Machiavelli, Niccolò
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469. Sulla sua formazione dà notizie il Libro dei Ricordi del padre Bernardo, dottore in legge. Il 19 giugno 1498 divenne segretario della seconda cancelleria di Firenze; con la nomina di Pier Soderini a gonfaloniere a vita (1502) acquistò maggior peso, ma con la caduta di questo (31 agosto 1512) e il ritorno dei Medici a Firenze fu rimosso dall’incarico (7 novembre 1512). Coinvolto in una congiura antimedicea, venne imprigionato e fu rimesso in libertà grazie all’amnistia per l’elezione di Giovanni di Lorenzo de’ Medici a papa (col nome di Leone X: 11 marzo 1513).
Ritiratosi all’Albergaccio presso S. Casciano Val di Pesa, Machiavelli reagì alla disgrazia politica con la scrittura. Sino ad allora, infatti, aveva scritto lettere, verbali di riunioni (Consulte e pratiche), resoconti di missioni diplomatiche (Legazioni e commissarie), opuscoli politici (Discorso sopra Pisa, 1499) e, sul piano letterario, il Decennale, narrazione in terzine dei fatti avvenuti tra il 1494 e il 1504, stampata nel febbraio 1506 grazie al collega di cancelleria Agostino Vespucci. Ma il 10 dicembre 1513 Machiavelli comunica all’ambasciatore fiorentino a Roma Francesco Vettori di aver «composto uno opuscolo De Principatibus» (Machiavelli 1971: 1160), indirizzato a Giuliano de’ Medici, fratello di papa Leone X. Il trattato, dedicato in seguito al nipote di Giuliano, Lorenzo di Piero de’ Medici, e forse ampliato (entro il maggio 1514 secondo Inglese in Machiavelli 1994: 5-9; diversamente Martelli 1999 e Martelli in Machiavelli 2006: 22-27), ebbe una discreta diffusione manoscritta ma fu stampato postumo nel 1532, col titolo Il Principe (Roma, Blado; Firenze, Giunti).
Intorno al 1516 Machiavelli entrò in rapporto con i giovani aristocratici fiorentini che si riunivano nei giardini di palazzo Rucellai (o, con sfumatura latineggiante, Orti Oricellari). Sollecitato da essi stese, o concluse, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, databili entro il 1519 poiché il 2 novembre di quell’anno uno dei dedicatari, Cosimo Rucellai, era già morto: ne resta solo una copia manoscritta completa (Londra, British Library, Harley 3533), mentre la prima stampa, postuma, è del 1531 (Roma, Blado; Firenze, Giunti). Negli Orti e nel 1516 è ambientato il dialogo Dell’arte della guerra, composto tra il 1519 e il 1520 e stampato nel 1521 (Firenze, Giunti). Della stessa epoca è la Mandragola, conservata da un manoscritto datato 1519 (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Rediano 129) e da una stampa coeva (Comedia di Callimaco & di Lucretia, senza note tipografiche) e menzionata da Battista della Palla in una lettera del 26 aprile 1520 (Machiavelli 1971: 1197-1198).
Queste opere, oltre alle pressioni di amici su Leone X e sul cardinale Giulio de’ Medici, aprirono la via a una reintegrazione di Machiavelli nell’ambiente mediceo tramite «una provisione per scrivere o altro» (lettera di Battista della Palla). In questa prospettiva Machiavelli stese nell’estate 1520 la Vita di Castruccio Castracani (stampata nel 1532) e l’8 novembre 1520 ricevette l’incarico di «scrivere gli annali o vero le historie» di Firenze «in quella lingua o latina o toscana che a lui parrà» (Machiavelli 1971: 1200). Le Istorie fiorentine furono presentate a Giulio de’ Medici, divenuto nel frattempo papa Clemente VII, nel maggio 1525 e così «pubblicate» (Dionisotti 1980: 317), ma vennero stampate solo nel 1532 (Roma, Blado; Firenze, Giunti). Machiavelli, dopo aver assunto dal 1521 incarichi politici secondari e aver visto risorgere la repubblica fiorentina, morì il 21 giugno 1527.
Le principali opere di Machiavelli, edite postume, si diffusero largamente e furono presto tradotte nelle principali lingue europee. Sulla prosa si hanno giudizi da un lato elogiativi e dall’altro critici (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell'). Già Lionardo ➔ Salviati nei suoi Avvertimenti (1584: 129) ne loda «la chiarezza, l’efficacia e la brevità», paragonabili a quelle di Cesare o Tacito, ma ne condanna «lo stile e la favella», ben lontana da quella di Giovanni ➔ Boccaccio dato che Machiavelli scrisse «senza punto sforzarsi, nella favella che correva nel tempo suo, né volle prendersi alcuna cura di scelta di parole». Anche per Ugo ➔ Foscolo «niuno scrisse in Italia mai né con più forza né con più evidenza né con più brevità del Machiavelli», che però, per «non disnaturare la lingua italiana e il dialetto fiorentino» e anzi «preservarne alcune peculiarità, cadde qua e là in certi sgrammaticamenti» (Foscolo 1958: 228).
Machiavelli scelse il volgare per tutta la sua produzione, in particolare per la storiografia – che accanto a cronache volgari contava in precedenza opere latine come quelle dei cancellieri fra Quattrocento e Cinquecento – e per la trattatistica sul principe, sviluppata in latino da umanisti quali Bartolomeo Platina, Giovanni Pontano, Giuniano Majo. Machiavelli contribuì così, con Francesco ➔ Guicciardini e Galileo ➔ Galilei, all’affermazione del volgare in campi di importanza cruciale (De Sanctis 19706: 541). I caratteri del suo volgare, «purificato […] del meccanismo classico e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso» (De Sanctis 19706: 541), colgono nei seguenti brani (su cui cfr. Scavuzzo 2003; Patota & Telve 2009):
(1) a. quanto alla impresa et allo acceptare le genti io non ero per iustificarlo meglio mi havessi facto per il passato, che era: l’un con la impossibilità, l’altro con la mala natura di quello exercito
b. Giunti che fumo in cappella, vi trovamo messer Iulio Scurcigliati che l’aspectava, el quale subito visto, fu chiamato dal Cardinale et volle che ad queste ultime parole e’ fussi presente
c. Et dixe che li sarebbe grato etiam vi tornassi el dì meco (Machiavelli 1971-1985: vol. 1°, p. 426)
(2) a. Tutti gli stati, tutti e dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra gli uomini, sono stati o sono o republiche o principati
b. E principati sono o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o sono nuovi
c. E nuovi, o e’ sono nuovi tutti […] o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe
d. Sono questi dominii così acquistati o consueti a vivere sotto uno principe o usi ad essere liberi; et acquistonsi o con l’arme d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù (Machiavelli 1994: 183-184)
(3) a. NICIA. Io credo che e tua consigli sien buoni, et parla’ne iersera alla donna: dixe che mi risponderebbe hoggi
b. Ma, a ddirti el vero, io non ci vo di buone gambe
c. LIGURIO. Perché?
d. NICIA. Perché io mi parto malvolentier da bomba
e. Di poi, l’havere a travasare moglie, fante, masseritia, ella non mi quadra
f. Oltre ad questo, io parlai hiersera a parecchi medici
g. L’uno dice che io vadia a San Filippo, l’altro alla Porretta et l’altro alla Villa
h. E’ mi paiano parecchi uccellacci!
i. E, a dirti el vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescano
l. LIGURIO. E’ vi debbe dar briga quello che vo’ dicesti prima, perché voi non sète uso ad perdere la Cupola di veduta (Machiavelli 1997: 42, atto I, scena 2)
Machiavelli condivide con l’ambiente cancelleresco fiorentino e con Guicciardini gli abiti grafici latineggianti: ad «a» (1 b.; 3 f.; 3 l.), et «e» (1 a.; 1 c; 2 a.; 3 g.), etiam «anche» (1 c.), acceptare, iustificarlo, havessi, facto, exercito (1 a.), Iulio, aspectava (1 b.), dixe (1 c.; 3 a.), hoggi (3 a.), hiersera (3 f.), havere, masseritia (3 e.), e la norma fono-morfologica del fiorentino «argenteo» (Pozzi 1975a: 54; Manni 1979). Troviamo infatti gli articoli el, e invece di «il», «i»: el quale (1 b.), el dì (1 c.), e dominii (2 a.), e principati, el sangue (2 b.), e tua consigli (3 a.), el vero (3 b., 3 i.); -ono invece di -ano in acquistonsi «si acquistano» (2 d.) e per contro -ano in paiano «paiono» (3 h.); la prima persona dell’imperfetto indicativo in -o, ero (1 a.), e non in -a come nel fiorentino «aureo»; fussi (1 b.) per «fosse», tornassi (1 c.) per «tornasse», dicesti (3 l.) per «diceste», ecc.
Sul piano sintattico si notano la posposizione del clitico (➔ clitici) in inizio di principale o coordinata: «sono […] et acquistonsi» (2 d.); congiunzioni in apertura di periodo: Et dixe (1 c.); Ma, a ddirti (3 b.); E, a dirti (3 i.); omissione di che: «iustificarlo meglio mi havessi facto» (1 a.); «li sarebbe grato etiam vi tornassi» (1 c.) (➔ che polivalente; nel Principe, prima degli esempi citati, «pigli [...] questo piccolo dono con quello animo che io ’l mando»). In (3) risalta l’espressione obbligatoria o quasi dei pronomi soggetto, propria del fiorentino antico (Renzi 1983: 227); d’altra parte nella Mandragola e nel Principe l’uso di lui, lei, loro come ➔ soggetto supera la media dei testi coevi corrispondenti (D’Achille 1990: 331-333; ➔ personali, pronomi). In (3) e., «l’havere a travasare moglie, fante, masseritia, ella non mi quadra», la soggettiva implicita è dislocata a sinistra (➔ dislocazioni) e ripresa da ella, pronome femminile con valore di ➔ neutro noto a testi antichi e dialetti toscani (Rohlfs 1966-1969: § 450). In (3) si notano idiomatismi e colorite metafore («non ci vo di buone gambe», «mi parto malvolentier da bomba», «questi dottori […] non sanno quello che si pescano», «perdere la Cupola di veduta» ossia «staccarsi da Firenze»), che richiamano le Consulte e pratiche trascritte da Machiavelli (Franceschini 1998: 379-397) ma trovano anche confronto in immagini del Principe, come quella celebre del cap. XVIII «pigliare la volpe et il lione». D’altro canto i termini tecnici dell’Arte della guerra tornano, per metafora o paragone, nella Mandragola (Machiavelli 1997: 95) e nel Discorso intorno alla nostra lingua (Machiavelli 1982: 51-52).
I brani citati mostrano infine le strutture testuali tipiche di Machiavelli (Chiappelli 1952 e 1969) e funzionali alla «chiarezza, efficacia e brevità», come l’enumerazione: «travasare moglie, fante, masseritia» (3 e.); «l’uno dice che io vadia a San Filippo, l’altro alla Porretta et l’altro alla Villa» (3 g.); il costrutto binario: «l’un con la impossibilità, l’altro con la mala natura di quello exercito» (1 a.); il procedimento dilemmatico, che compare in (2), con una ramificata struttura ad albero, ma ricorre in vari scritti compresa la Mandragola («o voi havete fede in me, o no; o io vi ho ad insegniare un rimedio certo, o no»: atto II, scena 6).
Al pluristilismo, correlato ai diversi generi e contesti, si unisce dunque l’opzione monolinguistica per il fiorentino coevo, animato da tratti e costrutti del parlato, influenzato dall’ambiente umanistico-cancelleresco (Telve 2000: 307-308; ➔ cancellerie, lingua delle) e arricchito da ➔ latinismi, tecnicismi, neologismi anche «accattati da altri» ma integrati «nell’uso suo», sicché tale unitarietà di fondo garantisce quella forza e quella efficacia negate invece agli organismi mistilingui cari ai teorici della lingua «comune d’Italia o curiale» (Machiavelli 1982: 50, 62-69) e, potremmo aggiungere, estranei all’imitazione o emulazione del fiorentino trecentesco compiutamente proposta da Pietro ➔ Bembo, nel 1525, con le Prose della volgar lingua (➔ mistilinguismo).
Questa posizione è argomentata nel Discorso intorno alla nostra lingua , dovuto certo a Machiavelli (secondo vari studiosi: Pozzi 1975b, Dionisotti 1980, Castellani Pollidori 1978 e 1981, Trovato in Machiavelli 1982, Tavoni 1984; di contro Martelli 1978). L’opera rimase inedita, probabilmente per scelta dell’autore, ma fu ripresa da Ludovico Martelli nella Risposta alla Epistola del Trissino, stampata sulla fine del 1524 (per alcuni studiosi il rapporto è inverso).
Nel Discorso Machiavelli indossa, sia pur «estemporaneamente» (Tavoni 1984: 575), le vesti del linguista, in termini sia di teoria generale sia di analisi testuale. Sotto questo secondo profilo, in un teatrale contraddittorio col ➔ Dante del De vulgari eloquentia come riproposto da Gian Giorgio ➔ Trissino (ma con molta probabilità non conosciuto direttamente), si illustra, sulla scorta del Comento dantesco di Cristoforo Landino (Firenze, Nicolò di Lorenzo della Magna, 1481), la lingua della Commedia con i suoi «vocaboli o forestieri o trovati [i neologismi] o latini», come il settentrionalismo co per «capo», intuassi e immii, transhumanare, ma allo stesso tempo se ne rivendica la fondamentale fiorentinità, tramite esempi fonetici, morfologici e lessicali («ciancie, come i fiorentini, et non zanze», morse perfetto di mordere e non di morire, spingare come «in Firenze s’usa dire, quando una bestia trae de’ calci»; Machiavelli 1982: 36-44).
Anche la polemica con le commedie di Ludovico ➔ Ariosto, di cui pur si apprezzano «gentil compositione» e «stilo ornato et ordinato», va a colpire giochi di parole, inserti in altre lingue (le battute in furbesco della Cassaria, che ne rendono «rattoppata» la veste) e motti che, come mostra quel bigonzoni ove pure si «pervert[e] il c in z», rivelano «quanto sta male mescolare il ferrarese con il toscano» (Machiavelli 1982: 53, 62-64; Franceschini 1998: 387-390). In generale, alla questione di «che cosa definisca il permanere uguale a se stessa di una lingua, o viceversa il suo trasformarsi in altro», si risponde che «ogni lingua è fisiologicamente variabile nel lessico, ma la sua identità è garantita dalla persistenza del suo sistema fonomorfologico» (Tavoni 1984: 574-575). Questa tesi, ritraducibile nei termini del «genio grammaticale» delle lingue contrapposto a quello «rettorico» (per usare i termini di Melchiorre ➔ Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, 1800), è qui esposta con le argomentazioni e le parole dei Discorsi e dell’Arte della guerra:
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è si potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro […]. Et tu [Dante] che hai messo ne’ tuoi scritti venti legioni di vocaboli fiorentini, et usi li casi, i tempi et i modi et le desinenze fiorentine, vuoi che li vocaboli adventitii faccino mutar la lingua? (Machiavelli 1982: 50-52)
In questo quadro non si deve, per il condizionamento retrospettivo di Bembo o di Salviati, qualificare come plebee le scelte linguistiche di Machiavelli, idonee a commedie, novelle (Belfagor), poesie serie e giocose ma anche a testi amministrativi, trattati e storie, e neppure sopravvalutare le «anomalie stilistico-grammaticali delle [sue] opere maggiori» (Bausi 2005: 359-362). Certo quei capolavori non furono dati alle stampe dall’autore, per cui la loro forma non può considerarsi definitiva, ed egli dovette comunque misurarsi con gli amici degli Orti favorevoli al modello fiorentino trecentesco e per questo lodati da Trissino nel Castellano (Vicenza, Ianiculo, 1529; Trissino 1988: 149). Così le vicende redazionali dell’Arte della guerra, unica opera storico-politica stampata in vita, sono segnate da interventi di correzione dei tratti fiorentino-quattrocenteschi, non solo subiti ma anche recepiti da Machiavelli (Gerber 1912-1913; Franceschini 1998: 371-76). In proposito l’analisi della variabile el, e contro il, i mostra che alla fase di piena o netta predominanza del tipo «argenteo» segue, nei frammenti autografi dell’Arte della guerra (Bibl. Nazionale di Firenze, ms. B.R. 29) e in testi del 1520-1521, l’affermazione totale di il e netta di i. Tuttavia, nei materiali manoscritti delle Istorie fiorentine, el, e riaffiorano con altri tratti del fiorentino quattrocentesco, eliminati poi, da Blado come da Giunti, dalla revisione editoriale.
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