Niccolò Machiavelli
«Essendo voi sempre stato ut plurimum extravagante di opinione dalla commune, et inventore di cose nuove et insolite» (Guicciardini a Machiavelli, Modena, 18 maggio 1521, in Lettere a Francesco Vettori e Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, 1996, p. 299). Questo giudizio formulato da Guicciardini è il miglior viatico alla comprensione del pensiero di Machiavelli. Già quando era in vita fu percepita la straordinarietà della sua opera politica. Tuttavia Machiavelli, pur essendo intimamente legato alla sua epoca, la travalica, perché nelle sue pagine sono poste questioni ed elaborate idee essenziali ancora oggi per decifrare i momenti più critici della vita politica. Egli fu consapevole di vivere un momento storico, segnato dalle guerre d’Italia, di radicale trasformazione, che sconvolgeva i vetusti assetti intellettuali e politici del suo tempo. Da quell’evento, per alcuni decenni, la devastazione dell’Italia fu di tale intensità da imporre modi nuovi di pensare la politica. E nessuno lo fece con la radicalità, la profondità e l’‘eccentricità’ di Machiavelli. È questa la ‘stravaganza’, che gli attribuiva l’amico Guicciardini. Una ‘stravaganza’ non superficiale, ma che costituì una sorta di nékyia, di discesa agli inferi della politica da parte del segretario fiorentino.
La vita pubblica di Niccolò Machiavelli iniziò nell’estate del 1498. Prima di allora pochissime e scarne sono le notizie. Nacque a Firenze il 3 maggio del 1469 da Bernardo, laureato in legge, che non trasse profitto dal proprio titolo, ma si dedicò all’amministrazione delle sue modeste proprietà, e da Bartolomea de’ Nelli. Niccolò ebbe due sorelle maggiori e un fratello minore, Totto, che sarebbe diventato un ecclesiastico. Anche Guido, penultimo dei sette figli di Niccolò avuti da Marietta Corsini, sposata nel 1501, sarebbe stato un ecclesiastico e, non immemore dell’insegnamento paterno, un letterato.
Dei primi ventinove anni di vita di Machiavelli il documento più importante è il Libro di ricordi del padre dal 1474 al 1487, in cui sono riportate soprattutto notizie attinenti al suo patrimonio. Tuttavia, in tale regesto risaltano per gli studiosi alcune informazioni sulla biblioteca di Bernardo, che attestano interessi eminentemente giuridici e umanistici (ad es., opere di Livio, Giustino, Cicerone, le Deche dell’umanista forlivese Biondo Flavio e il commento all’etica aristotelica dell’umanista fiorentino Donato Acciaiuoli, che riportava le lezioni del celebre umanista Argiropulo).
Ancora più illuminanti sono le annotazioni sull’istruzione impartita al figlio Niccolò. Sappiamo così che egli apprese una buona conoscenza del latino dal maestro ser Paolo Sassi da Ronciglione, figura non irrilevante del mondo intellettuale fiorentino. Non risulta, invece, che Machiavelli apprendesse il greco né che si laureasse.
Un altro importante documento per ricostruire l’educazione culturale di Machiavelli è un suo codice autografo, il Vaticano Rossiano 884, contenente il De rerum natura di Lucrezio e l’Eunuchus di Terenzio. Rilevantissima è l’attestazione lucreziana, che rivela peculiari affinità machiavelliane con il poema epicureo, poi rifluite nei suoi capolavori.
Fra metà giugno e metà luglio del 1498 (appena poche settimane dopo l’esecuzione della sentenza di morte per impiccagione di Girolamo Savonarola) Machiavelli fu eletto alla carica di segretario, prima della seconda Cancelleria (la prima, come tradizione, fu affidata al docente di greco e latino nello Studio fiorentino, Marcello Virgilio di Adriano Berti) e poi, anche, del Consiglio dei Dieci, magistratura che sovrintendeva alla politica fiorentina nel dominio e nella guerra (dunque di grande importanza in quel periodo). Inoltre, su Savonarola, agli inizi di marzo del 1498, Machiavelli aveva già scritto parole sprezzanti in una lettera a Ricciardo Becchi, prelato di curia a Roma.
È stato quindi congetturato un Machiavelli vicino alla parte ottimatizia avversa al frate domenicano, il quale, alla fine del 1494, dopo la cacciata (9 novembre dello stesso anno) dei Medici da Firenze in seguito all’invasione delle milizie di Carlo VIII, aveva ispirato l’istituzione del Consiglio maggiore, vera anima della Repubblica, che ne aveva allargato la base popolare a più di tremila partecipanti.
I rapporti di Machiavelli con gli ottimati si guastarono quando egli divenne l’uomo di fiducia di Piero Soderini, dalla tarda estate del 1502 eletto primo gonfaloniere di giustizia a vita di Firenze. Il gonfaloniere presiedeva la Signoria, composta da nove membri, rappresentativi dei quartieri e delle Arti di Firenze, suprema magistratura della città, cui era demandata, in modo particolare, l’iniziativa di proporre leggi che dovevano essere approvate dal Consiglio maggiore.
Soderini, che era stato proposto alla prestigiosa carica proprio dagli ottimati, assunse poi, appoggiato decisamente da Machiavelli, un atteggiamento politico filopopolare. Non a caso Machiavelli, all’indomani della caduta della Repubblica con la fuga dalla città di Soderini, a fine agosto del 1512, avrebbe proposto ai Medici di attuare una politica filopopolare e nel IX capitolo del Principe avrebbe suggerito al principe nuovo di farsi garante del popolo piuttosto che dei grandi, infidi e per ambizione sempre bramosi di potere.
Al periodo del Machiavelli politico corrisponde una ingente messe di documenti, che si distinguono in tre tipologie a seconda dei compiti da lui espletati per la sua carica. Infatti, gli incarichi assolti dal Machiavelli segretario riguardavano sia la corrispondenza (Scritti di governo) per conto delle magistrature fiorentine con le autorità della Repubblica inviate a controllare e governare il territorio sottomesso a Firenze, sia le missioni (le Commissarie) nell’ambito del dominio (soprattutto la riconquista di Pisa, perduta in seguito alla discesa di Carlo VIII in Italia e riconquistata anche per merito di Machiavelli solo nel giugno del 1509), sia le missioni (Legazioni), sempre come ‘mandatario’ mai come ‘oratore’ ufficiale, negli altri Stati: ad es., presso il re di Francia, l’imperatore, il papa, Cesare Borgia.
Ovviamente, questi scritti non possono rivelare a pieno i sentimenti e le idee di Machiavelli, pur testimoniando il suo assiduo e instancabile impegno a favore di Firenze e pur costituendo un cimento quotidiano per la sua formazione politica. Dove l’animus politico del segretario fiorentino poteva esprimersi più liberamente erano altri scritti su situazioni critiche all’ordine del giorno nella vita della sua città, non dipendenti dai suoi doveri ordinari di funzionario della Repubblica, composti sempre per le magistrature fiorentine. Fra questi, di precipuo interesse sono quelli sulla costituzione della milizia fiorentina, di cui Machiavelli, consapevole dell’inaffidabilità delle truppe mercenarie o degli alleati (come dimostrava la difficile riconquista di Pisa) si fece promotore e principale organizzatore fra il 1504 e il 1507. Altrettanto, se non più, notevoli sono alcuni rapporti e relazioni di Niccolò redatti su quei Paesi da lui visitati in seguito alle sue legazioni, come il Rapporto di cose della Magna (1508); Ritratto di cose di Francia (1510-12); Ritratto di cose della Magna (1512).
Tutte queste composizioni, insieme all’epistolario di questi anni, costituiscono il laboratorio sia della scrittura sia della mente politica di Machiavelli. In questi scritti incominciavano a prendere forma le questioni sulle quali si sarebbe soffermato nelle sue grandi opere, come il rapporto fra virtù e fortuna; l’esemplarità degli antichi Romani; la potenza militare e la compattezza necessaria a uno Stato (l’esempio positivo era costituito per Machiavelli, proprio sulla base della sua esperienza diplomatica, dalla Francia; quello negativo dall’impero); i comportamenti di comandanti e soldati nelle vicende belliche; le passioni e le psicologie dei principi.
Sempre su tali temi si affissava l’intelligenza di Machiavelli in alcune composizioni letterarie del periodo del segretariato, come i Capitoli, sulla ingratitudine, sulla fortuna, sull’ambizione, e il Decennale, sempre in terzine, sulla storia italiana dal 1494 al 1504.
Appunto a causa delle guerre d’Italia (la Lega santa contro la Francia voluta ancora da Giulio II, la quale decise la restaurazione medicea), la Repubblica fiorentina cadde e Machiavelli perse il suo incarico. Nel febbraio del 1513 fu anche arrestato perché sospettato di essere implicato in una congiura antimedicea. Sarebbe stato liberato per l’amnistia dopo l’elezione, l’11 marzo del 1513, del cardinale Giovanni de’ Medici al soglio pontificio con il nome di Leone X (1513-1521), che avrebbe instaurato, insieme al papato di un altro esponente della famiglia, Clemente VII (1523-1534), un legame intrinseco fra politica romana e destino di Firenze.
Iniziavano così, dopo la liberazione, i penosi e frustranti tentativi di Machiavelli di continuare la sua attività politica, questa volta al servizio dei Medici. Ne è testimonianza lo stesso Principe, in ventisei capitoli, dedicato al giovane Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze, di presumibile datazione fra la metà del 1513 e la primavera del 1514 e pubblicato postumo, nel 1532, dal tipografo romano Blado e dal fiorentino Giunta. L’avvilimento di Machiavelli fu mitigato dalla partecipazione dal 1516, agli Orti Oricellari, una accademia informale di letteratura e storia. Da tale frequentazione nacquero i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dedicati a Cosimo Rucellai e a Zanobi Buondelmonti, in tre libri, i quali sono ascrivibili, ma anche in questo caso la datazione è controversa, al periodo fra il 1516 e il 1519, con innesti ulteriori fino al 1523-1524, ed editi postumi, nel 1531, ancora dal Blado e dal Giunta.
Nelle grazie dei Medici, che però mai gli affidarono compiti politici di qualche rilievo, Machiavelli riuscì a entrare solo verso il 1520, proprio per i buoni offici di alcuni suoi amici degli Orti Oricellari. Ne nacquero le Istorie fiorentine, in otto libri, dal 13° sec. alla morte di Lorenzo il Magnifico, che furono presentate a Clemente VII nel 1525. Del 1519 è probabilmente la composizione della Mandragola. L’ex segretario, sempre incline a coltivare la sua passione letteraria, avrebbe composto anche un’altra commedia, la Clizia, e tradotto l’Andria di Terenzio, mentre forse è del 1517 il poemetto in terzine, di imitazione apuleiana, l’Asino; molto discussa è, invece, l’attribuzione di un Dialogo sulla lingua della sua città nel quale era svolta un’apologia del fiorentino.
Fra il 1520 e il 1521, sempre per commissione medicea, Machiavelli compose il Discursus florentinarum rerum, nel quale, dopo la morte del giovane Lorenzo de’ Medici nel maggio del 1519, proponeva una restaurazione della Repubblica sotto però la tutela dei Medici. Nel 1521, quale prova della competenza militare che gli era accreditata, apparvero a stampa i sette libri dell’Arte della guerra. Comincia dal 1521 lo splendido carteggio machiavelliano con l’amico Francesco Guicciardini, al quale fu vicino nell’impresa della lega di Cognac contro Carlo VIII. Poco dopo il sacco di Roma e i rivolgimenti fiorentini che avrebbero ripristinato la Repubblica, Machiavelli morì a Firenze il 21 giugno del 1527.
Nella lettera dedicatoria del Principe al giovane Lorenzo de’ Medici, Machiavelli spiega il suo metodo, ribadito anche nelle altre famose opere politiche. L’ex segretario si appella a due fonti: l’esperienza acquisita in circa un quindicennio al servizio di Firenze; la lettura e la meditazione delle opere degli antichi.
Per Machiavelli, l’Antico e il Moderno non sono memoria e osservazione inerte, ma sono «escogitati» ed «essaminati», ovvero passati al vaglio della ragione. In modo particolare, l’Antico non produce un’imitazione pedissequa, né interessa a Machiavelli un suo restauro filologico. Come Machiavelli afferma nella lettera del 10 dicembre del 1513 a Francesco Vettori, nella quale racconta la sua modesta esistenza e dà notizia della composizione del Principe, si entra nella corte degli antichi per instaurare con loro un dialogo, per interrogarli, per chiedere ragione delle loro azioni e delle loro parole.
Ma la «cognitione» dell’Antico e la lunga esperienza cancelleresca non rappresentano, per Machiavelli, due fonti non congrue, fra loro incomponibili. Innanzi tutto, entrambe sono esperienza: quella antica conosciuta attraverso le opere degli storici; quella moderna mediante la sua diretta «autopsia». Ancora, mentre l’amico Guicciardini pensa che la sua epoca segni una ‘mutazione antropologica’ rispetto all’Antico, tanto da rendere infruibile l’esemplarità di Roma e Atene, Machiavelli, invece, ritiene che le passioni, i sentimenti, le caratteristiche essenziali degli uomini siano sempre state le stesse, anche se la loro virtù rifulge nei diversi popoli a seconda del cambiamento dei loro umori e del mutamento turbinoso dei tempi.
Machiavelli ha una concezione eraclitea della storia e della politica umana. Le vicende degli uomini sono attraversate da un furioso divenire, da un moto incessante. Regna sul mondo degli uomini il pólemos, inteso come conflitto nelle sue diverse manifestazioni. Politica, quindi, o meglio grande politica (non a caso Machiavelli si appella sempre ai grandi, eccellentissimi uomini e principi), non è presumere di esorcizzare il pólemos, ma di governarlo, di introiettare nell’azione politica la sua energia per la salvezza dello Stato e per il conseguimento del bene comune, evitando che diventi potenza disgregatrice e dissolutrice.
Machiavelli scruta il vortice delle vicende umane con sguardo scevro da illusioni. Come afferma polemicamente nell’incipit del capitolo XV del Principe, egli si è discostato dai tanti autori di specula principis, i quali si erano fatti sedurre da repubbliche immaginarie e avevano profilato i loro ritratti su specchi o teologici o etico-classicistici, ma comunque incardinati sul nesso aristotelico-tomistico di bene-potere. Il Principe è un anti-speculum. Machiavelli insegue la «verità effettuale», cerca di comprendere gli effetti delle azioni politiche, le loro conseguenze, la loro incidenza nella realtà di un popolo, enucleando delle leggi che non sono irrefragabili e inscalfibili, ma sempre subiscono e si adattano all’attrito della realtà.
Spesso erroneamente Machiavelli è stato associato a Thomas Hobbes. Il segretario fiorentino è stato gratificato del titolo di fondatore della scienza politica moderna e il suo metodo è stato assimilato a quello di Galileo Galilei e di Hobbes. In effetti, per Machiavelli, la politica non è scienza, ma «arte», prassi di «bottega», «esperienza» e non «esperimento», e, infatti, non a caso la paragona alla medicina. Come quest’ultima, così la politica, avvalendosi di un’anamnesi, di una diagnosi e di un confronto con altri simili casi, suggerisce una prognosi. «Vedere discosto» è, infatti, suprema virtù dell’uomo politico e in essa eminenti erano stati gli antichi Romani. Il metodo machiavelliano, dunque, non è paragonabile alla politica more geometrico demonstrata di Hobbes che, come gli altri grandi interpreti della svolta seicentesca (da Francis Bacon a Galilei a René Descartes), fonda il Moderno, recidendo il cordone ombelicale dell’Antico, da Machiavelli, invece, discusso e tesaurizzato per indagare il succedersi degli «accidenti» nella storia.
Gli «accidenti», il «caso», l’«occasione» sono termini ricorrenti nel lessico machiavelliano e rinviano tutti a un medesimo etimo: il latino cadere. Ricordano il ‘clinamen’ del Lucrezio ben conosciuto dal segretario. Gli eventi politici ac-cadono per Machiavelli senza alcun ordine prestabilito e spetta al politico dare «buoni ordini», vale a dire leggi e istituzioni, a tali eventi. L’«occasione» machiavelliana è la scintilla, il kairós, che nella tensione fra la virtù, il valore tutto umano del principe e la fortuna, il risvolto notturno, imprevedibile degli eventi, accende l’azione politica ‘effettuale’.
Il mondo politico machiavelliano è una ellissi, nella quale un polo non può stare senza l’altro, ma con-siste insieme e in conflitto con l’altro. Una serie di antinomie attraversa i diversi aspetti della politica: l’esistenza bestiale e umana del principe centauro, libertà e necessità, virtù e fortuna, caso e occasione; la vita di ogni cittadino, la cui coscienza, afflitta dalla «mala contentezza», rischia di entrare in crisi per il contrasto fra natura umana, sempre desiderante, ed effettive possibilità di raggiungere i propri obiettivi; e il conflitto pervade lo stesso «corpo misto» dello Stato a causa delle «dissensioni» civili fra grandi e popolo, patrizi e plebei, che nella visione machiavelliana dicotomica, sono gli «umori» prevalenti nella città.
Secondo Machiavelli, la politica è tensione di queste polarità antinomiche, è capacità di valorizzarle nella loro virtuosa conflittualità, impedendo che tracimino e dilanino uno Stato. La politica machiavelliana è insidiata dall’immanente contrasto fra bene e male. Il principe non può rifuggirne, ma deve «sapere entrare nel male necessitato» «per mantenere lo stato» (Principe, XVIII, a cura di M. Martelli, 2006, p. 241).
Si badi bene: Machiavelli non suggerisce affatto una trasvalutazione nietzscheana del bene e del male. Contrariamente a quanto sovente nel Novecento è stato ipotizzato, il principe machiavelliano non è l’Uebermensch, anche se lo stesso Friedrich Nietzsche aveva pensato a eroi machiavelliani, come Cesare Borgia, quando aveva immaginato il Superuomo. Nella concezione machiavelliana il male, cristianamente concepito, resta male. Non è trasvalutato o redento. La politica è un mondo senza redenzione, nel quale, sotto la perenne e incombente minaccia della catastrofe, è possibile solo fare in modo che quelle ellissi, quelle tensioni dilemmatiche siano proficue e «civili».
È questa la vera differenza fra il realismo machiavelliano e l’utopia rinascimentale. Non è il realismo, perché il primo libro dell’Utopia di Thomas More è una lezione di analisi realistica dell’Europa e in specie dell’Inghilterra del suo tempo, così come la Città del Sole di Tommaso Campanella è una denunzia puntuale e acuminata della società soprattutto meridionale. Ma l’utopia (per quanto More demitizzi con l’ironia il suo stesso progetto di società perfetta) è il regno dell’armonia dove i conflitti sono sedati, sono redenti. Utopia è la palingenesi, la restaurazione della terra adamitica ante lapsum. Non così in Machiavelli.
Per Machiavelli, l’origine e rifondazione di uno Stato sono rigate da linee di sangue, come attesta l’uccisione di Remo da parte di Romolo o quella dei ribelli ebrei sanzionata da Mosè o, al principio della Repubblica romana, la decisione presa da Bruto dell’uccisione dei suoi figli, traditori della patria.
La politica, secondo Machiavelli, la grande politica dei legislatori e riformatori di Stati, è impresa difficile, rasenta quasi la impossibilità, è opera pressoché divina ed è la vera azione umana che merita la «gloria». La politica è un’impresa che rasenta l’impossibile, soprattutto quando la natura del principe, che può essere o «reflessiva» o «impetuosa», non trova il suo «riscontro» nei tempi, quando la sua virtù non collima con la fortuna. Il principe machiavelliano dovrebbe variare come variano i tempi, predisporre gli argini all’eventuale straripamento dei fiumi. E Machiavelli senz’altro preferisce un’azione impetuosa, decisa, coraggiosa, propria di un principe giovane come quel Cesare Borgia, che egli mitizza nel capitolo VII del Principe.
Se Machiavelli, nonostante il suo rapporto con l’Antico, non è certamente un umanista ex professo, valorizza, però, trasformandole, drammatizzandole, alcune delle doti che gli umanisti avevano encomiato nell’uomo. Specialmente la libertà o, per meglio dire, mutuando lo stesso termine che Machiavelli usa negli ultimi capitoli del Principe, il «libero arbitrio». La stessa «necessità», che Machiavelli spesso richiama per giustificare la contaminazione con il male nell’azione politica, non allude a una relazione ferrea di cause ed effetti, ma, al contrario, alla concretezza di una contingenza, dalla quale il principe non può prescindere, palesando la sua libertà proprio nel saperla riconoscere e volgere a suo favore.
Tuttavia, per Machiavelli, la libertà acquisice una tragicità che manca nel grande cantore della dignitas hominis, Pico della Mirandola. Nel suo mirabile discorso, la libertà è dono divino all’uomo, che così viene radicalmente distinto dagli animali. Pico stabilisce un’antitesi fra humanitas e ferinitas, precisando che la libertà umana, se male usata, può precipitare l’uomo nell’anti-umano, vale a dire in una condizione bestiale. Nella prospettiva machiavelliana, invece, la ferocitas, la bestia è un aspetto non eliminabile del politico, anche se questo non comporta affatto un’abdicazione umana alle sue specifiche qualità, come la ragione e, appunto, la libertà. Per di più, la libertà pichiana consiste in una discretio, che non viene minacciata, non è rastremata da altre potenze se non dalla sua medesima involuzione. Nella pagina machiavelliana, diversamente, la libertà coesiste e combatte con ciò che rischia di negarla, fortuna, necessità, caso.
Anche quando Machiavelli, in Discorsi, I, 2, cita implicitamente la teoria polibiana della anacyclosis, non la considera, come lo scrittore greco, una necessità naturalistica, ma ne scompagina il determinismo, inserendovi altri elementi come il «caso», gli «accidenti», il «consiglio» e «le forze» dei politici, la loro libertà nel prendere e attuare decisioni virtuose, che impediscano la ciclica degenerazione.
Il politico machiavelliano è attraversato dalle stesse antinomie della realtà. Solo non eludendole illusoriamente, può servirsene come energia positiva della sua azione. Il principe-centauro non è né u-topico, né trans-topico rispetto alla realtà. Egli, contrariamente al sovrano moderno, concepito nella sua maggiore intensità e concentrazione nella potenza leviatanica, non è trascendente alla macchina statale, non eccede a un magma sociale, del quale disciplina dall’esterno i costumi, bensì vi dimora, non nel senso, però, scolastico-controriformistico di un’anima che illumina il corpo traducendovi il raggio divino. È una dimora ‘ambigua’, è una presenza-assenza: il principe-centauro non può presumere di immunizzarsi dalle contraddizioni della realtà, ma deve anche saperle regolare non facendosi travolgere dal loro potenziale distruttivo.
Un antagonista insidioso della politica machiavelliana è da Machiavelli medesimo raffigurato nella Mandragola. Qui presenta un mondo dove dominano le passioni, i vizi, le brame non frenate, dove risalta l’assenza di ogni regola e virtù che non sia meschina furbizia. È un mondo di ‘idioti’, nel senso di individui introflessi nei loro interessi angusti, che curano solo il loro tornaconto e lo perseguono a ogni costo, senza alcuna preoccupazione etico-civile. Un mondo senza ethos, senza legami affettivi o sociali che non siano dettati dall’egoismo. E il tipico ‘idiota’ è Messer Nicia, che così diventa nella commedia machiavelliana l’anti- principe, il suo rovesciamento antropologico.
I Discorsi ampliano il tema del conflitto da Machiavelli declinato nel Principe soprattutto dal punto di vista antropologico. Una questione spesso dibattuta nella storiografia è il rapporto di opposizione o di contiguità fra le due grandi opere di Machiavelli. Preferire l’una piuttosto che l’altra significava già una precisa opzione esegetica. In realtà, come Machiavelli medesimo afferma, Principe e Discorsi non manifestano una contraddizione politica, ma una profonda unità, in quanto illustrano due momenti differenti della vita politica. Il principe agisce quando occorre fondare o rifondare, riformare uno Stato. Questo è il tempo di grandi legislatori, dei Mosè, Licurgo, Romolo.
Ed è significativo che, nella rubrica di Discorsi, I, 10, Machiavelli, spesso condannato come maestro dei tiranni, asserisca: «Quanto sono laudabili i fondatori d’una republica o d’uno regno, tanto quegli d’una tirannide sono vituperabili». Machiavelli non recepisce la distinzione effettuata da Bartolo da Sassoferrato fra tyrannus ex defectu tituli e tyrannus ex parte exercitii, che era stata completamente superata dalla realtà politica italiana del 14°-15° secolo. Virtuoso principe è chi istituisce «buoni ordini» e leggi, e chi li rispetta.
In un momento differente, la repubblica, intesa come partecipazione popolare al potere politico, segna il tempo del consolidamento e ampliamento dello Stato. Allora il potere non può essere di una sola persona, perché rarissimi sono gli uomini che abbiano le virtù dimostrate dal principe-fondatore-legislatore. Nel popolo, che senza regola e legge è una bestia ferocissima, risiede una sapienza innata. Machiavelli cita il proverbio, la «voce del popolo assomiglia alla voce di Dio», in quel capitolo, che rivela il suo repubblicanesimo, dove spiega la diversa scansione temporale della virtuosa politica:
E se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti e ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, che gli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che l’ordinano (Discorsi, I, 58, a cura di F. Bausi, t. 1, 2001, p. 284).
In questo capitolo Machiavelli, difendendo le virtù del popolo, palesa un suo atteggiamento costante, «estraordinario», di andare contro la communis opinio, avvalendosi solo delle sue «ragioni». E nella stessa prima redazione del Proemio dei Discorsi, alludendo alla scoperta del Nuovo Mondo, confessa quanto fosse «non altrimenti periculoso» il suo «trovare modi ed ordini nuovi che si fusse cercare acque e terre incognite».
Fedele a tale sfida, Machiavelli svolge, in Discorsi, I, 4, una tesi che avrebbe urticato la sensibilità di molti politici moderati del suo tempo e non solo. La afferma perentoriamente, come un grido di battaglia, sin dalla rubrica: «Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella republica».
L’ex segretario lega in un nodo concettuale insolubile conflitto-libertà-potenza. Contro quanti sostenevano, dall’antichità all’Umanesimo, che la grandezza romana era stata propiziata o dalla fortuna o dall’esercito, nonostante i contrasti civili fra il popolo romano e i patrizi, Machiavelli, capovolgendo specularmente l’assunto teorico, attribuisce la potenza romana proprio a quelle contese. Le dissensioni civili avevano tutelato la libertà nella repubblica romana, perché avevano impedito che una parte sociale dominasse sulle altre. I plebei, grazie alle loro lotte, erano riusciti a condividere il governo della città.
In questo modo, Roma e le sue guerre non erano state qualcosa di estraneo, appannaggio di un ceto dominante, ma erano diventate appunto una res publica. Perciò, la disunione fra plebe e patrizi aveva fatto Roma potente, in quanto su Roma si era riversato l’interesse e il sentimento patriottico del popolo romano, partecipe dei destini della città. Tale era stata la diversità vincente di Roma antica rispetto a Sparta e Venezia, perché queste ultime erano esempi di repubbliche oligarchiche.
La tesi machiavelliana della produttività civile e militare del conflitto civile era sconvolgente non solo per il tradizionale repubblicanesimo fiorentino ispirato da Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, che peraltro era stato incentrato sull’idea di città, mentre quello machiavelliano è rivolto alla conquista imperiale, ma per lo stesso Guicciardini, che nelle Considerazioni sui Discorsi (1529-1530) accusava Machiavelli di avere confuso la malattia di Roma antica per la causa della sua grandezza. Ma lo sarebbe stato ancora di più per la scienza politica moderna influenzata dall’automa statale hobbesiano. Il Leviatano nasce nel momento in cui tace il conflitto, il bellum omnium contra omnes. Il principe machiavelliano non ha questa pretesa nichilistica. Sarebbe un operare vano. A distinguere Machiavelli da Hobbes è anche l’opzione di Niccolò per il governo misto.
Ma anche in questo caso Machiavelli si distanzia sia dalla tradizione sia dai contemporanei. Per Machiavelli, bisogna rifuggire dal giusto mezzo, che è una scelta inefficace e controproducente, come si era dimostrato drammaticamente per Firenze e per la sua storia personale quando la Repubblica non aveva preso né un atteggiamento a favore né contro la Lega santa, preferendo la neutralità. Il governo misto machiavelliano non collima con lo ‘stabile equilibrio’ polibiano né con la mesótes aristotelica, che si concretizza nella medietas etica e nella funzione armonizzante del ceto medio. Su tale archetipo aristotelico si basa la riflessione politica fiorentina, da Savonarola a Donato Giannotti ad Antonio Brucioli, che aveva conosciuto Machiavelli ai tempi della frequentazione degli Orti Oricellari.
Per Machiavelli la res publica deve adeguarsi alla perenne mutatio rerum ed è una mera chimera la concordia ordinum, il bilanciamento armonico, la predilezione etico-civile per il centro. Lo stesso Guicciardini resta all’interno di questa logica, individuando nel governo dei ‘savi’, ossia degli esperti e prudenti e moderati (non necessariamente ottimati), il timone dell’euritmia ammininistrativo-istituzionale. Per Guicciardini, indulgere al conflitto significa aggiungere alla già travagliata congiuntura politico-militare delle «guerre d’Italia» anche una «guerra» intestina. Occorre una «cura» contrastiva: per quanto è possibile, una quiete interna opposta alla tempesta esterna. Machiavelli, invece, che fa delle guerre d’Italia l’epifania del divenire eracliteo che sempre caratterizza il mondo storico, appresta una cura ‘omeopatica’. Al conflitto si reagisce non con una narcosi, ma preservandolo e rendendolo virtuoso.
Le Istorie fiorentine sono impostate (e questa è la novità della sua storiografia rispetto a quella di Bruni e Poggio Bracciolini, incentrata sulla politica estera) sulle lotte tra fazioni nella città e sulla divaricazione fra l’exemplum romano e l’anti-modello della sua Repubblica. Nell’antica Roma, sostiene Machiavelli, il conflitto era stato virtuoso, perché non era stata una contesa ad excludendum, così come a Firenze, ma volta ad ampliare la partecipazione al potere. A Firenze si risolveva nel sangue; a Roma nella legge.
Anche Roma, ormai diventata padrona del Mediterraneo, osserva Machiavelli nei Discorsi, era precipitata nel conflitto vizioso quando le lotte per la legge agraria avevano disgregato la compagine sociale, tanto da concludersi solo con la fine della Repubblica e l’instaurazione del principato. Ma questa era l’aporia implicita nel discorso machiavelliano. La libertà e la potenza romana, propiziate dal conflitto virtuoso, avevano avuto come fine proprio quell’espansionismo che avrebbe minato le virtù civili del popolo romano.
A Firenze, nel giudizio di Machiavelli, le leggi non erano fatte per il «bene comune», ma per il bene della fazione prevalente. Le leggi, nell’ottica machiavelliana, assumono una rilevanza basilare in quanto rappresentano la garanzia della libertà interna della città, che ne consente l’esprimersi della potenza all’esterno. Infatti, affinché il conflitto esprima la sua energia virtuosa, è necessaria un’unità politica che, per Machiavelli, è costituita da armi, leggi e religione.
Le armi sono una preoccupazione costante nel pensiero di Machiavelli fin dal tempo del segretariato. È in questi anni, grazie all’esperienza sofferta davanti alle mura di Pisa, che Niccolò matura la consapevolezza del legame fra crisi politica e crisi militare.
Come nelle altre opere machiavelliane, così nei libri dedicati all’arte militare, che sono un dialogo fra i protagonisti degli Orti Oricellari e il grande capitano rinascimentale, Fabrizio Colonna (il quale svolge la funzione di esprimere le idee dell’autore avvalorandole con la propria autorevolezza), vige l’esemplarità romana, anche a costo di sottovalutare novità e aspetti determinanti delle guerre moderne: ad es., l’artiglieria e il denaro. A Machiavelli l’arte militare non interessa quale mera tecnica, ma in quanto è coimplicata con la politica e come quest’ultima deve essere regolata da «buoni ordini» e leggi.
La legge e la politica, per Machiavelli, non si basano su alcun fundamentum: né metafisico (la Giustizia, le Idee platoniche, anche se il filosofo ateniese aveva avuto la consapevolezza dell’incommensurabilità fra realtà politica e filosofia, e per questo riguardo, al di là dell’estraneità da parte di Niccolò al neoplatonismo fiorentino, possono riscontrarsi punti di convergenza con la constatazione machiavelliana della irriducibilità degli avvenimenti storici a postulati ideali), né etico-naturale (la polis quale entelechia della physis umana), né teologico (l’inquadramento della politica in un ordine divino).
È questo il vero scandalo dell’opera machiavelliana. La legge nasce non da un decalogo, non da un’ispirazione profetica, non da una concezione teorica, ma dagli stessi «accidenti», dagli stessi «casi» della vita umana, nel flusso violento e minaccioso e irrequieto delle vicende umane.
La stessa religione, dalla specola machiavelliana, non ha alcun avallo trascendente. A Machiavelli la religione non interessa come fede, come rapporto intimo fra l’uomo e Dio, come sentimento religioso: tutto questo esorbita dalla sua ottica ‘ossessionata’ dalla «verità effettuale della politica». La religione è pertinente al suo discorso perché costituisce l’indispensabile sostegno etico della vita civile. L’avevano dimostrato i tanto amati, da Machiavelli, antichi Romani.
Riflettendo su di essa, su quanto fosse stata importante a «inanimire» i soldati in guerra, a trattenerli dalla fuga e a inchiodarli sul posto di combattimento dinanzi al rischio della morte per non incorrere nel castigo divino, a indurli a non infrangere il sacro giuramento, a «fermare i tumulti», Machiavelli attribuisce alla religione due accezioni, inscindibili fra di loro: «timore di Dio», etica civile.
Nelle pagine machiavelliane sulla religione ricorrono spesso le locuzioni «timore di Dio», «paura di Dio», «sbigottimento». La religione, per rievocare la famosa definizione del teologo e filosofo delle religioni Rudolf Otto (1869-1937), è, per Machiavelli, mysterium tremendum. Questo legame terribile fra Dio e l’uomo è, nello stesso tempo, anche il vincolo che associa gli appartenenti di una res publica, il patrimonio di costumi, riti, cerimonie. Costituisce, appunto, l’ethos di un popolo.
Come per il conflitto civile e per l’arte militare, così per la religione, Machiavelli conserva il suo giudizio a favore dell’Antico contro il Moderno. La valutazione della moderna religione implica nella pagina machiavelliana una duplice posizione: quella verso la Chiesa romana e quella nei confronti del cristianesimo. La condanna nei riguardi della Chiesa pontificia è inappellabile.
La condanna concerne sia le conseguenze etiche dei comportamenti della Chiesa di Roma sia il suo ruolo nelle vicende politiche italiane. In entrambi i casi, non ci sono dubbi. La Chiesa, se si esclude la sua probità primitiva, aveva privato l’Italia di un legame morale e civile. La sua corruttela (è un giudizio condiviso da Guicciardini e dalla maggior parte degli umanisti) era stata la principale causa della mancanza di una coscienza etica del popolo italiano. Dal punto di vista politico, e Machiavelli avrebbe ribadito le sue tesi nelle Istorie fiorentine, la Chiesa era stata altrettanto nefasta, perché, chiamando in suo aiuto i principi stranieri, aveva impedito che si formasse un’unità italiana grazie all’azione di un principe egemone, come era accaduto, ad es., nella vicina Francia.
Se la valutazione machiavelliana sulla Chiesa è inequivoca, non altrettanto può dirsi per quella nei confronti del cristianesimo. Certamente Machiavelli assume atteggiamenti dottrinali eterodossi come quando, in Discorsi, II, 5, sostiene, seppur con cautela, una tesi sulfurea di ascendenza averroistica, l’eternità del mondo. Per giunta, egli declassa il cristianesimo a una delle tante «sette» succedutesi nella storia. Ancora, addebita al cristianesimo l’avvilimento dell’eroismo antico, avendo rivolto l’attenzione degli uomini verso l’aldilà piuttosto che verso l’impegno nella vita civile. Tuttavia, lo stesso Machiavelli, sempre nei Discorsi, complica il suo discorso, precisando:
La quale religione, se ne’ principi della republica cristiana si fusse mantenuta secondo che da il datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane più unite, più felici assai che le non sono: né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quegli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quegli, giudicherebbe essere propinquo sanza dubio o la rovina o il fragello (Discorsi, I, 12, cit., t. 1, pp. 85-86).
L’errore era scaturito da un’esegesi ‘quietistica’ del cristianesimo, che aveva indotto gli uomini a deporre le loro virtù eroiche e patriottiche. Machiavelli riteneva che la ragione, per la quale nei suoi tempi si amava meno la libertà e la patria che non nell’antichità, dipendeva da una concezione del cristianesimo dovuta alla
viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio, e non secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci promette l’esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiamo e l’onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere (Discorsi, II, 2, cit., t. 1, p. 319).
Questo richiamo machiavelliano alle origini è del tutto diverso da quello delle correnti rinnovatrici della Chiesa cattolica – per non parlare della Riforma che esplode proprio negli anni di stesura dei Discorsi – le quali rivendicano una restaurazione della purezza primigenia. Nelle pagine di Machiavelli si delinea, invece, un cristianesimo more romano, senz’altro differente dall’evangelismo che proprio in quegli anni si andava diffondendo in Europa.
È un ‘cristianesimo civile’, del quale era stato esempio Savonarola. Machiavelli, modificando, nel Principe e nei Discorsi, il suo atteggiamento negativo nei confronti del frate, apprezza «la dottrina, la prudenza e la virtù dello animo suo», pur censurandone il suo essere stato «profeta disarmato» (ma perché non aveva potuto, non avendo assunto cariche politiche, non perché non aveva saputo, come il pavido Soderini) e di non avere, per mero interesse di parte, fatto rispettare la legge, dallo stesso domenicano patrocinata e fatta approvare, sull’appello dei condannati a morte al Consiglio maggiore. In questo modo Savonarola, agli occhi di Niccolò, aveva posto in una contraddizione esiziale due pilastri dell’unità politica: legge e religione.
Eppure Machiavelli, che non può certo illudersi in una rinascita del paganesimo antico che soppianti tanti secoli di storia e tanto meno accredita la teologia politica del frate dal quale lo separa una sensibilità e un modus vivendi antitetici, valuta in Savonarola l’esempio di un principe nuovo, che aveva voluto profondamente rinnovare e vivificare la coscienza etica civile dei fiorentini, interpretando il cristianesimo non secondo l’«ozio», ma secondo virtù e patriottismo.
L’opera di Machiavelli nel corso dei secoli, pur essendo sempre letta e discussa, ha avuto i suoi picchi di fortuna e di sfortuna nelle epoche più drammatiche della storia europea: dalle guerre di religione in Francia (gesuiti e ugonotti), all’età barocca e alla formazione dello Stato moderno (il dibattito su ragion di Stato, tacitismo e assolutismo), all’Illuminismo e al repubblicanesimo di Jean-Jacques Rousseau, alle guerre napoleoniche (da Vincenzo Cuoco a Ugo Foscolo a Johann Gottlieb Fichte a Georg Wilhelm Friedrich Hegel), al 1848 (Giuseppe Ferrari), all’età risorgimentale e postrisorgimentale in Italia (Francesco De Sanctis, Pasquale Villari) sino, in modo più acuto, al periodo fra la Prima e la Seconda guerra mondiale.
In quei tragici decenni del Novecento, Machiavelli fu interpretato per tentare di decifrare gli straordinari sconvolgimenti politici e culturali, nei quali insorsero nuovi mostri politici, i regimi totalitari, dei quali, del tutto surrettiziamente o con esegesi molto forzate, l’opera machiavelliana fu ritenuta l’archetipo, sia per avvalersene quale malleveria, come fece Benito Mussolini, sia per imputarle una responsabilità morale.
Ma quali sono i fuochi concettuali che Machiavelli ha lasciato in eredità alla cultura moderna europea e che, soprattutto nel 20° sec. e ancora in questi decenni, attraggono come potenti calamite categoriali la riflessione politica? Essenzialmente tre. Innanzi tutto, Machiavelli ha svelato, come nessun altro, che l’agire umano, quando necessità tragiche lo impongono, non può essere puro e incontaminato per conseguire e realizzare il bene comune. È il tema del rapporto fra politica e morale o, se si preferisce, della ‘demonicità’ della politica che, da Benedetto Croce a Friedrich Meinecke a Gerhard Ritter, ha attirato l’attenzione delle menti più sensibili alle tragedie che l’Europa stava patendo. Una relazione fra politica e morale che però implica nella prospettiva machiavelliana una eticità, una nobiltà della politica, una tensione fra «etica della responsabilità» ed «etica della convinzione».
L’altro fuoco concettuale fondamentale nella grande ricezione di Machiavelli è, appunto, la tensione fra conflitto e unità. Essa dev’essere preservata nella sua bipolarità, senza privilegiare un aspetto a discapito dell’altro, se si vogliono evitare illusorie soluzioni ‘nichilistiche’ o pericolosamente disgregatrici.
E, infine, una grandiosa figura ossimorica: il mito del centauro, ossia il principe nuovo, la fondazione e rifondazione degli Stati. È il terribile momento politico, quello della gloria o della dannazione, della creazione del Nuovo, dell’inedito, che si impone con tutta la sua drammaticità ogni volta che si vivono epoche di intensa crisi, morale, politica e sociale.
Le citazioni nel testo, con l’indicazione di capitolo e paragrafo, sono tratte dai volumi che fanno parte dell’Edizione nazionale delle opere machiavelliane iniziata nel 2001:
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, 2 tt., Roma 2001.
L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001.
Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, Roma 2002-2012 (t. 1, 1498-1500, a cura di J.-J. Marchand, 2002; t. 2, 1501-1503, a cura di D. Fachard, commento a cura di E. Cutinelli-Rèndina, 2003; t. 3, 1503-1504, a cura di J.-J. Marchand, M. Melera-Morettini, 2005; t. 4, 1504-1505, intr. e testi a cura di D. Fachard, commento a cura di E. Cutinelli-Rèndina, 2006; t. 5, 1505-1507, a cura di J.-J. Marchand, A. Guidi, M. Melera-Morettini, 2008; t. 6, 1507-1510, a cura di D. Fachard, E. Cutinelli-Rèndina, 2011; t. 7, 1510-1527, a cura di J.-J. Marchand, A. Guidi, M. Melera Morettini, 2012).
Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Roma 2006.
Istorie fiorentine. Vita di Castruccio Castracani da Lucca, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, Roma 2011.
Si vedano inoltre:
Lettere, a cura di F. Gaeta, Torino 1984, rist. 2000.
Opere, 3 voll., a cura di C. Vivanti, Torino 1997-2005.
B. Croce, Machiavelli e Vico, in Id., Etica e politica, Bari 1945, pp. 250-56.
R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, 7a ed. riv. e accresciuta, Firenze 1978.
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, 2° vol., Torino 1958, pp. 555-619.
G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Storia del suo pensiero politico, Napoli 1958; 2° vol., La storiografia, Bologna 1993.
F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964.
F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, Princeton (NJ) 1965 (trad. it. Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970).
E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972.
J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512): nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975.
J.G.A. Pocock, The machiavellian moment. Florentine political thought and the Atlantic republican tradition, Princeton 1975 (trad. it. Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 2 voll., Bologna 1980).
C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980.
Q. Skinner, Machiavelli, Oxford 1981 (trad. it. Milano 1982, Bologna 1999).
R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli 1984.
G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1987-1997.
G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995 (ed. riv. e aggiornata degli Studi sulla fortuna di Machiavelli, Roma 1965).
E. Cutinelli-Rèndina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma 1998.
F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005.
G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006.
G. Inglese, Machiavelli Niccolò, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2007, ad vocem.
A. Gramsci, Il moderno principe, a cura di C. Donzelli, Roma 2012 (1a ed. in Id., Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino 1949).
G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.
Su Francesco Vettori:
R. von Albertini, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it. Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970).
R. Devonshire Jones, Francesco Vettori: Florentine citizen and Medici servant, London 1972.
J.M. Najemy, Between friends. Discourses of power and desire in the Machiavelli-Vettori letters of 1513-1515, Princeton 1993.
Storici e politici fiorentini del Cinquecento, a cura di A. Baiocchi, S. Albonico, Milano-Napoli 1994, pp. 435-525, 1043-45.
Si veda inoltre l’edizione critica curata da Enrico Nicolini, Scritti storici e politici, Bari 1972.
Nacque a Firenze l’8 novembre del 1474 da Piero e da Caterina Rucellai. Da parte sia di padre sia di madre, dunque, apparteneva al ceto ottimatizio fiorentino e a tale ascendenza familiare restò fedele, esprimendo nei suoi scritti un’ideologia aristocratica profondamente avversa al popolo, ritenuto impreparato, incapace e pericoloso. Risulta, quindi, estraneo al tradizionale repubblicanesimo fiorentino e al suo concetto di florentina libertas, consistente non solo nell’indipendenza della città e nell’uguaglianza di fronte alla legge, ma anche nella partecipazione popolare alle decisioni pubbliche. Fu altresì poco sensibile al classicismo umanistico così come al paradigma romano, imperante, invece, con la notevole esclusione di Guicciardini, nei ragionamenti politici dei suoi concittadini. Palesò, e tale inclinazione psicologica si aggravò nel corso degli anni, un atteggiamento disilluso, melanconico e senza entusiasmi, per il quale non giudicava le vicende politiche secondo le tradizionali categorie storiche di libertà e di tirannide, ma valutava esclusivamente l’interesse del proprio ceto e la bontà o meno del principe.
Il suo primo incarico politico rilevante fu l’ambasceria presso l’imperatore Massimiliano, che l’ottimate svolse dal 1507 al 1509 e durante la quale conobbe e apprezzò Machiavelli. Da tale missione diplomatica nacque il Viaggio in Alemagna, diario intercalato da novelle e aneddoti, in cui manifesta doti non trascurabili di narratore.
Dopo la caduta della Repubblica e il breve e fallimentare tentativo di instaurare un regime oligarchico egemonizzato dagli ottimati, Vettori fu decisamente filomediceo, divenendo uno dei più fidati consiglieri del giovane Lorenzo. Alla prematura morte di questi, nel maggio del 1519, scrisse un affettuoso ritratto del giovane principe, illustrando le sue tesi politiche di un regime mediceo, rispettoso delle forme repubblicane, ma sostanzialmente regolato e guidato dagli aristocratici. Fu questa la linea politica che propose anche al secondo papa mediceo, Clemente VII, quando nuovamente fu ambasciatore a Roma. Ma il pontefice, inviando a Firenze il cardinale Silvio Passerini, optò per un regime più decisamente controllato dai Medici.
Avvicinatosi poi alle posizioni antimedicee del carissimo amico Filippo Strozzi, attraversò con sempre maggiore disincanto le convulse vicende politiche della restaurazione, dopo il sacco di Roma, della Repubblica a Firenze, nella quale, chiusa la parentesi moderata, si affermò un radicalismo repubblicano che lo indusse a ritornare sotto l’ala protettrice del papa mediceo. Compose nel 1527 il Sommario della storia d’Italia dal 1511 al 1527, in cui narrava gli eventi in una prospettiva europea e propendeva al fatalismo, evidenziando il dominio della fortuna sulla virtù. In quest’opera confermava il suo animo estraneo a ideali etico-civili, che caratterizzò anche un suo dialogo sul sacco di Roma.
Dopo la fine della Repubblica, nei Pareri (richiesti dal papa a lui, così come ad altri esponenti di rilievo della politica fiorentina, sul futuro assetto costituzionale della città) sostenne un deciso rafforzamento del potere mediceo al di là del paradigma costituito dal moderatismo degli archetipi quattrocenteschi della famiglia, Cosimo e Lorenzo il Magnifico. Tesi che mantenne con il duca Alessandro e ancor più con l’avvento del regime assolutistico di Cosimo, del quale aveva patrocinato l’elezione dopo l’assassinio di Alessandro, ormai consapevole della necessità di un forte e inequivoco principato mediceo non più arginabile dagli ottimati. Morì a Firenze nel 1539.