Niccolò Machiavelli
Il pensiero di Machiavelli scaturisce dal seno stesso dell’orizzonte pubblico fiorentino, dai principi istituzionali e morali e dai modelli di comportamento in esso diffusi: il suo spirito polemico, stimolato dalle difficoltà della situazione contemporanea, lo conduce a un’analisi rivoluzionaria dei fondamenti dell’agire politico, delle contraddizioni e dei rischi che gravano su di esso. La sua non è una ‘scienza’ della politica, ma una riflessione sugli «inconvenienti» che gravano su di essa, sull’impegno di costruzione e conservazione (pur sulla base della naturale ostilità tra gli esseri umani e della loro disposizione all’accecamento) di forme di «vivere libero», sempre minacciate dalla «ruina».
Nato a Firenze il 3 maggio 1469, da famiglia appartenente al «popolo grasso», Niccolò Machiavelli, dopo essere cresciuto sotto la signoria di Lorenzo il Magnifico e aver attraversato i brevi e tumultuosi anni del regime savonaroliano, venne assunto, alla caduta di Girolamo Savonarola (1498), come segretario della seconda Cancelleria della repubblica, che aveva il compito della corrispondenza interna allo Stato, e dei Dieci di libertà e pace, che si occupavano di questioni militari; queste cariche comportavano anche commissarie e legazioni (ambascerie con compiti di osservazione e informazione, non di negoziazione). Nell’esercizio di queste cariche, fino alla caduta della repubblica (1512), ebbe modo di sperimentare dall’interno le difficoltà politiche di Firenze, sia in azioni militari nell’ambito della Toscana (come il lungo assedio di Pisa, concluso nel 1509), sia nei rapporti con vicini Stati italiani (come lo Stato pontificio oppure quello costruito tra la Romagna e le Marche da Cesare Borgia, il duca Valentino), sia in quelli con potentati stranieri (le legazioni in Francia e in Germania gli diedero modo di studiare strutture politiche, usi e costumi di quei popoli). Strettamente legato alla politica di Piero di Tommaso Soderini, capo della repubblica come gonfaloniere a vita dal 1502, Machiavelli ebbe incarichi sempre più importanti: tra l’altro, si trovò a progettare e a realizzare l’Ordinanza, cioè l’arruolamento di milizie cittadine, quelle «armi proprie», che rispetto al disastroso rendimento delle armi mercenarie egli considerava necessarie per la sicurezza dello Stato. La politica di Firenze e del suo gonfaloniere si trovò a fare i conti con una delle fasi più acute delle guerre per il predominio dell’Italia, dalla conquista del regno di Napoli da parte degli spagnoli (1503) alla guerra della Lega di Cambrai contro Venezia (1509), alla coalizione antispagnola malamente naufragata nel 1512. Nei vari rivolgimenti dei fronti e delle alleanze, la repubblica si mantenne sempre legata alla Francia; ma, quando, dopo la pur vittoriosa battaglia di Ravenna, i francesi furono costretti a ritirarsi dall’Italia, la repubblica si trovò senza sostegno: le truppe dell’Ordinanza diedero cattiva prova di fronte agli spagnoli, con la rotta di Prato, che segnò la fine della repubblica e il ritorno dei Medici, con la conseguente perdita del posto da parte di Machiavelli (7 novembre 1512).
Nella nuova situazione egli si trovò a rischiare grosso, quando all’inizio del 1513 fu imprigionato per il sospetto della sua partecipazione a una congiura antimedicea; liberato per intervento di Giuliano de’ Medici, dovette ritirarsi a vita privata. Ma continuò a riflettere sulla politica contemporanea, come mostra il carteggio con l’amico Francesco Vettori, ambasciatore presso la curia romana (dove nel frattempo era stato eletto papa, con il nome di Leone X, il capo della famiglia medicea, Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico). Nel podere dell’Albergaccio, presso San Casciano in Val di Pesa, Machiavelli iniziò la stesura del Principe (De principatibus), come testimonia la celebre lettera al Vettori del 10 dicembre 1513. Questo trattato voleva porsi anche come una presentazione della propria competenza ai nuovi signori di Firenze, in vista di un possibile incarico politico (fosse quello di «voltolare in sasso»): ma la sua stesura deve essersi svolta tra varie aggiunte e ampliamenti, fino alla dedica al giovane Lorenzo de’ Medici, nipote del papa, che, dopo la morte di Giuliano (1516), controllava Firenze per conto dello zio, il quale gli fece assegnare il ducato di Urbino. Il capitolo finale del trattato, con l’esortazione ai Medici (rimasta senza esito) a farsi capo di una forte iniziativa per la liberazione dell’Italia dagli stranieri, mostra una sempre più avvertita coscienza della drammaticità della situazione italiana.
Ma, oltre a sollecitare un’attenzione da parte dei Medici, in tutto il periodo del papato di Leone X (1513-21), Niccolò frequentò anche gruppi aristocratici antimedicei, come quelli che si riunivano nei giardini dei Rucellai (gli Orti Oricellari): e a due personaggi di quell’ambiente dedicò i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, che dal racconto dello storico latino sui primi secoli della storia di Roma prendono spunto per trattare dei caratteri delle repubbliche. Il Principe circolò allora solo in forma manoscritta, mentre i Discorsi.non dovettero nemmeno avere una consistente circolazione: arrivarono alle stampe soltanto postumi, i Discorsi nel 1531, il Principe nel 1532. A stampa uscì invece nel 1519 il trattato militare, l’Arte della guerra, e in quello stesso giro di anni la Mandragola, commedia sulla cui struttura agisce intensamente la stessa spinta all’analisi dei comportamenti umani che è in atto negli scritti politici. Dopo altri tentativi di inserirsi nell’orizzonte mediceo, successivamente alla morte di Lorenzo (1519), Machiavelli ebbe dai Medici un compito di storiografo ufficiale e redasse gli otto libri delle Istorie fiorentine, presentate nel 1525 al nuovo papa Medici, Clemente VII. In seguito ebbe altri incarichi, fino alle vicende politiche e militari che portarono il papa alla Lega di Cognac, in alleanza alla Francia, in funzione antispagnola, ma ebbero il disastroso esito del sacco di Roma, seguito a Firenze dalla cacciata dei Medici e dalla restaurazione della repubblica. Dopo aver sperato invano di ritrovare il suo posto di cancelliere, in quella nuova repubblica che ormai diffidava dei suoi recenti legami con i Medici, a Firenze morì il 21 giugno 1527.
La situazione determinata dalla sconfitta della repubblica e dalla perdita del posto di segretario spinse Machiavelli a interrogarsi su modelli di comportamenti e concetti su cui si regolava la classe politica fiorentina: con questi egli si era variamente confrontato durante la sua azione di segretario. Arrivò così ad approfondire e a complicare le riflessioni già suscitate in lui dalle varie vicende e situazioni a cui si era trovato ad assistere, in un vortice di colpi di scena e di continue mutazioni, che del resto non si sarebbe arrestato per tutto l’arco della sua esistenza. La visione della politica che venne definendosi nel modo più esplicito nel Principe e nei Discorsi veniva così a essere interamente radicata nella concreta vita politica fiorentina e italiana di quegli anni.
Anche nei suoi nuclei più radicali e sconvolgenti, il pensiero di Machiavelli scaturiva da «una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique», come egli recisamente afferma nella Dedica del Principe: esperienza ricavata dalla diretta attività politica corroborata dalla curiosità più appassionata per l’eredità degli antichi, che egli riconduceva a un orizzonte integralmente ‘civile’, sulla scia di un umanesimo municipale, pieno di senso pratico (e non certo in chiave di erudizione o di impegno filologico). La spinta originale di questo pensiero sta proprio nel suo svolgersi in situazione: in un confronto sempre teso e problematico fra le nozioni diffuse nell’ambiente politico fiorentino e le molteplici occasioni proposte dal quadro politico italiano ed europeo, entro il quale il segretario si era trovato a muoversi constatando le difficoltà dell’azione, la necessità continua di scelte e risoluzioni mai sicure e definitive.
Molti studi hanno mostrato come il bagaglio concettuale di Machiavelli, il quadro terminologico delle sue opere capitali, scaturisca direttamente dall’ambiente politico e istituzionale a cui egli apparteneva: termini e formule si ritrovano generalmente nelle scritture di cancelleria e perfino nelle Consulte e Pratiche, i pareri formulati dai cittadini influenti su richiesta della Signoria. Si tratta di un linguaggio politico che si proietta strettamente entro un orizzonte ‘morale’, si colloca entro una visione globale della natura umana: i problemi politici vi si inquadrano entro i modi di comportamento, si riconducono alle condizioni dello stare nel mondo, ai caratteri morali, all’esercizio dei rapporti intersoggettivi, alle spinte e alle contraddizioni del desiderio, alle motivazioni psicofisiologiche dell’operare. Ciò riporta a una tradizione moralistica operante a livello pubblico e ‘popolare’, a un medio senso comune molto vivo a Firenze, variamente manifestato dalla tradizione municipale.
Il legame con questa tradizione, anche nel suo versante più propriamente letterario, è evidente in alcuni scritti poetici di Machiavelli, e soprattutto nell’uso che egli fa della forma del capitolo morale in terza rima, dove, rivolgendosi a un corrispondente, si svolgono riflessioni su qualità e condizioni umane, forme del comportamento, vizi, virtù. Quattro sono i capitoli machiavelliani giunti fino a noi, che toccano categorie ben presenti e con non trascurabile rilievo nei trattati politici: Di fortuna, Dell’ingratitudine, Dell’ambizione, Dell’occasione. Questi stessi termini hanno una presenza non marginale nella corrispondenza ‘familiare’ di Machiavelli, entro cui si colloca anche uno scritto determinante per la riflessione sul rapporto virtù/ fortuna, i cosiddetti Ghiribizzi indirizzati da Perugia nel settembre 1506 a Giovan Battista Soderini (destinatario anche del capitolo Di fortuna), con acute e paradossali considerazioni sull’audace e fortunato ingresso in Perugia di papa Giulio II.
L’incontro e lo scontro di quel bagaglio concettuale con le situazioni concrete permette a Machiavelli di avvertire tutta una serie di contraddizioni, portandolo a verificare la sua non perfetta tenuta, in un intreccio di sfasature e di deviazioni. La forza e il fascino del suo pensiero risultano proprio da questo intreccio contraddittorio. L’eccezionale carica espressiva che egli imprime sul materiale concettuale che ha a disposizione; la verifica continua (direttamente manifestata nell’articolarsi stesso del suo linguaggio) dello scontro tra quel materiale e una realtà sfuggente, sempre più difficile e complicata; l’invadente spinta a forzare la stessa realtà, bilanciata dalla drammatica constatazione della sua resistenza: tutto ciò ha contribuito a fare della sua opera, in origine così strettamente legata al particolarissimo punto di vista della repubblica fiorentina e al tempo della «ruina d’Italia», un emblema eccezionale dell’essere politico, della sua esposizione all’aleatorietà del mondo, della sfasatura tra la necessità di valutare razionalmente le condizioni dell’azione e l’urgenza che non permette dilazioni ed errori. Così da questo pensiero in situazione e in continua ebollizione, mai assestato in certezze definitive, le generazioni e i secoli successivi sono giunti a estrarre (o a riprovare e condannare) regole generali di azione politica, modelli di conquista e gestione del potere, e addirittura un’articolata e rigorosa ‘scienza della politica’. Con radicali e semplificanti deformazioni della sua circostanziata concretezza, la sua opera e la sua scrittura si sono mosse e hanno agito nel tempo, si sono dilatate in molteplici modelli della politica o del ‘politico’, con quel «travail de l’æuvre» su cui ha insistito un omonimo libro, importante e troppo poco noto, di Claude Lefort (1972).
Una sfasatura essenziale si può seguire già nella struttura delle scritture ufficiali di Machiavelli segretario, le Legazioni e commissarie: dove, nel riferire della propria osservazione delle situazioni più diverse, nel formulare interpretazioni e ipotesi sui loro eventuali sviluppi, egli deve sempre tener conto del punto di vista della Signoria, imporre una congruità tra le proprie impressioni e opinioni e l’uso che intendono farne i magistrati fiorentini (e qualche volta egli viene addirittura rimproverato per aver formulato consigli e suggerimenti indebiti). Di fronte a difficoltà e limiti di tante situazioni, che sfuggono all’orizzonte terminologico e interpretativo usuale nella pratica politica fiorentina, scatta inoltre una reattività personale, una spinta psicologica alla diffidenza: in forza di quel carattere spregiudicato e irriverente, dello spirito beffardo, della propensione al comico, alla maldicenza, alla mistificazione (tutto molto ‘fiorentino’), che Niccolò esibisce negli scritti letterari e nelle lettere familiari.
Da tutti questi elementi scaturisce la carica demistificante che i migliori lettori di Machiavelli hanno sempre riconosciuto: la spinta a correggere, ridimensionare, rovesciare le stesse categorie di comportamento da cui egli prende avvio, la sua tensione a svelare ciò che c’è dietro i modelli morali, dietro gli stessi nuclei concettuali di quella tradizione fiorentina di cui egli stesso era nutrito. Si è parlato così di un Machiavelli critico dell’ideologia, e in anni più o meno recenti lo si è potuto iscrivere su di una linea Marx-Nietzsche-Freud, svelatrice dei fondamenti oscuri dell’agire umano. E in fondo su questa linea, ma in modo forse più calzante, si era posto Giacomo Leopardi nell’incompiuta operetta Senofonte e Machiavello, quando faceva dire al suo Machiavelli di esser partito da una passione per la «virtù», smentita poi dalla sua scoperta della «vera natura della società» e dei suoi tempi, della reale durezza dei comportamenti degli uomini, sempre rivolti a operare il contrario dei principi morali proclamati:
A me parve che fosse naturale il non vergognarsi e il non fare difficoltà veruna di dire, quello che niuno si vergogna di fare, anzi che niuno confessa di non saper fare, e tutti si dolgono se realmente non lo sanno fare o non lo fanno (G. Leopardi, Operette morali, ed. critica a cura di O. Besomi, 1979, p. 489).
E su questa stessa onda Francesco De Sanctis, nella prima delle sue conferenze su Machiavelli del 1869, affermava più semplicemente che il segretario «ebbe il coraggio di dire quello che a’ tempi suoi tutti avevano il coraggio di fare» (Machiavelli [conferenze del 1869], in Id., Opere, 14° vol., L’arte, la scienza e la vita: nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a cura di M.T. Lanza, 1972, p. 475). Le punte più acute e ‘scandalose’ del pensiero di Machiavelli sorgono in effetti dalla verifica della sfasatura tra il dire pubblico e il fare, tra i modi in cui le cose vengono nominate e la realtà dei comportamenti: una cosa che può apparire addirittura banale, ma che costituisce forse la ragione più semplice e più resistente della fortuna e dello scandalo di Machiavelli nel corso dei secoli.
Da questa verifica, vissuta nell’esperienza concreta, dello scarto tra i modelli concettuali (quelli stessi che gli erano offerti dal linguaggio politico corrente) e la situazione reale in cui si trovava a operare, scaturisce lo sconvolgente e aggressivo ‘realismo’ di Machiavelli, emblematicamente fissato nell’opposizione del capitolo XV, 3-4 del Principe tra la «verità effettuale della cosa» e la «immaginazione di essa» e nello scatto critico verso quelli che «si sono immaginati republiche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero». L’impegno a dar voce a questa «verità effettuale» è complementare alla tensione allo svelamento: ben disposto ad assumere maschere di se stesso (nel teatro e nella beffa, come in emblematiche prosopopee personali), Machiavelli è sempre pronto a strappare maschere, a vedere in atto bugie e mistificazioni, a mettere in luce ciò che gli uomini non vedono o nascondono, simulacri illusori, inganni e autoinganni: e sa bene che queste maschere e illusioni non risalgono soltanto alle costruzioni dell’«immaginazione», ma sono spesso costitutive della «natura» stessa degli essere umani, definite dai loro caratteri, da quei loro «modi di procedere», che egli ritiene immutabili.
La fissità delle nature e dei caratteri individuali e collettivi ha come corrispettivo la variabilità estrema del mondo fisico e storico, della natura esterna, dei «tempi» e della «fortuna». Si dà insomma una radicale contraddizione approfondita nel celebre capitolo XXV del Principe, che riprende e svolge la riflessione avviata nei già ricordati Ghiribizzi al Soderini e nel capitolo Di fortuna: per resistere alla «fortuna» e alle sue variazioni occorrerebbe in effetti saper mutare natura e trovare «riscontro» con la fortuna stessa. Ci sono «tempi» che vanno affrontati con carattere «impetuoso» e altri che vanno affrontati con carattere «respettivo», cauto e prudente: l’impetuoso sa riscontrarsi con i tempi che richiedono l’impeto, ma se poi i tempi richiedono il comportamento opposto, egli non è in grado di «mutare natura». Si dà allora un’opposizione insuperabile, che conduce alla conclusione secondo cui «variando la fortuna e stando li òmini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici» (Principe, XXV, 25). È una vera e propria impasse, superata poi con uno scatto verso una scelta volontaristica che, improvvisamente, alla fine del capitolo, privilegia il modo impetuoso, con l’appoggio dell’immagine mitica, vitalistica e misogina della fortuna come donna, trattabile meglio con l’impeto, dato che
è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedano e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia li comandano (XXV, 26-27).
Al di là di questo scatto così violento, l’aspirazione a superare la contraddizione che le premesse del ragionamento rendono insormontabile si affida, nella scrittura e nei comportamenti di Machiavelli, al vagheggiamento di possibilità di rompere l’immutabilità della natura umana attraverso la «virtù» di soggetti umani eccezionali, di principi e legislatori «savi» e «prudenti», che sappiano all’opportunità mutare natura, muoversi tra i contrari, cambiare il loro modo di procedere, riscontrandolo ogni volta con la condizione richiesta dai tempi. È il richiamo del ‘doppio’, del centauro, dell’individuo che sappia «bene usare la bestia e lo uomo» (XVIII, 4), dato che «bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura, e l’una sanza l’altra non è durabile» (XVIII, 6); un ulteriore ‘doppio’ si impone peraltro nell’uso della bestia, con il suggerimento di «pigliare la golpe e il lione, perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi» (XVIII, 7). Non semplice elogio della doppiezza di comportamento, né di una politica come intrigo e macchinazione, ma immagine di una «prudenza» che si risolve nel saper trascorrere tra i contrari. Nelle occorrenze della sua esistenza Machiavelli giunge anche a incarnare tale «prudenza» nella disposizione al gioco comico, nell’abitudine a far convivere cose serie e «cose vane», ben evidente nelle sue lettere familiari e direttamente dichiarata in quella a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515. Un ultimo formidabile emblema di questa vera e propria antropologia del doppio viene dato nella conclusione delle Istorie fiorentine (VIII, 36) con il ritratto di Lorenzo il Magnifico, del suo superiore modello umano, che si manifesta nell’essere in lui «due persone diverse, quasi con impossibile coniunzione congiunte».
Questa antropologia del doppio, che rompe la tensione unitaria dei modelli umanistici e si rivolge verso una nozione nuova e contraddittoria dell’essere umano, agisce proprio come strumento di smascheramento, si dispone come uno scandaglio analitico, nello sguardo che il segretario rivolge ai comportamenti diffusi. Egli si ostina a considerare le sfasature tra «verità» e «immaginazione», l’azione del non sapere e del guardare distorto su cui si dispone gran parte della vita umana: è ciò su cui la politica deve agire, per costruire una dimensione civile, per rendere possibili forme di «vivere libero», pur in mezzo alla cecità del mondo e all’incoscienza dei soggetti.
Nel modo in cui Machiavelli guarda alla realtà sociale si avverte spesso un senso di divaricazione; una sproporzione tra la possibilità di capire e fare e l’accecamento entro cui gli individui e i gruppi sociali trascorrono la loro esistenza, muovono i loro appetiti, le loro ambizioni, le loro aspirazioni alla felicità, al possesso, al potere. Questa sproporzione è lo strumento euristico per la costruzione di una vera e propria psicologia sociale: la riflessione politica e la stessa costruzione di un «vivere civile» debbono per forza di cose disporsi sulla scena di un mondo dove è opportuno
presupporre tutti gli uomini rei, e che gli abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione, che per non si essere veduta esperienza del contrario non si conosce, ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d’ogni verità (Discorsi, I, 3, 2).
I Discorsi, del resto, prendono avvio, all’inizio del Proemio del libro I, proprio da un richiamo a «la invida natura degli uomini», che pesa su coloro che intendono «trovare modi e ordini nuovi», quasi automaticamente sottoposti al «biasimo» dello sguardo altrui. Questa categoria del biasimo, collegata a quella della maldicenza, costituisce per Machiavelli un dato essenziale nel rapporto intersoggettivo, come una pericolosa disposizione ‘negativa’ che agisce preliminarmente su ogni sguardo, su ogni giudizio, su ogni valutazione degli individui e dei gruppi umani verso qualsivoglia iniziativa.
Nello svolgersi della trattazione dei Discorsi, più volte ci si riferisce alla negatività delle disposizioni naturali degli «uomini». Così
gli uomini non operono mai nulla bene se non per necessità; ma dove la elezione abonda, e che vi si può usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine (I, 3, 5);
perché non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l’uomo ha, se non si acquista di nuovo dell’altro (I, 5, 18);
sendo gli uomini più proni al male che al bene (I, 9, 8);
E perché la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nessuna sua fortuna (I, 29, 8);
Vedesi per questo, ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori (I, 37, 24);
Perché gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli di rapina, ne’ quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a che la natura gl’incita, che non sentono uno altro maggiore uccello che sia loro sopra per ammazzarli (I, 40, 45);
perché gli uomini sono tanto inquieti che, ogni poco di porta che si apra loro alla ambizione, dimenticano subito ogni amore che gli avessero posto al principe per la umanità sua (III, 21, 15);
Perché dalla natura è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che quella (III, 27, 17).
La celebre sentenza di Principe, XVIII, 18, secondo cui «nel mondo non è se non vulgo», si collega a tutta una serie di rilievi sulla diffusa negatività dei comportamenti degli «uomini», di solito indicati nella loro generalità con questo sostantivo così onnicomprensivo, che li fissa nella loro ineludibile condizione naturale. Sono dati che Machiavelli condivide direttamente con la morale popolare corrente, luoghi comuni circolanti nella quotidianità della sua Firenze: ma nella sua riflessione politica essi assumono un eccezionale rilievo ‘realistico’, ponendo il problema del costituirsi stesso della vita collettiva, dell’articolazione del potere e del consenso, sulla base di una radicale negatività. Chi è responsabile della costruzione e della gestione dello Stato, dell’organizzazione del «vivere civile», deve necessariamente tener conto di questa umanità segnata da un accecamento, da una profonda non coscienza di sé, da caratteri naturali che si riavvolgono su se stessi, che si ostinano nella propria insufficienza, si alimentano nella propria costitutiva deviazione morale. Ecco ancora nel Principe:
perché delli òmini si può dire questo generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno, e, mentre fai loro bene, sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto, ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano [...] perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere li òmini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena, che non ti abandona mai [...] perché li òmini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio (XVII, 10, 11, 14).
Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere; e se li òmini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono, ma perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non la hai a osservare a loro (XVIII, 8-9).
E del resto anche il metodo dell’imitazione (in primo luogo imitazione degli antichi) è motivato dall’immutabile dato naturale per cui gli uomini camminano «quasi sempre per le vie battute da altri» (anche se poi non è mai possibile realizzare un’imitazione perfetta: VI, 2).
La cosa viene fissata nel Proemio dei Discorsi e così ribadita più avanti: «perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine» (I, 11, 26).
In questa immutabilità della condizione naturale si dispongono i comportamenti che condizionano la politica, che proprio per questo non può essere concepita semplicemente come una tecnica, o come una categoria ‘autonoma’, ma deve configurarsi entro una presa in carico dei caratteri degli uomini, dei loro orizzonti morali. L’azione del politico si costituisce su una continua verifica delle disposizioni morali e psicologiche dei gruppi umani, con un’inesausta vigilanza sul dominio della malignità, su cui si fonda l’insieme sociale; le possibilità del bene e del «vivere civile» scaturiscono soltanto da un continuo confronto con questa immedicabile negatività.
In vista della costruzione e conservazione del «vivere civile» e dello Stato, il politico deve agire (anche guardandosene, e comunque tenendone conto) su quei dati morali e antropologici entro cui gli uomini dispongono i loro comportamenti, perlopiù senza averne coscienza, come ciecamente guidati da una condizione naturale da cui non sono in grado di distaccarsi. Molteplici sono le notazioni di caratteri morali di cui il principe, il legislatore, il capo di una repubblica, il condottiero devono tener variamente conto; e solo un’oculata prudenza permette di distinguere quei comportamenti diffusi che resistono alla volontà ordinatrice da quelli che al contrario la favoriscono. Ecco alcune di queste essenziali notazioni su comportamenti umani con cui il politico deve fare i conti, nei Discorsi:
perché gli uomini usi a vivere in un modo non lo vogliono variare, e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura (I, 18, 25);
perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare, come di quello che è, anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono, che per quelle che sono (I, 25, 2);
gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e’ non vi sanno entrare (I, 27, 6: è il tema di tutto il capitolo);
e’ pare più naturale agli uomini favorire sempre i principii delle cose; e tali favori possano, più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiano che abbiano in sé qualche virtù, e siano operate da’ giovani (I, 33, 7);
Ma gli uomini fanno questo errore, che non sanno porre termini alle speranze loro; e in su quelle fondandosi, sanza misurarsi altrimenti, rovinano (II, 27, 22);
Dipoi gli uomini s’ingannano il più delle volte dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi mai assicurare se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in questo è pericolosissimo (III, 6, 58);
si vede quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono avere tempo, e quanto e’ sono presti dove la necessità gli caccia (III, 6, 191);
quanto al modo del procedere degli uomini, che sono impazienti, e non possono lungamente differire una loro passione. Appresso, s’ingannano nelle cose loro, e in quelle, massime che desiderono assai (III, 8, 16-17);
giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male che ne risulta s’imputa allo autore del consiglio; e se ne risulta bene, ne è commendato, ma di lunge il premio non contrappesa a il danno [...] essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine (III, 35, 3, 9);
Ma spesso il disiderio del vincere acceca gli animi degli uomini, che non veggono altro che quello pare facci per loro (III, 48, 4).
E così, a tale riguardo, Machiavelli si pronuncia nel Principe:
perché li òmini sono sempre nimici delle imprese dove si vegga dificultà (X, 6);
li òmini in universali iudicano più alli occhi che alle mani, perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’ (XVIII, 17);
perché li òmini sono molto più presi dalle cose presenti che dalle passate, e quando nelle presenti truovono el bene, vi si godono e non cercano altro (XXIV, 3);
è comune defetto delli òmini, non fare conto nella bonaccia della tempesta (XXIV, 8).
Se il principe può utilizzare a proprio vantaggio questa disposizione all’autoinganno, è vero però che essa può minacciare lo stesso suo comportamento, come nel caso dell’adulazione:
perché li òmini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie e in modo vi si ingannono, che con dificultà si difendano da questa peste (XXIII, 2).
L’ostinazione entro la propria natura si collega d’altra parte alla spinta incessante del desiderio, che conduce sempre a sperimentare una sproporzione tra ciò che si può raggiungere e ciò che inevitabilmente sfugge. Così si cade in una scontentezza della situazione presente, quale che essa sia, che stimola l’ambizione: e questa si svolge come un prolungamento senza fine, pur nella sua incolmabilità, del desiderio di possesso. La conflittualità sociale e la guerra si scatenano proprio per questo perpetuo stato di insoddisfazione, per questo rincorrersi infinito del desiderio, dell’ambizione, della volontà di potenza:
Egli è sentenzia degli antichi scrittori come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall’una e dall’altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è, perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; tale che, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro: perché, disiderando gli uomini parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quella altra (Discorsi, I, 37, 2-5).
Questa dialettica dell’ambizione, che prende avvio dalla difesa del proprio spazio vitale e poi conduce all’invasione dello spazio altrui, già ampiamente toccata nel capitolo Dell’ambizione, percorre variamente i Discorsi: ne tratta direttamente il capitolo I, 46 (Li uomini salgono da una ambizione a un’altra; e prima si cerca non essere offeso, dipoi si offende altrui), mentre in III, 21, 6, si ripete ancora che
gli uomini sono desiderosi di cose nuove, in tanto che così disiderano il più delle volte novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno male: perché, come altra volta si disse e è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano.
E all’insaziabilità del desiderio si riconduce anche, nel Proemio del libro II, la tendenza dei vecchi a lodare il passato e a disprezzare il presente, per l’effetto di «una mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono» (par. 21).
In modi molteplici e con orientamenti variabili secondo le situazioni, tutti questi dati morali e comportamentali rendono necessaria una politica dell’apparenza: sia nel principato che nella repubblica, per potere agire sulla fissità della condizione naturale e confrontarsi con il generale dominio della malignità, dell’illusione, dell’inganno e dell’autoinganno, il politico deve confrontarsi con lo scarto tra l’essere e l’apparire, tra ciò che si vede e ciò che è. Si agisce sul «volgo», sulla moltitudine dei cittadini o sudditi, esponendosi alla vista, dando un’immagine di sé che non corrisponde necessariamente alla realtà, ma che si impone su coloro che la recepiscono. Più in generale i rapporti visivi che si danno nell’universo politico vengono evidenziati nella Dedica del Principe a Lorenzo de’ Medici: la stessa validità della trattazione sulla gestione del potere viene ricondotta a una questione di prospettiva, con un formidabile paragone tra la posizione dell’autore e quella dei pittori:
Né voglio sia reputata presunzione se uno omo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare e’ governi de’ principi, perché cosí come coloro che disegnono e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi, si pongono alto sopr’a’ monti; similmente, a conoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi bisogna essere populare (Principe, [lettera dedicatoria], 5).
Il Principe insiste in modo particolare su questa politica dell’apparenza: e i celebri capitoli ‘morali’, quelli più ‘scandalosi’, vengono proprio a mettere a punto una politica dell’immagine, dell’illusionismo, della virtualità, seguendo gli effetti di un puro ‘mostrare’, capace di catturare consenso sulla base di non coscienza, di passività, di pulsioni e desideri eterodiretti dei sudditi. Il principe vede e nello stesso tempo è visto; ma perché la sua visione sia efficace deve sottrarsi al rischio di cadere lui stesso nel vortice dell’autoinganno, deve esplicare la sua «prudenza» nella disposizione a percorrere i contrari, sotto l’insegna del centauro, non soltanto, come si è visto, per «sapere bene usare la bestia e lo uomo», ma per trascorrere tra la propria natura personale (quello che egli veramente è) e le «qualità» umane volta per volta necessarie, in un universo in cui
tutti li òmini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità, che arrecano loro o biasimo o laude (XV, 7).
E per noi è fin troppo evidente come questo fondo tutt’altro che marginale nel pensiero di Machiavelli possa apparire oggi assolutamente cruciale: per la comprensione e la critica del mondo a noi contemporaneo, dell’attuale pericolosa risoluzione della politica nel gioco delle immagini mediatiche, degli effetti di comunicazione, delle derive virtuali.
In questo universo umano e sociale non trasparente, dominato dalla divaricazione, ogni azione che voglia riuscire deve tener aperta la possibilità della deviazione, utilizzando la generale disposizione umana all’illusione: ma Machiavelli è convinto che la cura del politico veramente «savio» e «prudente» debba comunque essere sempre rivolta alla costruzione e al mantenimento di un «vivere libero». Questo offre una «comune utilità», consistente nel «potere godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell’onore delle donne, di quel de’ figliuoli, non temere di te» (Discorsi, I, 16, 9). Lo spirito repubblicano di Machiavelli si rivolge così all’ideale modello di una cittadinanza energica e vigorosa, di libere istituzioni capaci di favorire il felice sviluppo della prosperità economica e degli scambi collettivi. Anche quando si trova a dare suggerimenti per la più spregiudicata gestione del potere principesco, resta viva la sua esasperata passione per la «virtù», nutrita dalla suggestione della virtus romana e dalla sua esperienza di segretario preoccupato per il buon funzionamento della macchina statale.
Questa passione per la «virtù», e per una virtù che dagli individui si trasmetta al corpo sociale e civile dello Stato, sembra in effetti contraddire radicalmente la nozione così ‘negativa’ dei comportamenti umani su cui sopra abbiamo insistito (come del resto aveva notato Giacomo Leopardi nel già ricordato dialogo Senofonte e Machiavello).
I grandi capitoli iniziali dei Discorsi mostrano però come le stesse istituzioni ‘civili’, lo stesso affermarsi del «vivere civile» si diano per Machiavelli proprio sulla base di quei più irriducibili fondamenti ‘naturali’ della condizione umana, a partire dalla loro costitutiva e irriducibile «malignità». Il capitolo I, 2, seguendo le pagine famose di Polibio sullo sviluppo ciclico dei diversi regimi (con il passaggio dai «tre stati» positivi, «principato, ottimati e popolare» alla loro degenerazione), risale indietro fino al «principio del mondo» e riconduce la distinzione tra bene e male, tra onore e biasimo, e l’origine stessa delle leggi e della giustizia a un fondamento materiale, alla constatazione, da parte dei gruppi sociali, della necessità del superamento di una violenza puramente distruttiva, all’individuazione di garanzie di sopravvivenza ‘civile’:
Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubidivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree, perché, veggendo che, se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl’ingrati e onorando quelli che fossero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro, per fuggire simile male si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia (I, 2, 14-15).
La sostanza ideologica e istituzionale su cui si regge la civiltà scaturisce insomma dalla spinta a correggere la casualità e la violenza immediata che costituiscono il «principio del mondo»: la civiltà con i suoi modelli morali e con le sue istituzioni sorge da una correzione del «caso», della nuda materialità dell’esistenza e della reciproca aggressività. E per questo è determinante la qualità dell’intervento iniziale, dell’atto che ha organizzato la comunità civile nel suo affrancarsi dalla casualità originaria: la forza e la resistenza di una repubblica è data dalla bontà di «leggi e ordini» dati all’inizio (una più netta distinzione tra ordini come fondamenti iniziali e leggi come interventi più tardi è fatta in I, 18). Lo stesso capitolo I, 2 delimita la trattazione a quelle «cittadi […] che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbitrio o come republiche o come principato» (I, 2, 2): e punta lo sguardo sulle «leggi e ordini» dati all’inizio, insistendo sulla condizione felice di
quella republica a cui viene in sorte uno uomo sì prudente che gli dia leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggere quelle, possa vivere sicuramente sotto quelle (I, 2, 4).
L’istanza dell’origine, la postulazione del valore della fondazione, della bontà del principio (che ha radice in quella diffusa morale ‘popolare’ di cui si diceva all’inizio), agisce su tutto il pensiero di Machiavelli: si tratta di un modello ‘mitico’, che però viene da lui trascinato verso un serrato confronto con la resistenza della realtà e con la diversità delle situazioni volta per volta considerate. Così, mentre Sparta si è costituita all’inizio grazie all’intervento fondante e totalizzante di Licurgo, ci sono casi in cui la spinta della «necessità» può produrre «accidenti» che conducono soltanto in seconda istanza a un «ordine perfetto». Ma questi casi sono possibili solo se, pur mancando all’inizio quell’ordine perfetto, gli Stati in questione siano comunque nati con «il principio buono»; anche se poi si aggiunge che ciò può essere pericolosa fonte di disastri:
Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza pericolo, perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città, se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che quella republica rovini avanti che la si sia condotta a una perfezione d’ordine (I, 2, 8; a mo’ di esempio qui si citano poi due situazioni della recente storia della repubblica fiorentina).
Per ciò che riguarda Roma, comunque, la sua perfezione, pur mancandole l’intervento iniziale di un legislatore totale, fu determinata dal caso:
Ma vegnamo a Roma, la quale, non ostante che non avesse uno Ligurgo che la ordinasse in modo nel principio che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la plebe e il senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso (I, 2, 30).
Ciò fu possibile anche perché all’origine, da parte di Romolo e dei re, furono fatte «molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero» (I, 2, 32); e, una volta istituita la repubblica, da quei violenti contrasti tra la plebe e il senato scaturì una legislazione che diede luogo a una sorta di bilanciamento tra «le tre qualità di governo» (secondo la partizione di Polibio).
Nel rilievo che Machiavelli dà alla «disunione» tra la plebe e il senato romano si è soliti scorgere un primo riconoscimento del ruolo centrale della lotta di classe nello sviluppo storico: questa concezione della lotta di classe resta comunque legata al presupposto della malignità della natura umana di cui sopra si è detto. La virtù di un popolo scaturisce dal seno stesso di questa malignità, dalla necessità che corregge quella malignità. Le già citate massime ‘negative’ del capitolo I, 3 offrono la giustificazione dell’impegno fondante del legislatore, che deve essere ben cosciente del fatto che gli uomini operano il bene solo «per necessità». La legge ha forza vincolante, in quanto si dà come una sorta di sostituzione formale della necessità naturale; sulla tenuta morale dei cittadini essa fa effetti analoghi a quelli della durezza dell’esistenza:
Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per se medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria (Discorsi, I, 3, 6-7).
In altri termini, è la malignità della natura umana a rendere necessarie le istituzioni e a fondare il «vivere civile»: e sono le buone istituzioni a suscitare nei popoli il senso vivo del «bene comune». Lo mostra tra l’altro lo strenuo attaccamento alla libertà che ebbero i popoli con cui i Romani si trovarono a combattere: esso era alimentato proprio dalla durezza della vita, esibita nella violenza dei sacrifici, «il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui» (II, 2, 29).
Qui si tocca il legame tra libertà e «virtù», che Machiavelli vede operante nei popoli antichi e che gli appare radicalmente caduto nel mondo contemporaneo per responsabilità del cristianesimo, la cui morale, nel volere che «tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte» (II, 2, 33), paradossalmente lascerebbe libero campo alla scelleratezza:
Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini, per andarne in paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle (II, 2, 34).
Nello stesso capitolo si finisce poi per dare la responsabilità dell’assenza di libertà e di spirito civile proprio all’impero romano, che «con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti e vivere civili» (II, 2, 38).
Una repubblica che coltivi in sé il «vivere civile» e la libertà sarà però tanto più dura nel sottoporre altri a «servitù», proprio per la sete di dominio che anima le repubbliche virtuose:
E di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una republica: l’una, perché la è più durabile, e manco si può sperare d’uscirne; l’altra, perché il fine della republica è enervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi (II, 2, 49).
Nell’ottica machiavelliana e sulla scia del modello romano il «vivere libero» si dà solo nel quadro dell’ostilità che caratterizza i rapporti tra le comunità umane, tra le città, tra i gruppi sociali, tra i popoli, tra gli organismi statali, tra le «provincie» del mondo, tra le grandi formazioni etniche o religiose, che egli designa con il nome di «sette». Libertà e «virtù» di un popolo non possono darsi che nella sua capacità di resistenza e di attacco nei confronti dell’aggressività di altri popoli. I rapporti tra le diverse comunità civili sono regolate inevitabilmente dalla stessa spinta naturale del desiderio e dell’ambizione che agiscono nei rapporti tra gli individui. Gli ‘altri’, limitrofi, confinanti, vicini o lontani, sono sempre potenziali nemici, in un mondo che è in perpetuo stato di guerra, dove il desiderio e l’ambizione di ciascuno non possono non spingere a occupare lo spazio altrui: e chi non è pronto all’attacco, finisce per subire l’attacco degli altri. La «virtù» machiavelliana si concepisce sempre come una forza propositiva e aggressiva, un flusso energetico e vitale, che emana dalla libertà, dal vigore di un esistere attivo, da una capacità reattiva verso la realtà materiale.
Se la durezza delle condizioni di vita, l’asprezza del mondo naturale conduce i popoli alla virtù e alla libertà, la religione, come sottolinea il famoso capitolo I, 11 (Della religione de’ romani), è assolutamente «necessaria a volere mantenere una civilità» (I, 11, 3): presso i Romani essa «serviva a mandare gli eserciti, a riunire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei» (I, 11, 8). La Chiesa cattolica invece, per i caratteri stessi del cristianesimo, ha ostacolato ogni uso civile della religione; e per giunta ha operato per tenere l’Italia «divisa», come ampiamente si argomenta in I, 12 (Di quanta importanza sia tenere conto della religione, e come la Italia, per esserne mancata mediante la chiesa romana, è rovinata). Non si deve peraltro dimenticare che questa accusa alla Chiesa, che nei secoli successivi costituirà un essenziale punto di riferimento per tutta la tradizione del pensiero laico e libertino, scaturisce dal diretto confronto di Machiavelli con le vicende della prima rovinosa fase delle guerre d’Italia: egli aveva assistito infatti alle audaci e contraddittorie iniziative del papa ‘guerriero’ Giulio II, e, negli anni di stesura del Principe e dei Discorsi, si trovava a fare i conti con un potere mediceo che faceva capo proprio alla Chiesa romana, nella persona di papa Leone X.
Questa sua nozione tutta ‘politica’ della religione sembra peraltro configurarsi secondo due linee che si presentano come contigue, ma che pure sono nettamente divaricate (e, secondo le loro linee ideologiche, i diversi interpreti hanno volta per volta posto l’accento su l’una o l’altra di esse): da una parte c’è l’adesione appassionata e a tratti nostalgica all’orizzonte di quella religione ‘civile’ che trova la sua verità nel suo saper alimentare la «virtù» dei popoli (a questa linea si sono riferite le interpretazioni che hanno voluto fare di Machiavelli un emblema di religiosità repubblicana); dall’altra c’è la spregiudicata visione della religione come instrumentum regni, costruzione fittizia di «savi» legislatori, sistema ingannevole di miti e superstizioni, che servono a infondere nei popoli quel «timore» che, insieme alla «necessità» e alla durezza dell’esistenza, costituisce la base essenziale della «virtù» e dell’accettazione delle regole del «vivere libero» (a questa linea si sono collegate le interpretazioni in chiave ‘libertina’, che hanno insistito sull’esercizio politico della «doppia verità», sulla necessaria divaricazione tra «savi» governanti detentori di una ragione secolarizzata, emancipata dalla trascendenza, e un popolo di sudditi prigionieri dell’ignoranza, soggiogati dal timore del divino). Ma in ogni modo per Machiavelli il rilievo della religione come necessario sostegno del «vivere civile» è motivato proprio dal peso della «malignità» umana: la religione ha la fondamentale funzione di correggere l’inestinguibile malignità degli uomini, di neutralizzarla e volgerla verso il bene, verso la produttiva costruzione del bene comune.
Ma nella stessa valutazione che Machiavelli fa della religione cristiana non mancano prospettive contraddittorie: così, nonostante tutto, il cristianesimo gli sembra dare buoni frutti presso gli svizzeri, nella «provincia della Magna», dove «molte republiche vi vivono libere, e in modo osservono le loro leggi, che nessuno di fuori né di dentro ardisce occuparle» (Discorsi, I, 55, 9).
La continuità e la lunga libertà delle repubbliche svizzere appare d’altra parte determinata dal loro rifiuto della spinta espansionistica: esse vengono portate come esempio a proposito di situazioni in cui alla repubblica conviene pensare «a difendersi, e le difese tenere ordinate bene» (Discorsi, II, 19, 9). Ma poi, proseguendo, questa notazione viene contraddetta, constatando che
è impossibile che a una republica riesca lo stare quieta e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perché, se lei non molesterà altrui, sarà molestata ella, e dallo essere molestata le nascerà la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico fuora, lo troverrebbe in casa, come pare necessario intervenga a tutte le gran cittadi. E se le republiche della Magna possono vivere loro in quel modo, e hanno potuto durare un tempo, nasce da certe condizioni che sono in quel paese, le quali non sono altrove, sanza le quali non potrebbero tenere simile modo di vivere (II, 19, 10-11).
Ma in termini assai diversi già molto prima era stata indicata come soluzione ideale, in grado di dar luogo al «vero vivere politico e la vera quiete d’una città» (I, 6, 33), quella di una repubblica «bene ordinata alla difesa», disposta a stare «intra i termini suoi», scevra da «ambizione» e magari regolata con «constituzione o legge che le proibisse lo ampliare» (I, 6, 32). Nello stesso capitolo, però, Machiavelli era infine arrivato a considerare doppiamente insoddisfacente questa soluzione (per la diversa azione della necessità e dell’ozio):
Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che, avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tôr via i fondamenti suoi, e a farla rovinare più tosto. Così dall’altra parte, quando il cielo le fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l’ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbe cagione della sua rovina (I, 6, 34-34).
Come per la questione dei rapporti tra virtù e fortuna, tra nature degli uomini e mutare dei tempi, appare impossibile una scelta definitiva e rassicurante tra opposti ordinamenti, costituiti in vista dell’ampliare o del mantenere. Ma, come per la scelta tra modo «impetuoso» e modo «respettivo», anche qui la preferenza di Machiavelli finisce per andare verso la prospettiva più aggressiva, giustificata poi, come tante volte nel suo pensiero, e particolarmente nei Discorsi, con il rinvio al modello romano:
Pertanto, non si potendo (come io credo) bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del mezzo appunto, bisogna nello ordinare la republica pensare alle parte più onorevole, e ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono quello che l’avessono occupato conservare (I, 6, 36).
Come mostra quest’ultima notazione e come si è visto già per altre situazioni che propongono alternative tra scelte diverse, il pensiero machiavelliano si confronta insistentemente con la difficoltà di individuare la soluzione vincente: proprio perché scaturito non da un astratto sviluppo teorico, ma dalla pratica quotidiana della segreteria (in modo tanto più problematico quanto più le cose sono guardate ‘da dopo’, post res perditas, dopo la perdita del posto e nell’ansia di tornare comunque a «voltolare un sasso»), questo pensiero è drammaticamente teso a considerare la difficoltà dell’intervento sul mondo, le polarità decisionali che si impongono a chi si trova a dover agire, l’impossibilità di trovare soluzioni indiscutibili e sicure, in totale certezza. Una delle affermazioni più esemplari si affaccia in un punto molto avanzato dei Discorsi:
E’ pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi – oltre alle altre difficultà nel volere condurre la cosa alla sua perfezione – che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca, che pare impossibile potere mancare dell’uno, volendo l’altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se’ aiutato in modo che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente (III, 37, 2-4).
Nella zona iniziale del trattato, nello stesso capitolo in cui si presenta l’alternativa tra l’ampliare e il mantenere, un simile rilievo sull’inevitabile presentarsi di inconvenienti si affaccia entro la già ricordata riflessione sul contributo che i «tumulti» tra la plebe e il senato avrebbero dato alla grandezza di Roma. Machiavelli afferma che, se è vero che l’assenza dei tumulti si sarebbe risolta in una torpida quiete a scapito dell’energia popolare e della forza militare acquisita dalla plebe, è anche vero che un popolo forte e armato resta incontrollabile, pericoloso per l’equilibrio dello Stato:
Ma venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch’egli era anche più debole, perché e’ se gli troncava la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che, volendo Roma levare le cagioni de’ tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. E in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene, che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Pertanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso e armato, per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo; se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito, perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai (I, 6, 19-22).
Anche nella prospettiva repubblicana, anche quando mostra la sua preferenza per un regime che si appoggia sul «popolo», Machiavelli affida l’azione della politica e la gestione del potere al singolo: non può mai prescindere dal rinvio a una soggettività ordinante, all’individuo «prudente», che deve mettere in campo la sua «saviezza» per contrastare gli inconvenienti continui che si pongono nel rapporto con la realtà esterna, con le mutazioni della fortuna e dei tempi, con l’ostilità di chi si muove su fronti opposti, con quanto di ‘altro’, di non immediatamente controllabile si dà sulla scena del mondo. Sull’orizzonte collettivo della repubblica si sovrappone così la «prudenza» ordinatrice del principe: solo l’energia e l’intelligenza di un soggetto individuale sono in grado di identificare, trasmettere, infondere nello Stato la necessaria «bontà» iniziale, di incarnare la forza del «principio».
Così, mentre il Principe mette in primo piano l’azione dell’individuo nello scatto ‘fondante’ della conquista e della costruzione del «principato nuovo», i Discorsi.considerano il rilievo che per la vita delle repubbliche, per lo sviluppo di un felice «vivere civile» assume l’azione degli individui ordinatori, siano essi fondatori, restauratori dei principi originari, audaci riformatori che salvano lo Stato dalla rovina. Il titolo stesso del capitolo I, 9 afferma recisamente Come egli è necessario essere solo a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al tutto fuori degli antichi ordini riformarla: il «prudente ordinatore […] debbe ingegnarsi di avere l’autorità solo», deve essere disposto anche ad «alcuna azione straordinaria» proprio in vista del «bene comune» (I, 9, 6). La «mente» dell’individuo è il solo luogo in cui si può elaborare la conoscenza del «bene» di una cosa, delle forme necessarie per costituire un ordine, mentre sugli insiemi collettivi pesa la inevitabile varietà delle «opinioni».
Nell’ottica repubblicana dei Discorsi, però, la custodia e il mantenimento di questo bene spetta all’insieme collettivo, perché appare difficile che la bontà dell’ordinatore si trasmetta a un successore, mentre i molti, una volta fatto loro conoscere quel «bene», sarebbero ben atti a prendersene cura per mantenerlo:
Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto quando la rimanga sopra le spalle d’uno, ma sì bene quando la rimane alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro, così, conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo (I, 9, 9-10).
La distinzione è in effetti piuttosto artificiosa, ed è peraltro contraddetta da altri nodi centrali del pensiero machiavelliano: essa mostra come, nei momenti in cui sente più forte la suggestione dell’ottica ‘repubblicana’, il segretario fiorentino si pieghi verso una positivizzazione del ruolo delle moltitudini, dei gruppi ‘popolari’, che in definitiva contrasta con i fondamenti della sua antropologia, oltre che con tante asserzioni che si affacciano qua e là anche nei Discorsi.
L’individualità fondante e ordinatrice che è al centro dell’universo politico machiavelliano, con tutta la sua necessaria «prudenza», è comunque sempre concepita naturalisticamente, nella sua qualità di corpo organico, nella sua densità per così dire psicofisica, nella consistenza dei suoi dati caratteriali e comportamentali, nella spinta che la porta ad assumere la responsabilità delle azioni nel mondo: e dalle diverse «nature» dei soggetti derivano, come si è visto, le diverse possibilità di agire sui «tempi» e sulla fortuna. Allo stesso modo le entità collettive, le «sètte», gli Stati, gli ordinamenti vengono concepiti come organismi corporei, che si sviluppano nel tempo, nascono, crescono e muoiono, secondo un inesorabile ritmo naturale.
Si hanno così le «variazioni delle sètte e delle lingue», su cui insiste Discorsi, II, 5, riconducendole alla necessità della purgazione: come i corpi individuali, il «corpo misto della umana generazione» deve periodicamente espellere la «materia superflua»: e
quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori (in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi) e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi […], acciò che gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente e diventino migliori (II, 5, 16).
Perentoria l’affermazione all’avvio del III libro dei Discorsi:
Egli è cosa verissima come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato o che non altera, o, s’egli altera, è a salute e non a danno suo (III, 1, 2).
Questa dimensione corporea impone la necessità della cura, che in linea di massima deve concepirsi come ritorno al principio, alla «bontà» dell’origine: il corrompersi del corpo dello Stato va continuamente curato con rinnovamenti che riconducano al «segno» iniziale. La fine è comunque ineluttabile, inscritta nel movimento stesso delle cose, e tocca anche gli organismi più saldi e resistenti: perfino entro il perfetto modello romano si sono annidati, fino a disintegrarlo, i germi della corruzione. Ma più immediate e circostanziate minacce gravano su ogni momento dell’esercizio della politica, nello spazio naturale e conflittuale in cui il politico si trova ad agire quotidianamente. L’esperienza da Machiavelli personalmente vissuta, l’insicurezza estrema dell’universo politico contemporaneo, la condizione dell’Italia percorsa dagli stranieri (presentata nel capitolo XXVI del Principe come un cumulo di rovine, «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», che ha «sopportato d’ogni sorte ruina», XXVI, 3), conduce a mettere in primo piano il rilievo che nell’agire politico assume la ruina: l’azione politica è sempre sotto minaccia, deve tener conto di inconvenienti e difficultà che sorgono da tutte le parti, che insidiano ogni decisione, ogni possibile scelta.
Compito del politico «prudente» è quello di valutare tempestivamente difficoltà e inconvenienti che ogni volta si presentano: egli si trova sempre davanti a partiti contraddittori, che presentano inconvenienti di diverso grado, tra i quali è costretto a operare scelte che contengono sempre un margine di rischio, che non possono mai condurre a soluzioni perfettamente sicure (anche se Machiavelli si ostina a voler considerare più sicure quelle che suscitano un più diretto scatto aggressivo o chiamano in causa orizzonti mitico-simbolici). In un groviglio di contraddizioni e di difficoltà, che il pensiero viene a complicare proprio nell’atto stesso in cui si impegna a districarle, la politica cerca soluzioni tecniche che restano aleatorie, non formalizzabili, costrette a modificarsi di fronte alle circostanze, complicate per giunta da quel rilievo dell’apparenza tanto acutamente messo in luce nel Principe.
L’ossessione con cui Machiavelli si confronta con difficoltà spesso insormontabili, ostinandosi a cercare soluzioni e vie d’uscita, dovrebbe allontanarci da quell’uso ancora dominante del suo pensiero in chiave di grande modello di una nuova scienza della politica, di spregiudicato strumento di conquista e gestione del potere, in autonomia da ogni orizzonte sociale e morale. Egli ci suggerisce piuttosto una nozione della politica come arte del rimedio, di resistenza alle insidie molteplici che gravano su «questo corpo misto della umana generazione»: tentativo di far ordine nel succedersi delle «variazioni» della natura e della fortuna; di cura continua degli inconvenienti che minacciano dall’interno e dall’esterno il corpo civile, le condizioni stesse del «vivere libero».
Nel pensiero di Machiavelli si prospetta una vera e propria antropologia del rimedio, legata a una continua spinta a rimediare a situazioni che si affacciano nel mondo con aspetti sempre nuovi e sconvolgenti, scatenando opposizioni e contrasti imprevedibili. A tal proposito assume un rilievo determinante la frequente equiparazione tra politica e medicina, che risale a una tradizione antica, ed è in piena evidenza nel capitolo III del Principe (a proposito della necessità di prevedere il male per tempo, quando «è facile a curare e dificile a conoscere», III, 27) e nel già citato capitolo III, 1 dei Discorsi (a proposito dei necessari interventi per ricondurre al «principio» le repubbliche: «E questi dottori di medicina dicono, parlando de’ corpi degli uomini, “quod quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione”», III, 1, 9).
Non si tratta di occasionali metafore, ma di richiami determinanti a quell’impegno di correzione continua delle difficoltà insite nella vita dei corpi collettivi, nel rapporto tra chi esercita il potere e chi lo subisce, nello sviluppo delle istituzioni, nella condizione perpetuamente conflittuale tra le società umane e i loro soggetti. Dopo tanti secoli, nel nostro mondo tanto lontano da quello di Machiavelli, è ancora quanto mai necessaria una politica «prudente», a livello internazionale: capace di cercare e mettere in campo i rimedi sempre più urgenti e non procrastinabili, sia per la cura del «vivere civile» (spesso cancellato dal dominio della politica dell’apparenza), sia per la salvezza del «corpo misto della umana generazione», che i tempi in atto sottopongono nel suo insieme a minacce in passato sconosciute.
Per i testi di Machiavelli si rinvia ai volumi dell’Edizione nazionale delle opere, iniziata nel 2001 (con L’arte della guerra: scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi) e che sta per giungere a compimento.
Le citazioni sono tratte, con l’indicazione di capitolo e paragrafo, dai seguenti volumi dell’Edizione nazionale:
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, 2 voll., Roma 2001.
Il Principe, a cura di M. Martelli, Roma 2006.
Per i testi non ancora compresi nell’Edizione nazionale (in particolare le Lettere familiari e gli scritti letterari), cfr. Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, e Opere, a cura di C. Vivanti, 3 voll., Torino 1997-2005.
La figura e l’opera di Machiavelli sono state sempre al centro della riflessione sulla politica, dal Cinquecento a oggi, tra condanne, esaltazioni, interpretazioni contrastanti. Per un ampio quadro storico, si veda:
G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995.
Per l’interpretazione ‘moderna’, tra filosofia, politica e orizzonte ‘civile’, sono essenziali:
F. De Sanctis, Machiavelli (conferenze del 1869), in Id., Opere, 14° vol., L’arte, la scienza e la vita: nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a cura di M.T. Lanza, Torino 1972, pp. 39-92, 473-98.
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana (1870), a cura di N. Gallo, Torino 1996, cap. XV.
F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München-Berlin 1924, cap. I (trad. it. Firenze 1942, 19702).
F. Chabod, Scritti su Machiavelli (1924-1955), Torino 1964.
B. Croce, Machiavelli e Vico: la politica e l’etica (1925), in Id., Etica e politica (1931), Bari 1981, pp. 204-209.
A. Gramsci, Noterelle sulla politica del Machiavelli (1932-1934), in Id., Quaderni del carcere, 13 (cfr. l’ed. critica a cura di V. Gerratana, 3° vol., Torino 1975, pp. 1553-62).
L. Russo, Machiavelli, Bari 1945, 19574.
G. Ritter, Die Dämonie der Macht, Betrachtungen über Geschichte und Wesen des Machtproblems im politischen Denken der Neuzeit, Stuttgart 1947 (trad. it. Bologna 1958).
G. Sasso, Niccolò Machiavelli: storia del suo pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 19802.
L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Glencoe (Ill.) 1958 (trad. it. Milano 1970).
F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini: politics and history in sixteenth century Florence, Princeton (N.J.) 1965 (trad. it. Torino 1970).
J.H. Whitfield, Discourses on Machiavelli, Cambridge 1969.
C. Lefort, Le travail de l’æuvre: Machiavel, Paris 1972.
Q. Skinner, Machiavelli: a very short introduction, Oxford 1981, 20002 (trad. it. Bologna 1999).
R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli 1984.
L. Vissing, Machiavel et la politique de l’apparence, Paris 1986.
G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli 1987.
E. Cutinelli-Rèndina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma 1988.
G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza: la politica come arte del rimedio, Roma 2003.
M.C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli 2006.
G.M. Barbuto, Antinomie della politica. Saggio su Machiavelli, Napoli 2007.
Il più aggiornato e affidabile tra i profili globali:
F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005.
Si veda anche:
G. Inglese, Machiavelli Niccolò, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2006, ad vocem.