece nell'ardore delle sette ereticali, ma, comunque, contrassegnante di sé tutta la vita morale del Medioevo. Ora, come il momento della Verità nel passato, il momento-modello per tutti gli uomini sussisteva anche per il M., con la differenza sostanziale di essere non più il momento cristiano della Rivelazione, bensi il momento pagano di Roma antica - punto fermo nella storia universale, al quale occorre sempre rifarsi per fare come gli arcieri prudenti "a' quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano... pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per raggiungere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con l'aiuto di sì alta mira, pervenire al disegno loro"; cosi sussisteva la fiducia nel ridursi al principio, nel rifarsi indietro, o espressamente al modello romano o, genericamente, al "principio" da cui uno stato è sorto e che, secondo il M., deve aver per forza alcunché di buono in sé. Era la trasposizione, la prima grande trasposizione che si compiesse, di atteggiamenti e pensieri della mentalità religiosa del Medioevo su terreno puramente profano e umano: rivoluzione profondissima nella forma mentis europea, ma che non consisteva nel ripudio puro e semplice del passato, bensì nel trasportarne idee e atteggiamento su diverso terreno e nel mutarne l'obietto.
Ed è lo stesso M. a farci palese l'affinità del suo atteggiamento con quello d'un tempo, quando, intrattenendosi sulla necessità delle "rinnovazioni" allega "lo esemplo della nostra religione; la quale, se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico, sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già era spenta..." (Discorsi, l. III, c. 1). Per vero, il suo precetto del ridur lo stato al "principio" fa ripensare ai precetti dei grandi movimenti religiosi medievali, tutti, senza eccezione, fondati sulla "riduzione", sul ritorno alla vita primitiva cristiana - cioè alle virtù dei primi cristiani - e, con ancor più immediata analogia, alle riforme monastiche tutte ispirate al principio del tornare alla "regola", cioè allo spirito informatore dell'ordine al suo nascere. Solo che, adesso, la volontà di rinnovamento non è più determinata dall'amor di Dio, dal desiderio di ridare alle anime la fede piena nell'ultraterreno, ma anzi dall'amore di un'istituzione puramente terrena, umana, che non conosce altri fini all'infuori di sé e che dell'amor di Dio si vale come di mezzo. Avulsa dalla connessione, in che prima era stata, con l'idea dell'al di là, dell'ultrasensibile, l'idea del rinnovamento, del ritorno all'indietro trova di necessità, per colorirsi, luci prettamente naturalistiche; portata nel regno dell'umano, nel quale non si è ancora costruita una morale che non sia più la morale religiosa, teoteleologica di una volta, e dove, quindi, l'accento batte ancora puramente sul fatto naturale - il primo che appaia sciolto dal nesso metafisico -, del fatto naturale l'idea assume in certo senso la corporeità fisica, trovando analogie e similitudini nel corpo umano ed esprimendosi con immagini di pretta scienza medica.
Questa naturalità era dunque l'espressione di un rivolgimento spirituale che avrebbe sostituito, alla concezione del mondo tipica del Medioevo, una nuova concezione basata sulla realtà umana: di qui la sua eccessiva unilateralità, così com'era eccessivo e unilaterale tutto l'atteggiamento del M., e segnatamente il suo rimaner fermo al momento "politico", trascurando il momento "morale"; ma di qui anche la sua enorme forza polemica e creatrice e la sua fecondità, attraverso le stesse critiche dei posteri, nella storia del pensiero europeo. Era, nell'ambito generale della sua concezione del mondo, quella stessa assolutezza di giudizio, quel volere gli estremi che egli aveva sempre apportato in ogni questione, anche minima, a cui avesse rivolto lo sguardo: assolutezza pari soltanto alla tenacia con cui, una volta impossessatosi di un'idea, la continuava a nutrire.
Dell'una e dell'altra doveva ora dar nuova prova, quando, finiti i Discorsi, si accinse, fra il 1519 e il 1520, a scrivere i sette libri Dell'Arte della Guerra. Qui nuovamente mutava il tono dell'ispirazione. Non proprio che avvenisse come per Il Principe, che cioè il balenar di un'occasione propizia infiammasse l'animo del M. e gli facesse buttar giù, di getto, il trattato: la speranza di un momento era caduta, figure possibili di redentori non si vedevano più e nel M. era subentrato, al fervor passionale di prima, quel disincantamento che pervade le prime e le ultime pagine dell'Arte della Guerra e fa restar sospeso Fabrizio Colonna in sul parlare, prima, o gli fa dire che in quanto a lui, per esser in là con gli anni, diffida o mai di poter tradurre in atto i suoi alti pensieri. Anziché proiettarsi innanzi, verso l'avvenire, la figura del grande principe vagheggiato si ritraeva nel passato, diventava, non precetto per il futuro, ma, anticipando le Istorie fiorentine, canone d'interpretazione della storia: in quello stesso torno di tempo, nel 1520, il M. scriveva la Vita di Castruccio Castracani da Lucca, idealizzazione, nel passato, di quella figura di condottiero che nel Principe era stata minutamente analizzata e precettata come modello per l'avvenire.
Ma se tanto diversa era la situazione di animo e di pensiero, nei confronti con l'estate del 1513, diversa pure era nei confronti dello stato d'animo con cui erano stati redatti i Discorsi. Svanite sì le grandi speranze: ma qualche cosa c'era pur ancora da fare, e proprio nel campo d'azione più caro a messer Niccolò, cioè nell'ambito della riforma militare. Anche i Medici avevano ripreso il progetto dell'ordinanza, ristabilita nel dominio fiorentino sin dal 19 maggio 1514; e attorno all'esercito si era continuato, da allora, a lavorare. Ma non tutti i nuovi provvedimenti erano conformi alle idee del M., naturalmente tratto a riguardar con particolare e gelosa cura alla milizia, creazione sua; taluni anzi di essi gli parevano mutar completamente l'essenza di quel ch'egli aveva voluto. Stimoli occasionali di siffatto genere dovettero dunque raffermare nell'animo del M., non le idee, già ben salde, sugl'istituti militari, ma il proposito di trattarne ex professo, con ancor maggiore ampiezza di quanto non avesse già fatto nel Principe e nei Discorsi: e venne fuori il nuovo trattato, con che la trilogia fu compiuta.
Il tema stesso d'altronde faceva sì che la nuova opera si ricollegasse più strettamente che non i Discorsi alle condizioni politiche dell'Italia d'allora. Ma come nel Principe la passione sino al capitolo ultimo è contenuta dal rigore logico e dalla voluta obiettività della trattazione, così nell'Arte della Guerra il riferimento alle non liete vicende dell'ora, chiarissimo nel libro primo e nel finale del settimo, viene poi quasi assorbito, nel resto del discorso, dal bisogno di pervenire a un giudizio di valore generale, alla norma assoluta: donde il carattere non puramente polemico dell'opera, che è invece nella sua massima parte costruttiva, attraverso una minuta analisi de' sistemi d'armamento e addestramento de' soldati, dei corpi tattici (quello vagheggiato è un "battaglione" di 6000 fanti, suddivisi in 10 "battaglie" - unità organica base - quindi articolato e mobile, e simile alla legione romana, sempre presente al M. come modello), del modo di combattere, delle fortificazioni, ecc. Nella quale parte ricostruttiva, così come in quella polemica, ricompaiono per essere sviluppati e approfonditi gli stessi motivi che già avevano servito di base agl'incisi militari sparsi nelle opere precedenti: assoluta prevalenza accordata alle fanterie; scarso conto fatto non solo della cavalleria ma anche dell'artiglieria, benché la battaglia di Ravenna del 1512 ne avesse dimostrato l'utilità anche in combattimento aperto. E sono, spesso, osservazioni acute e sensate, specialmente nel campo tattico. Ma quel che più importava, non ostante gli errori particolari e anche altri più generali d'impostazione e di visione, era l'affermazione di un altro dei principî base dello stato moderno: l'affermazione, cioè, della necessità per uno stato di essere armato di buone armi, il riconoscimento della stretta connessione esistente fra problema politico e problema militare. Gran passo innanzi era anche questo, rispetto alla pubblicistica medievale, alla quale il problema era rimasto ignoto.
Il M. delle "Lettere Familiari" e de "La Mandragola". - La trilogia delle grandi opere, alle quali si ricollegava intimamente la Vita di Castruccio, non aveva tuttavia esaurita l'attività del M. in quel periodo che va dal 1513 al 1520. Come dall'"ingaglioffarsi" nel giuoco a carte o dal baciare "alla sfuggiasca" la Riccia o dall'empir di suoi discorsi la bottega di Donato del Corno, egli sapeva entrar poi nella corte degli "antiqui homini" così riusciva ad alternare a' pensieri gravi sullo stato pensieri meno severi o almeno di altro genere: il fatto di aver la propria vita spirituale accentrata su un motivo dominante - la politica - non gl'impediva di avvertire nel contempo altri motivi di vita, messi in secondo piano sì, ma non obliati. In un certo senso, era anzi sempre lo stesso interesse che dal meditar sul principe lo traeva ad osservare i minuti fatti della vita quotidiana, ad analizzare maliziosamente il comportamento di questo o quell'amico alle prese con Venere: nell'uno e nell'altro caso tenendo egli fisso lo sguardo all'uomo, alla capacità o non capacità di agire che questi o quegli dimostrava, e rimanendo dunque sempre nello stesso mondo ideale, anche se variasse in apparenza l'oggetto di osservazione.
Così è che nelle lettere rivolte agli amici si frammischiano ragionamenti di alta politica e descrizioni di casi amorosi e burleschi, il parlar grave e la facezia; che alla forza di rilievo con cui il principe nuovo viene effigiato nell'opera del 1513, corrisponde l'evidenza plastica di una scena ritratta in una lettera al Vettori del 4 febbraio 1514, quando al M. par vedere nel Brancaccio, raccolto in su una seggiola, a seder basso, per considerar meglio il viso della Gostanza, e con parole e con cenni e con atti e con risi e dimenamento di bocca e di occhi e di spurghi, tutto stillarsi, tutto consumarsi e tutto pendere dalle parole, dallo anelito, dallo sguardo, e dallo odore e da' soavi modi e donnesche accoglienze della Gostanza" (Lett. famil., CXLII). Solo nel periodo giugno-dicembre 1513, quando il M. scriveva Il Principe, nel periodo cioè di massima concitazione spirituale e morale, solo allora dalle lettere al Vettori esula la facezia, e non si respira altra aria che aria politica. Ma subito dopo, forse per inconscio reagire alla tensione continua, si ritorna nella vita di tutti i giorni, e appaiono il Brancaccio che sospira dietro alla Costanza, il Vettori che sta perplesso, non per ragioni di stato, e lo stesso M. - non il M. dei commenti alla politica francese in Italia, ma il M. che tocca e attende a femmine - in atto di invitare l'amico ambasciatore a darsi buon tempo.
Favole battezzava il M. questi suoi conversari quando ritornava alle cose gravi: ma favole dalle quali ritraeva quel senso fresco, vivo dell'umano che poi si trasfondeva ne' ragionamenti serî e permeava di sé, sotto sotto, la teoria generale e le massime eterne, impedendo che la teoria divenisse pura astrazione e la precettistica vuoto esercizio di intellettuale muffito.
Per questo, e anche per dimenticare i troppo angosciosi problemi dell'ora, per tramutare in sorriso sarcastico di fronte ai piccoli casi della vita lo sdegno e l'amarezza da cui era pervaso di fronte alle grosse faccende politiche, egli tornava di continuo alle favole; e, non contento di costruirne per lettera, ne costruiva di più ampia mole, da mandare in scena. Così fu che, dopo essersi già, verso il 1504, cimentato con Le Maschere, un'imitazione delle Nuvole di Aristofane (l'opera s'è poi smarrita), e aver tradotto l'Andria di Terenzio, forse non molto dopo aver scritto Il Principe (la data di composizione non può tuttavia esser precisata e oscilla tra il 1513 e il 1520), costruisse una grande favola che fu La Mandragola, commedia in cinque atti, posta in scena, pare, a Roma nel 1520 e, sicuramente, a Venezia nel 1522. E fu un capolavoro, proprio perché vi riapparvero le qualità essenziali del M. precettor di politica, cioè la capacità di osservare, con distacco, l'agire degli uomini e di scolpirne i caratteri essenziali. L'azione non ha particolari pregi, anzi è ferma; né l'interesse sorge da contrasto di caratteri, perché ognuno di questi è, sin dall'inizio, salvo quello di Lucrezia, chiuso e determinato in sé, senza che lo svolgersi dell'azione si ripercuota veramente e profondamente in esso e vi determini contrasti d'idee o di passioni. Da questo punto di vista, dunque, una commedia estremamente statica, senza trapassi né mutamenti, con una sola linea, chiara sin dall'inizio, con i varî caratteri già precisi e rifiniti sin dal loro primo apparire in scena. Nella raffigurazione dei caratteri è invece il succo dell'opera: tagliati con un'incisività e una forza che lì lasciano, sì, isolati gli uni dagli altri, ma dànno loro uno straordinario rilievo, dal goffo messer Nicia, il marito credulo che finisce becco, a fra' Timoteo, il più impressionante fra tutti, non malvagio d'animo, ma - come tutti coloro i quali non sanno essere né interamente buoni né interamente cattivi - capace poi di qualsiasi ribalderia non appena cominci ad esser trascinato sulla china dalle "cattive compagnie" e quando sappia di aver le spalle ben protette da altri, senza fede o con una fede che si limita a tener accese le lampade alla Madonna. Proprio per questo la figura meno felice è, forse, quella di Lucrezia: la quale da castissima e onestissima e timorosissima che era, nel corso di una notte, per lo sdegno contro il marito sciocco, la madre sempliciotta, il confessore malvagio, ma anche per aver gustato che differenza passi tra i baci d'un amante giovane e quelli d'un marito vecchio, si trasforma bruscamente in una donna dal parlare pronto e anche sfacciato, dall'immaginazione volta a pregustare i prossimi piaceri di alcova. Troppo reciso il trapasso, condotto alla maniera del M., da un estremo all'altro, senza sfumatura. Alla giustificazione di Lucrezia "che e' venga da una celeste disposizione... e non sono sufficiente a ricusare quello che il cielo vuole io accetti" per cui ella parrebbe ancora, come prima, donna sommessa al suo destino e rassegnata agli eventi, fanno poi contrasto troppo evidente la risolutezza con cui ella stessa indica all'amante il modo migliore per poter continuare a "convenire insieme", l'ironia e decisione delle risposte al marito, l'accettazione esplicita della complicità col pur tristo fra' Timoteo al quale ella statuisce, senza la minima esitazione, il compenso in denaro. Non la stessa figura, ma due figure diverse vengono fuori dal personaggio di Lucrezia; e il taglio è troppo brusco.
Ancora un'altra volta il M. si cimentò in seguito, col teatro, con la Clizia, commedia in prosa rappresentata a Firenze nel 1525; non sono invece sue la Commedia in prosa, che è del Lasca, e la Commedia in versi, che è di L. Strozzi, altra volta attribuitegli. Ma la Clizia, in parte imitazione della Casina di Plauto, è opera di assai minor levatura della Mandragola; così come di mediocre valore artistico sono in genere altri componimenti in versi: da l'Asino d'oro - la cui composizione, generalmente attribuita al 1517, si è di recente cercato di scindere in due riprese, i primi cinque capitoli nel 1512, gli ultimi tre intorno al 1517 - ai varî Capitoli (Dell'ingratitudine, scritto forse, questo, prima del 1512; Di fortuna, Dell'ambizione; Dell'occasione): scritti però notevoli per le idee che vi si esprimono e che sono ripresa o sviluppo d'idee già ben note dalle opere politiche. Maggior valore ha la novella del demonio che prese moglie (Novella di Belfagor arcidiavolo), ben condotta anche se priva della forza di rilievo ch'è nella Mandragola; mentre dal punto di vista della formazione letteraria del M. sono importanti le osservazioni ch'egli fa in quel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua che oppugna la teoria dantesca del volgare illustre e sostiene la "fiorentinità" della lingua italiana.
Le "Istorie fiorentine". - Se già nella Vita di Castruccio era cominciata ad attuarsi la trasposizione dell'ideale del principe e dello stato forte dall'avvenire nel passato, ora, dopo il 1520, la trasposizione divenne completa, e al luogo del M. politico subentrò il M. "istorico".
Lo spunto pratico a ciò egli l'ebbe dai Medici, e più precisamente dal card. Giulio, il quale aveva cominciato da qualche tempo a mostrargli segni di benevolenza: per invito suo (anche se il M. parla di un invito dello stesso papa Leone X), nel 1519 il M. aveva composto un Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze, suggerendogli un progetto di costituzione che, pur lasciando formalmente libera la repubblica, avrebbe dato le elezioni dei magistrati, e quindi l'effettivo governo, in mano ai Medici; per incarico suo e della signoria era inviato, nel 1520, a Lucca, a difendere gl'interessi di alcuni mercanti fiorentini (e dalla dimora a Lucca derivarono la Vita di Castruccio e un Sommario delle cose di Lucca), e poi nel maggio 1521 a Carpi, in missione presso il Capitolo generale dei Frati Minori; per volere suo, anche se formalmente la deliberazione fu presa dagli ufficiali dello Studio fiorentino e pisano, l'8 novembre 1520 gli fu commesso il compito di scrivere la storia di Firenze (entro due anni, con stipendio annuo di 100 fiorini) e "da quello tempo gli parrà più conveniente et in quella lingua o latina o toscana che a lui parrà", secondo la proposta formulata dal M. stesso. Anche la congiura ordita, nel 1522, contro il cardinale Giulio da alcuni dei più noti fra i frequentatori degli Orti Oricellari, se pose fine agli amichevoli conversari negli Orti, non recò turbamenti e noie al M., rimasto in buona opinione presso il cardinale, dal 1523 papa Clemente VII. E quindi egli poté attendere con tranquillità, nella villa di San Casciano in cui si era ritirato nel 1523, alla stesura del nuovo, grande lavoro, di cui presentava gli otto primi libri a papa Clemente VII nel 1525.
Che il M. attendesse con cura al lavoro, dimostrano i preziosi Frammenti autografi, di parti dei libri II, IV, VI e VII, nel cui confronto il testo definitivo appare limato, corretto, mutato, con minuto lavoro. E tuttavia il metodo storiografico non era de' più complicati. Per i vari periodi storici che deve trattare, il M. infatti si avvale tanto di cronache, quanto di storie umanistiche (Flavio Biondo e Leonardo Bruni); ma, prescelta una fonte per un dato periodo o argomento, se ne serve poi completamente, senza controllo critico. Così il primo libro dipende dalle Historiarum ab inclinatione Romanorum libri XXXI di Flavio Biondo; il secondo, soprattutto dalla Cronaca di Giovanni Villani; il terzo, parte dall'Istoria fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, parte dai Ricordi di Gino Capponi e dal Tumulto dei Ciompi, al Capponi attribuito, parte dagli Historiarum Florentini populi libri XII di Leonardo Bruni, e anche talora dalla Cronica di Piero Minerbetti; il quarto, dalle Istorie fiorentine di Giovanni Cavalcanti; il quinto e sesto dal Cavalcanti, dal Biondo, dal Capponi nuovamente, e in più dai Rerum gestarum Francisci Sfortiae l. XXXI, di Giovanni Simonetta. Invece per la congiura dei Pazzi, descritta nel l. VIII, si avvale anche di una fonte diretta, cioè della confessione d'uno dei congiurati, il Montesecco. Nessuna preoccupazione dunque, di vagliare le narrazioni dei suoi predecessori; men che meno di consultare direttamente le fonti archivistiche, secondoché avrebbe invece fatto il Guicciardini. Di più, non solo nelle Istorie del M. s'insinuano fatalmente, dato il metodo di composizione, errori e inesattezze che vi trapassano dalle pagine altrui, ma spesso il dato di fatto viene alterato, volutamente, proprio dal M.: è il caso per tutte le descrizioni di battaglie, nelle quali egli non si stanca di porre in ridicolo le compagnie di ventura e di parlare di battaglie senza morti (Anghiari, Molinella), e nelle quali la realtà storica è completamente falsata.
Ma proprio in tale noncuranza dell'esattezza del dato di fatto, anzi nella voluta alterazione di questo, proprio in tale frettolosità e unilateralità di ricerca si rivelava il M., che, accintosi a scriver di storia, continuò a pensar da politico e si volse al passato con mentalità non di contemplativo ma di polemista. Le Istorie sono ancora la prosecuzione del grande dibattito iniziato con Il Principe, continuato nei Discorsi e nell'Arte della Guerra: solo che ora esso si svolge non più nel presente e con mira all'avvenire, ma, come già nella Vita di Castruccio, è ricacciato indietro nel tempo e diviene, più che costruttivo, polemico, e si trasferisce nel regno del "doveva essere" storico. Pertanto, sin dalla soglia del racconto, ci si fa innanzi la figura, idealizzata e gemella della figura di Castruccio, di Teodorico re, il principe dalle "tante virtù", che ridusse "in buono ordine e assai felice stato" Roma e l'Italia e impedì il passo ai barbari; poi, appare la Chiesa intenta - come già nel capitolo XII del libro I dei Discorsi - a mantener in disunione l'Italia, procurandone la rovina; poi, ecco le contese fra i partiti fiorentini che non si mantengono sulla linea dei dissensi tra plebe e senato in Roma, fecondi di bene, ma degenerano in guerre civili, apportatrici di funeste conseguenze; poi ancora, sono le male arti delle milizie mercenarie: incessante proiezione nel passato di tutti i motivi dominanti della concezione politica di messer Niccolò, assunti ora a criterî d'interpretazione della storia. Talvolta, anzi, il corso della trattazione storica si sospende, per dar adito quasi a un intero capitolo (come il 1 del l. VII) di massime di puro carattere politico.
E quasi sempre sono anche queste le parti più vitali delle Istorie: il M., sollevandosi di netto sulle sue fonti, domina allora il susseguirsi dei fatti, riportati ad una linea fondamentale di sviluppo, ed esce dalla cronaca per creare un quadro storico dalle linee ampie, nette e sicure. La stessa polemica contro i mercenarî, se conduce, per un verso, ad affermazioni del tutto false e a un giudizio d'insieme insostenibile, per quel motivo di profonda verità che racchiude in sé - stretta connessione tra la politica e la forza militare di uno stato - permette, per altro verso, al M. di vedere con piena sicurezza gli strettissimi legami intercedenti tra politica estera e politica interna, e con ciò di aprire veramente nuove vie alla storiografia europea.
Assai meno in alto perveniva, invece, proprio quando il motivo polemico si affievoliva ed egli rimaneva in veste di semplice osservatore e descrittore: poiché le qualità sue tipiche, la decisione del rilievo e la forza logica del ragionamento, si convertivano allora in mancanza di senso della sfumatura, del particolare, in indifferenza di fronte alle minute vicende. Siffatto contrasto interno fra quel ch'è vero interesse del M. e quel che non ne tocca l'animo, è percepibile anche nello stile: ora della stessa vigoria di rilievo e nettezza e sobrietà di tono che aveva avuto nelle opere politiche; ora invece più letterariamente compassato, tornito e polito, ma anche più fiacco e quasi privo di freschezza d'immagine.
Gli ultimi eventi. - Compiuti i primi otto libri delle Istorie, il M. avrebbe dovuto condurre a termine l'opera; ma questa rimase interrotta per sempre. Dalla narrazione delle rerum gestarum il M. ritornò a rem agere. Spaventato dalla vittoria degl'imperiali a Pavia (febbraio 1525) e da ciò spronato a provvedere alla propria difesa, volto l'animo a quella milizia propria di cui il M. era riconosciuto primo patrocinatore, papa Clemente VII lo inviava, nel giugno 1525, a Francesco Guicciardini, allora presidente della Romagna e magna pars della politica pontificia, perché assieme discutessero sul levare fanteria, secondo lo schema dell'Ordinanza, in Romagna.
Ancora una volta, dunque, messer Niccolò era stato scosso dal problema del presente: un presente oscurissimo, dopoché la vittoria di Pavia nel febbraio 1525 pareva aver dato a Carlo V la signoria assoluta d'Italia. E ancora una volta, dopo venti anni, egli proponeva il suo rimedio. La proposta riuscì vana, perché il Guicciardini, pieno di dubbî sulla sua utilità e opportunità, finì col far svanire anche il momentaneo entusiasmo di papa Clemente; ma il M., ora ritornato in pieno contatto con il tempo suo, non se ne staccò più. E come nel 1513-14 aveva notomizzato nelle lettere al Vettori gli andamenti di Francesi e Svizzeri e Spagnoli, e cercato di prevedere le sorti della penisola, così ora riprese a scrutare il corso degli eventi e a proporre i rimedî nelle lettere all'amico Guicciardini. Non lieto compito in quel precipitare della situazione: un barlume di speranza riappariva con la lega di Cognac, ma le incertezze del duca d'Urbino, comandante l'esercito della lega, frustravano i disegni del Guicciardini, davano modo agl'imperiali di tenere Milano, poi - unitisi il Borbone e il Frundsberg - di marciare, nella primavera del 1527, sull'Italia centrale, giungere a Roma e mettere a sacco la città. La "libertà" d'Italia tramontava in quei giorni; e il M. si avviava, anche lui, al suo tramonto. Pure, ormai vecchio, stanco, cercava di agire, ancora una volta, nel modo che gli era consentito: come nel 1512 per l'ordinanza de' cavalieri, così anche ora, prevedendo la bufera, aveva insistito presso Clemente VII perché si fortificasse Firenze, e poi, nominato cancelliere e provveditore dei Cinque procuratori delle Mura, aveva lottato per persuadere il papa a far dare subita esecuzione ai lavori; era andato una volta in Lombardia al campo della lega, nell'estate 1526, e due volte nell'inverno 1526-27, a nome degli Otto di Pratica, sempre presso il Guicciardini; aveva fin proposto, nell'agosto 1526, che s'andassero ad assaltare gl'imperiali nel regno di Napoli. Ma nel maggio del 1527, giunta la notizia del sacco di Roma, a Firenze scoppiava la rivolta contro i Medici e s'instaurava la repubblica: e per il M. fu la fine. Sospetto di essere aderente de' Medici, malvisto in quel momento di eccitazione degli animi, fu messo da parte: il 10 giugno, dovendosi eleggere un nuovo segretario per i Dieci di Balìa, anziché al M., che aveva tenuto l'ufficio sino al 1512, si pensò a un Francesco Tarugi. Nemmeno due settimane più tardi, il 22 giugno 1527, egli cessava di vivere. Fu sepolto in Santa Croce, dove nel 1787 fu innalzato alla sua memoria un monumento, con l'iscrizione famosa: Tanto nomini nullum par elogium.
Dalla moglie, Marietta di Ludovico Corsini, sposata nel 1502, aveva avuto quattro figli, Bernardo, Ludovico, Piero e Guido, e una figlia, Bartolomea o Baccia, che andò sposa a Giovanni Ricci.
La fortuna del M. - Machiavellismo e antimachiavellismo. Fu detto che la vera vita del M. s'inizia solo dopo la morte di lui. E, per vero, nessun pensatore o scrittore ha forse mai avuto un influsso così diretto, immediato, largo sui posteri; nessuno mai è stato coinvolto in polemiche sì aspre e diuturne e discusso, non puramente nell'ambito speculativo, ma nella vita pratica quotidiana. Giacché il M., in grazia soprattutto per non dire quasi esclusivamente del Principe, l'opera sua di gran lunga più nota, divenne per le generazioni che a lui seguirono, più assai che non teorizzatore della politica, precettore pratico di singoli precetti, consigliere aulico de' capi di governo ai quali pareva suggerire il modo. di comportaisi in questo o quel caso: donde il significato dei termini "machiavellismo" e "machiavellisti" assunti a indicare, non tanto un particolare indirizzo di pensiero, quanto un particolar modo di fare della politica attiva; modo, per i più, esecrabile, basato sulla frode, la violenza, l'empietà. Era come se il M. avesse creato non la teoria della politica, ma addirittura la politica stessa; come se prima di lui i monarchi fossero stati tutto candore, bontà e fede, e da lui solo avessero appreso a diriger lo stato con altri mezzi che con i paternostri. Ridotto a puro ricettario di massime pratiche, Il Principe diveniva così, secondo si esprimeva uno de' primi contraddittori del M., il francese Gentillet (Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un royaume... contre Nicolas Machiavel le florentin, Parigi 1976), "l'Alcorano dei cortigiani"; e di ogni uomo politico si disse da allora e si è ripetuto per secoli, dai suoi oppositori, ch'egli era allievo del M. e che faceva della lettura del Principe, il suo cibo quotidiano.
Era Caterina de' Medici che, a detta di uno de' libelli ugonotti fioriti dopo la notte di San Bartolomeo, il Tocsin contre les massacreurs, si faceva leggere dal suo consigliere Morvilliers. "ce beau et chrestien livre" (Il Principe); era il Mazzarino di cui si leggeva in un Catéchisme de la Cour, nel 1652, ch'era "conçu de l'esprit de Machiavel". E via via si giungeva a Giuseppe II imperatore la cui politica veniva giudicata dai libellisti del tempo Machiavelll's würdig; a Napoleone, definito dallo Chateaubriand degno allievo del M. e del presunto eroe machiavelliano, Cesare Borgia.
Tale anzi è stata la fortuna e diffusione del termine, in questa accezione, ch'esso si è mantenuto anche quando, posto nella vera luce il pensiero del M., pareva dovesse cessare l'equivoco per cui s'era giunti a quel tale significato di machiavellismo e machiavellico: si è mantenuto come sinonimo di politica abile, ma non leale, energica ma sprezzante del valore etico dei mezzi di cui si serve, ed è diventato perciò concetto applicabile a tutti i tempi e luoghi. Tant'è, "machiavellica" è stata definita la politica di un Ezzelino da Romano, di un Federico II di Svevia, di un Luigi XI di Francia e via discorrendo (si è perfino tentato di tracciare una storia del "machiavellismo" prima di M.).
Era, com'è ovvio, un grosso equivoco; e avrebbero dovuto aver buon giuoco, a questo riguardo, i difensori del M. i quali facevano osservare come il loro autore non avesse fatto altro che rappresentare la politica così come si era sempre svolta nella vita reale, togliendo via i veli di cui gli utopisti l'avevano avvolta, per mostrarla nella sua ferina, ma concreta nudità.
Sennonché, nelle polemiche che gli antimachiavellisti conducevano, nell'ambito prettamente speculativo, contro le dottrine del M., era poi un fondamento profondo di vero, a controbattere il quale più non bastava l'affermare che il M. era stato fedele pittore della realtà: era cioè l'esigenza morale che si faceva nuovamente vivissima nei decennî del sec. XVI seguenti all'età del M., in cui il risorgere di una forte vita religiosa, riportava nuovamente sul tappeto problemi ignorati o almeno trascurati dal pensiero machiavelliano. La potente unilateralità del M. aveva, come si è detto di sopra, condotto a una frattura totale fra l'essere e il dover essere, fra l'esigenza politica e l'esigenza etica: e lo spunto vitale della polemica antimachiavellica era appunto nello stimolo di cercar di riconciliare l'una e l'altra, per restituire alla coscienza quella "giurisdizione universale" che le era stata tolta dal M. Bisognava ricongiungere la "ragioni di stato" (termine ignoto al M., ma divenuto d'uso generale nella seconda metà del '500), con la ragione morale; inoltre occorreva dare allo stato di fatto, effigiato dal M., le basi di diritto che ancora gli mancavano.
S'aggiungevano poi altri motivi polemici, più particolari e differenziati: nella Francia - gran centro di polemiche contro il M. - la reazione delle forze borghesi all'idea di uno stato che vivesse solo entro la figura individuale del suo capo e la reazione contro gli Italiani in genere, per odio a Caterina de' Medici; nell'Italia della Controriforma - l'altro focolaio di discussioni -, la reazione delle forze cattoliche contro lo stato puramente umano, laico, dal M. effigiato, e contro il suo atteggiamento non certo benevolo verso la Chiesa e la curia di Roma. Ma lo spunto primo ed essenziale era tuttavia il bisogno di sanare il dissidio aperto nella coscienza umana dall'assoluta "politicità" del M.
Sennonché, se al Bodin riusciva di pervenire, nella République (1576), allo stato di diritto, fondato sul concetto di sovranità, infruttuosi invece rimanevano i tentativi dei molti teorici della "ragion di stato" per conseguire una vera, effettuale conciliazione fra norma politica e norma morale. Poteva bene il Botero, uno dei corifei massimi della pubblicistica cattolica al tempo della Controriforma, affermare nella dedica della sua Ragion di Stato il proposito di voler reintegrare la coscienza nella sua "giurisdizione universale": alla resa dei conti, nel momento di definire che cosa fosse la politica, si accontentava di parlare di mezzi "atti" a fondare o a conservare un dominio, senza precisare quali rapporti questi mezzi dovessero avere con la legge morale; anzi, dopo aver riconosciuto che l'interesse è l'anima, il mastro delle cerimonie del mondo, egli tirava via verso i precetti spiccioli in cui la politica alla Machiavelli trionfava, e con una meschinità d'accento e impoverimento di passione che facevano davvero, della nuova opera, un ricettario di massime ad usum regis. Rifiutare l'assioma fondamentale del M., che la politica è la politica, era ormai impossibile; riplasmare questa politica in una nuova concezione, in cui l'"essere" non contraddicesse al "dover essere", pur rimanendo ben netto nei suoi lineamenti caratteristici, era compito oltremodo difficile per uomini che muovevano da posizioni speculative per cui non si poteva giungere all'unità se non riparando nella trascendenza divina. E allora sorse, di contrapposto alla "falsa" ragion di stato del M., la "vera" ragion di stato, quella che doveva permettere ai principi di salvar lo stato e, a un tempo, di salvar l'anima: e la caratterizzava, sostanzialmente, l'ossequio verso la Chiesa cattolica da parte del principe, il quale per il resto poteva agire da politico puro. Quanto poi agli scrittori ugonotti, in Francia, la conciliazione fra politica e morale vien ottenuta con netto ritorno a posizioni di schietto sapore medievalistico, quindi con un passo indietro, non con un passo innanzi rispetto al M.
Qua e là paiono balenare intuizioni nuove che porterebbero davvero a una visione più complessa di quella del M.: è il caso soprattutto del faentino Ludovico Zuccolo (Della Ragione di Stato, 1621). Ma si tratta, sempre, di fugaci spunti d' idee; e il tono generale della ricchissima letteratura antimachiavellica resta quel che s'è detto, un girar attorno al problema, di cui si avverte la complessità ma di cui non si riescono a chiarire ancor bene i termini.
Nasce pertanto quel senso di insoddisfacimento, di ripulsione di fronte alla politica, ch'è caratteristico di tutto il periodo e che prepara l'avversione degl'illuministi alla politica, considerata come successione di loschi intrighi d'alcova, come trionfo della prepotenza e della frode. Ci si volge, sì, alla politica, per studiarla e notomizzarla - e poche volte nella storia dell'umanità si è tanto scritto e disputato di politica come nella seconda metà del '500 e nei primi decennî del '600 -: ma è pura, anche se insopprimibile curiosità dell'intelletto, a cui fa contrasto un più o meno velato ritrarsi dell'animo, dubbioso e stanco di fronte alle male arti di cui gli uomini non riescono a fare a meno nel reggere gli stati. Contrasto, questo, vivissimo e nettamente percepibile negl'ingegni più alti, come un Traiano Boccalini; addirittura drammatico in un uomo come il Campanella, che sente il bisogno della legge universale con una forza e veemenza di passione di cui gli altri non hanno neppur idea. E allora, in siffatto ondeggiare e titubare di fronte a problemi che non si riescono ancora a dominare, si giunge, in quasi tutti, alle invettive più atroci contro il M., dipinto come vaso d'ogni nequizia, ma contemporaneamente all'accettazione più o meno completa della sua dottrina: spesso, per mascherare la forzata sottomissione, si ricorre a Tacito, attribuendogli la dottrina machiavellica che da lui si può accettare, e si dà origine a quel curioso travestimento di Machiavelli in Tacito, a quel camuffamento ideologico che caratterizza larga parte della letteratura politica della seconda metà del sec. XVI e della prima metà del XVII.
D'altra parte, nemmeno le tesi dei non molti difensori del M. tra i quali emerge, nella prima metà del '600, Gaspare Scioppio, brillavano veramente per profondità d'intuito: oltre all'affermare, come già s'è visto, che il M. non era stato se non fedele pittore della realtà, della cui eventuale tristizia non si poteva incolpar lui (argomento non valevole, quando si fosse di fronte al problema dei rapporti fra la politica e l'etica, fra l'essere e il dover essere), ci si limitava talora a far osservare che il M., lungi dall'esser esaltatore di tiranni e panegirista di Cesare Borgia, era stato amico della libertà, per il cui vantaggio aveva scoperto, fingendo di approvarle, le male arti dei tiranni. Nella quale asserzione era già, interamente, la posizione polemica assunta poi da molti moderni, che han contrapposto artificiosamente i Discorsi al Principe, e hanno visto nel M. l'uomo che "temprando lo scettro ai regnatori gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue...".
Il momento del primo, sostanziale passo innanzi rispetto al M. si ebbe solo con il Vico. Ma poiché l'influsso di questi rimase allora limitatissimo, la polemica antimachiavellica proseguì, sia pur con minore insistenza; e proprio nel sec. XVIII vedeva la luce una delle opere classiche della letteratura antimachiavellica: l'Anti Machiavel di Federico II di Prussia, che fu a sua volta criticato e tacciato di ipocrisia per avere, da re, seguito in pratica quelle massime che, da principe, aveva violentemente condannate per scritto.
In realtà, Federico II non era stato né ipocrita né doppio. Ma anche in lui eran venute a conflitto intermo le leggi della ragion di stato "con il loro appello alle forze elementari della potenza e della grandezza", e l'ideale di umanità che non era per lui semplice passatempo delle ore di ozio filosofico, bensì anelito vivo e profondo: conflitto non placato, nemmeno in lui, e risorgente in forma palese nella contraddittorietà e apparente doppiezza di pensiero e di atti.
Perché al M. arrida miglior fortuna, occorre attendere la fine del sec. XVIII e l'inizio del XIX, quand'egli influisce potentemente, da una parte, per la sua concezione della politica, sul pensiero del Hegel e del Fichte, e dall'altra, specialmente per il suo senso nazionale, sulle nuove generazioni italiane. Maestro di libertà repubblicana lo sentirono allora i giansenisti italiani; maestro di alto sentire italiano, maestro ed educatore per la sua concezione della milizia propria lo sentì soprattutto il Foscolo, dopo che già l'Alfieri aveva dovuto al Fiorentino spunti fecondi del suo pensiero. Da allora, il M. è entrato nel cerchio degli spiriti magni della nazione italiana, così come, superata la polemica di due secoli, è entrato nel cerchio dei grandi creatori spirituali del mondo moderno.
Edizioni: Delle opere del M. il Decennale primo fu stampato già nel 1506 a Firenze; l'Arte della Guerra fu stampata a Firenze presso gli eredi di Filippo Giunta nel 1521, la Mandragola, una prima e seconda volta in anno non precisabile; una terza volta probabilmente a Roma nel 1524. La 5ª ed., sicura per cronologia, uscì a Venezia nel 1531. Le altre opere uscirono postume. I Discorsi furono stampati la prima volta a Roma (Antonio Blado) nel 1531 e nello stesso anno, posteriormente ma indipendentemente dal testo bladiano, in Firenze, presso Bernardo Giunta; Il Principe, pure presso il Blado, nel 1532, e pure presso il Giunta nello stesso anno.
Sempre nel 1532, e sempre in due edizioni, la bladiana e la giuntina, apparvero pure le Istorie fioreritine. La Vita di Castruccio e la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino apparvero, di seguito al Principe (com'è poi diventata consuetudine) nell'ed. bladiana e giuntina di quest'ultima opera. Solo nell'ed. giuntina apparvero invece, sempre di seguito al Principe, il Ritratto di cose di Francia e Ritratto delle cose della Magna. Il Decennale secondo, L'asino d'oro, i Capitoli, la Novella di Belfagor arcidiavolo, furono editi per la prima volta presso i Giunta, a Firenze, nel 1549. (La Novella era però già stata pubblicata sotto il nome di mons. Giovanni Brevio che l'aveva malamente raffazzonata, in una raccolta di Rime et prose volgari del Brevio stesso).
Seguirono poi molte altre edizioni, specialmente del Principe che fu pure tradotto nelle principali lingue e diffuso in tutta Europa, ed edizioni complete delle principali opere. Si ebbe prima un'ed. aldina degli scritti in prosa, a Venezia nel 1540, a cui seguirono l'ed. di Comin di Trino (Venezia 1540-41), una 2ª ed. aldina (Venezia 1546), l'ed. dei Giolito (Venezia 1550-1551) e l'ed. giuntina (Firenze 1551). La prima ed. di tutte le opere del M. (cioè delle principali) così in prosa come in versi, fu la cosiddetta Testina falsamente datata dal 1550, ma probabilmente stampata fra il 1609 e il 1619. Fra tutte la migliore fu l'ed. Italia, Milano 1813 (voll. 8); interrotta al vol. VI rimase invece l'edizione intrapresa nel 1873 da Passerini e Fanfani e continuata da Passerini e Milanesi (Firenze 1873-76; ancora necessaria oggi per le legazioni e commissioni del M., che comprendono i voll. III-VI).
Edizioni critiche continuarono a mancare fino a che il Lisio ne dette un primo saggio per Il Principe, Firenze 1899. Seguì l'ed. della Mandragola a cura di S. De Benedetti, Strasburgo s. a.; l'ed. delle Operette satiriche, a cura di L. Foscolo Benedetto, Torino 1920; l'ed. delle Istorie fiorentine, a cura di P. Carli, voll. 2, Firenze 1927. Infine G. Mazzoni e M. Casella hanno dato un'ed. critica di tutte le opere storiche e letterarie (mancano perciò le lettere riferentisi alle varie legazioni, e anche i Frammenti Storici e Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati), Firenze 1929. Il Casella ha anche curato a parte un'edizione critica del Principe (Milano 1929), che migliora e pertanto assorbe quella precedente del Lisio. Le Lettere familiari sono state pubblicate da E. Alvisi, Firenze 1883 (di recente da G. Lesca, Firenze 1929). Cfr. poi gli Scritti inediti di N. M. risguardanti la storia e la milizia (1499-1512), a cura di G. Canestrini, Firenze 1857.
Tra le ed. con commento, particolarmente numerose per Il Principe, si ricordano l'ed. a cura di A. Burd, Oxford 1891; a cura di G. Ligio, Firenze, nuova tir., 1928; a cura di C. Guerrieri Crocetti, 3ª ed., Firenze 1931; a cura di G. Moro, Firenze 1927; a cura di L. Russo, Firenze 1931. Per l'Arte della Guerra l'ed. a cura di E. Barbarich, Firenze 1929. Per i Discorsi l'ed. di A. Oxilia (Il Principe, I Discorsi), San Casciano 1927. Per le Istorie fiorentine, l'ed., limitata però ai primi 3 libri, di V. Fiorini, Firenze 1894; anche le pagine scelte a cura di G. Fatini, Milano 1928. Per La Mandragola e la Clizia v. l'ed. a cura di D. Guerri, Torino 1932.
Tra le ed. di brani scelti, quelle a cura di V. Osimo (Scritti politici scelti di N. M., voll. 2, Milano 1910-1926); di P. Carli (N. M., Le opere maggiori, Firenze 1928); di V. Arangio Ruiz (Pagine scelte, Milano 1929); di L. Russo (Antologia machiavellica, Firenze 1931).
Per i mss. delle opere del M. e le edizioni e traduzioni nei secoli XVI e XVII, fondamentale A. Gerber, Niccolò Machiavelli. Die Handschrif ten Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke im 16 u. 17 Jahrh., GothaMonaco 1912-1914 (1 fasc. di facsimili).
Sul testo, la composizione ecc. delle singole opere cfr. F. Chabod, Sulla composizione de "Il Principe" di N. M., in Archivum Romanicum, XI (1927); G. Mazzoni, Sul testo dei Discorsi del M., in Rendiconti Acc. Lincei, s. 6ª, IX (1933) e anche id., Di un capitolo ignoto dei Discorsi del M., in ibid., s. 6ª, IV (1928); A. Momigliano, Un capitolo ignoto dei "Discorsi" del M., in La cultura, n. s., I (1929); e la discussione tra il Momigliano, il Mazzoni e F. Maggini, ibid., n. s., II (1930), P. Carli, L'abbozzo autografo frammentario delle Storie fiorentine di N. M., Pisa 1907; id., Contributo agli studi sul testo delle Storie fiorentine di N. M. I mss. e le due prime edizioni, in Memorie Acc. Lincei, serie 5ª, XIV (1909). Per la data di composizione dell'Asino d'oro v. l'introd. di L. Foscolo Benedetto all'ed. delle Operette satiriche sopra citate e cfr. le osservazioni del Carli in Giorn. stor. d. letter. ital., LXXVII (1921).
Bibl.: Per notizie complete sull'immensa bibliografia sul M. si rinvia a Mohl, Die M-Literatur, in Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, III, Erlangen 1858; alle ricchissime note bibl. di O. Tommasini, sotto cit., e per la letteratura più recente all'ampia e accurata rassegna di F. Battaglia, Studi sulla politica di M., in Nuovi studi di diritto, economia e politica, I e II (1928-29). Qui si fa menzione solo delle opere di maggior valore e più recenti. Come lavori d'insieme, sempre fondamentali, specialmente per la parte biografica, P. Villari, N. M. e i suoi tempi, 3ª ed., voll. 3, Milano 1912 (preferibile alla 4ª ed., Milano 1927, voll. 2, dove manca l'appendice documentaria), e O. Tommassini, La vita e gli scritti di N. M. nella loro relazione col machiavellismo, voll. 2, Torino-Roma 1882-1911. Per la vita sino al 1512 utile anche F. Nitti, Il M. studiato nella sua vita e nella sua dottrina, I (unico pubbl.), Napoli 1876; e per gli uffici del M., D. Marzi, La Cancelleria della repubblica fiorentina, Rocca S. Casciano 1910, pp. 286-307. Per il pensiero, F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, II, Bari 1912, pp. 67-112; R. Fester, M., Stoccarda 1900; Dyer, M. and the modern state, Boston 1904; Schmidt, N. M. u. die allgemeine Staatslehre d. Gegenwart, Karlsruhe 1907; E. W. Mayer, M. Geschichtsauffassung und sein Begriff virtù, Monaco 1912; G. Gentile, in Studi sul Rinascimento, Frenze 1923; F. Meinecke, introd. a Der Fürst u. kleinere Schriften, Berlino 1923 e in Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, Monaco-Berlino 1924; B. Croce, Elementi di politica, Bari 1925; F. Ercole, La politica di M., Roma 1926; F. Chabod, introduzione all'ed. de Il Principe, Torino 1924 e Del "Principe" di N. M., Milano-Roma 1926; G. Mosca, Il Principe di M., quattro secoli dopo la morte del suo autore, in Saggi di storia della scienza politica, Roma 1927; L. Russo, Prolegomeni all'ed. de Il Principe sopra cit. Anche F. Alderisio, M., Torino 1930. Vivaci e polemiche le pagine di A. Oriani, in Fino a Dogali, Bari 1911 e in La lotta politica in Italia, Firenze 1922, I, mosso sulle orme di G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri, n. ed., Milano 1929 e M. giudice delle rivoluzioni dei nostri tempi, n. ed., Firenze 1921. Un saggio che ha avuto larga eco è quello di B. Mussolini, Preludio al M., in Gerarchia, aprile 1925.
Sullo storico, l'introd. del Fiorini all'ed. su cit. delle Istorie fiorentine; E. Fueter, Histoire de l'historiographie moderne, trad. francese, Parigi 1914, pp. 73-83; B. Croce, in Teoria e storia della storiografia, Bari 1917; M. Ritter, in Die Entwicklung d. Geschichtwissenschaft, Monaco-Berlino 1919; A. Panella, M. storico, in Rivista d'Italia, giugno 1927. Per le concezioni militari del M. fondamentale M. Hobohm, M.s Renaissance der Kriegskusnt, voll. 2, Berlino 1913 (per l'infondatezza delle accuse contro i condottieri, cfr. anche W. Block, Die Condottieri. Studien über die sogenannten unblütigen Schlachten, Berlino 1913); P. Pieri, Intorno all'arte della guerra di N. M., Bologna 1927. Le osservazioni più fini sullo scrittore in L. Russo, Prolegomeni, cit. Per La Mandragola, G. A. Levi, Difesa di madonna Lucrezia, in Giornale storico lett. ital., LXXXVI (1925); G. Mazzoni, Il M. drammaturgo, in Rivista d'Italia, giugno 1927; B. Croce, Intorno alla commedia italiana del Rinascimento, in La Critica, gennaio 1930; M. Marcazzan, Appunti per un approfondimento della Mandragola, in Civiltà moderna, aprile 1931. Per la novella di Belfagor, L. Foscolo Benedetto, introd. all'ed. su citata.
Per le dottrine economiche del M., G. Toniolo, Il pensiero economico di N. M., in Saggi critici di econ. pol., 1900; J. Thévenet, Les idées économiques d'un homme d'Etat dans la Florence des Médicis. Machiavel économiste, Grenoble 1922; G. Arias, Il pensiero economico di N. M., in Annali di econ., IV (1928).
Per il machiavellismo e l'antimachiavellismo, la raccolta dei dati in Tommasini, op. cit., nel Burd, introd. all'ed. de Il Principe, cit., e in A. Panella, in Marzocco, 1926-27; ma per l'interpretazione del significato e valore della polemica, F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, Monaco-Berlino 1924; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929. Insufficiente invece G. Ferrari, Histoire de la raison d'état, Parigi 1862. Cfr. anche P. Treves, La ragion di stato nel Seicento in Italia, in Civiltà moderna, aprile 1931, e C. Morandi, L'"Apologia" del M. di Gaspare Scioppio, in Nuova rivista storica, XVII (1933); F. Battaglia, La vera politica in Cristiano Thomasius. Un contributo alla storia della fortuna di Machiavelli, in Rivista internazionale di Filosofia del diritto, XIV (1934). Per il camuffamento "tacitiano" della dottrina del M., G. Toffanin, M. e il "tacitismo" (La politica storica della controriforma), Padova 1921. Per il nuovo modo con cui s'interpretò il M. dall'inizio del sec. XIX, v. anche Elkan, Die Entdeckung Machiavellis in Deutschland zu Beginn des 19. Jahrh., in Hist. Zeitschrfit, CXIX (1919); C. Curcio, M. nel Risorgimento, in Rivista internazionale di Filosofia del diritto, XIV (1934).