MENGHINI, Niccolò
– Nacque a Roma nel 1610. Non esiste alcuna biografia che permetta di ricostruire la formazione del M., molto probabilmente avvenuta nell’orbita di Gian Lorenzo Bernini, con il quale collaborò in numerose occasioni. I documenti attestano che già nel 1632 era al servizio della famiglia Barberini, in particolare presso il cardinale Francesco, suo protettore e mecenate per l’intero arco della carriera, svolgendo l’attività di restauratore e curatore della raccolta di scultura antica e moderna.
Fu il M. a compilare l’inventario della collezione per il periodo 1632-40, nel corso del quale risulta che risarcì una statua raffigurante il fiume Nilo e un ritratto di Scipione l’Emiliano e acquistò una statua di Diana sul mercato. Al 1633 risalgono i pagamenti per «n.o 14 sgabelloni di marmo bianco con sua base e cimase simili p. tenervi sopra statue» (Magnanimi) nella sala ovale di palazzo Barberini, la prima collaborazione documentata con Bernini. Tra il 1633 e il 1645 compare come procuratore nella lista delle statue acquistate per conto del cardinale Francesco Barberini e viene citato esplicitamente, tra gli altri, nei casi di «una Diana ed un torso […] 4 pezzi di marmo, una statua ed un bassorilievo con amazzone […] trasporto di due figure, che stanno a giacere insieme» (Aronberg Lavin).
Nel 1635 terminò la statua giacente della S. Martina, conservata sotto la mensa dell’altare della chiesa dei Ss. Luca e Martina. Anche in questo caso fu determinante l’intervento del suo protettore, che finanziò i lavori di ricostruzione dell’edificio, avvenuti, per volontà di Urbano VIII, in seguito alla scoperta delle reliquie della santa. Pietro Berrettini da Cortona fu l’architetto a capo dell’impresa e molto probabilmente fornì anche il disegno per la scultura.
Ispirata alla S. Cecilia di Stefano Maderno e in linea con altre immagini seicentesche di martiri, dalla S. Anastasia di Francesco Aprile, terminata da Ercole Ferrata, al S. Sebastiano di Giuseppe Giorgetti, la giovane è raffigurata nel momento in cui si è appena compiuto il supplizio, con il capo reciso dal corpo appoggiato a un’urna e l’espressione imperturbata del volto. Già a questa data appaiono compiutamente espresse alcune delle caratteristiche peculiari dello stile del M.: la resa di corpi massicci e tondeggianti, l’uso di un panneggio dalle pieghe ridondanti e delle linee prodotte dall’ombra in funzione disegnativa. L’originalità della concezione contrasta con l’inadeguatezza dell’esecuzione, con il risultato di una scultura statica, goffa in alcuni passaggi (si veda in particolare il roteare delle braccia). Presso il Museo del Palazzo di Venezia a Roma è conservato il modesto bozzetto in terracotta. Il M. probabilmente supervisionò anche l’esecuzione del «bellissimo vaso di porfido coperto di piombo» (Noehles, p. 100) con le spoglie della santa e del sarcofago degli altri martiri che vennero posti nella cripta della chiesa.
Nel 1636 venne scolpito il bassorilievo dell’Angelo col sudario per una delle nicchie delle reliquie nella basilica di S. Pietro, in corrispondenza della S. Veronica di Francesco Mochi.
Questo intervento, diretto da Bernini che fornì i disegni, si inquadra all’interno della campagna di ammodernamento e riqualificazione della crociera della chiesa, iniziata sotto il pontificato di Paolo V e terminata con quello di Urbano VIII, che aveva come fine quello di far diventare la tomba dell’apostolo Pietro centro spirituale e liturgico. Per questo motivo non solo venne realizzato il baldacchino, ma furono ricavate quattro nicchie nei pilastri, al cui interno vennero inserite la S. Elena di Andrea Bolgi, il S. Andrea di François Du Quesnoy, il S. Longino di Bernini (che fornì i modelli per le statue), la S. Veronica di Mochi, in corrispondenza delle reliquie di quei santi. L’insieme andava a incorniciare la tomba di Pietro e si legava a essa come al baldacchino tramite una raffinata serie di rispondenze formali e simboliche ordinate da un complesso programma iconografico. Il bassorilievo del M. ispirato, nella figura dell’angelo al centro, alle Vittorie della scultura romana, si contraddistingue per l’efficacia con cui vengono resi gesti ed espressioni, chiaramente visibili anche a grande distanza, per la maestà della figura principale, la cui monumentalità non viene a turbare il senso di movimento globale, per il rigore del disegno; il M. passa con grande maestria dal bassorilievo al tutto tondo, sfruttando il contrasto cromatico tra il bianco delle figure e lo sfondo marmoreo che le fa risaltare, accentuando lo svolgersi cadenzato dell’azione. L’opera può considerarsi il capolavoro del M., e probabilmente ciò è dovuto al fatto che si basa sul disegno concepito da Bernini.
Nel 1639 gli furono consegnate per essere restaurate alcune statue trovate a Ostia: un «agricoltore che uccide un toro», una «statua a sedere», un «torso ignudo senza gambe e braccia» (Aronberg Lavin). Nel 1640 è documentata la sua partecipazione all’allestimento della festa delle Quarantore per la chiesa del Gesù, di cui progettò l’apparato effimero, documentato da un’incisione di Giovanni Francesco Grimaldi.
L’orazione delle Quarantore, una cerimonia durante la quale l’eucarestia veniva esposta al clero e ai fedeli appunto per quaranta ore, fu una delle funzioni più importanti della Chiesa della Controriforma. Nata a Milano, venne portata a Roma intorno al 1550 da Filippo Neri, dove nel corso del Seicento divenne una delle feste più popolari. Il sontuoso teatro del M. era «di altezza di palmi cento ventidue, e di larghezza ottanta» ed «era illuminato da più di quaranta mila lumi, dè quali né pur uno agl’occhi dei riguardanti si manifestava» (Fagiolo Dell’Arco - Carandini, I, p. 120). Quattro statue di grandi dimensioni, poste all’esterno del palco e raffiguranti il Re David ed Elia sulla destra, Melchisedech e Sansone sulla sinistra, introducevano alla scena principale in cui erano rappresentati tre episodi della vita di Mosè: al centro, la discesa dal monte Sinai con le tavole della legge; a destra, il miracolo dell’acqua fatta sgorgare da una roccia; a sinistra, la caduta della manna. Nella zona superiore il M. aveva posto una scena tratta dall’Apocalisse di Giovanni, dove si scorgevano «ventiquattro vecchioni», cherubini, anime beate, e «tre grandi e bellissimi angeli con le braccia alzate unitamente sostenere il bell’ostensorio del Santissimo Sacramento» (ibid., p. 122). L’apparato fu uno dei più ricchi, complessi e innovativi di tutto il secolo, al punto che la critica ne ha attribuito, seppure ipoteticamente, il progetto allo stesso Bernini.
L’incisione fu dedicata al cardinale Francesco Barberini, che certamente intervenne di persona per favorire il M., come fece nuovamente nel 1642, anno a cui risale un pagamento allo scultore per un bassorilievo, andato distrutto, con Cristo morto e angeli per la chiesa di S. Lorenzo in Damaso (Schiavo, p. 99), per la quale progettò anche gli apparati della festa delle Quarantore. Quest’intervento faceva parte di un più vasto piano di ristrutturazione della chiesa che vide coinvolto anche Bernini.
Nel 1646 il M. venne chiamato al Gesù per un ulteriore apparato della cerimonia delle Quarantore, forse ancora più spettacolare del precedente, documentato da un’incisione di D. Barrière.
Nella parte inferiore dell’allestimento mise in scena l’esodo, con il passaggio del Mar Rosso: a sinistra, l’esercito del faraone è travolto dalle acque; sullo sfondo, gli Ebrei alzano le braccia al cielo in segno di ringraziamento. Nella parte superiore pose una gloria d’angeli tra le nubi e al centro, immerso in una luce abbacinante, l’ostensorio del Ss. Sacramento. Questo teatro, pur essendo simile nella composizione a quello del 1640, se ne distacca per il maggiore dinamismo, l’importanza conferita ai gesti e alle espressioni dei personaggi, il rilievo dato alla rappresentazione di un unico evento biblico.
Tra il 1647 e il 1649 il M. si trovò a operare nuovamente alle dipendenze di Bernini nella basilica di S. Pietro, modellando in stucco le allegorie della Castità e della Fede per gli arconi della navata centrale.
La decorazione, iniziata nel 1600, sotto il pontificato di Clemente VIII, con gli interventi di Ambrogio Bonvicino (Carità, Fede) e Camillo Mariani (Giustizia, Fortezza), venne interrotta in seguito ai lavori per la nuova basilica petriana e fu ripresa sotto il pontificato di Innocenzo X. Bernini sovrintese all’opera e fornì i disegni per le sculture, eseguite da varie personalità della sua cerchia: a Bolgi spettano le allegorie della Chiesa e della Giustizia divina, a Domenico Prestinari la Pazienza, a Bartolomeo Cennini l’Obbedienza, a Giovan Battista Morelli l’Innocenza, a Lazzaro Morelli la Pace, a Domenico e Giovan Francesco De Rossi la Carità, al solo Giovan Francesco De Rossi la Forza, a Giacomo Antonio e Cosimo Fancelli la Clemenza e la Contemplazione. L’intervento del M. si contraddistingue per la forza delle figure, che insistono sulle cornici e sembrano a malapena essere contenute nello spazio a disposizione, e per la ridondanza dei panneggi, sorretta dal rigore del disegno. Contemporaneamente il M. fu impegnato, insieme con altri scultori, nella decorazione dei pilastri della navata centrale, con i ritratti dei papi inseriti in medaglioni sorretti da putti.
Agli anni Sessanta risale la decorazione in marmi policromi della cappella della Madonna nella chiesa di S. Rocco.
La scultura a mezzo busto del S. Sebastiano per l’omonima chiesa romana non è databile con precisione, ma è attribuibile con certezza al M. in quanto è citata in un inventario del 1692 del cardinale Carlo Barberini (Lavin, Five…). La committenza si deve nuovamente al cardinale Barberini, responsabile della ristrutturazione della cappella del santo, supervisionata da un altro suo protetto, Ciro Ferri. L’opera palesa la dimestichezza del M. con la statuaria classica, sia nel taglio scelto per il busto e le braccia sia nell’estrema levigatezza del marmo, lavorato in modo uniforme. È come se fosse intervenuto su un’opera antica, ammodernandola.
Pope-Hennessy gli attribuisce la Pietà di Michelangelo un tempo a Palestrina e oggi all’Accademia di Firenze.
Il M. morì a Roma nel 1665.
Fonti e Bibl.: F. Martinelli, Roma ornata dall’architettura, pittura e scultura (1660-63 circa), in Roma nel Seicento, a cura di C. D’Onofrio, Firenze 1969, p. 78; F. Titi, Nuovo studio di pittura scoltura ed architettura nelle chiese di Roma (1721), a cura di B. Contardi - S. Romano, Firenze 1987, pp. 29, 113, 207; O. Pollak, Die Kunsttätigkeit unter Urban VIII, I, Wien 1928, pp. 3, 164; II, ibid. 1931, pp. 449-501; R. Suboff, in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, Leipzig 1930, p. 389; A. Riccoboni, Roma nell’arte: la scultura nell’Evo moderno dal Quattrocento ad oggi, Roma 1942, pp. 189 s.; A. Schiavo, Il palazzo della Cancelleria, Roma 1964, pp. 99, 103; J. Pope-Hennessy, Essays on Italian sculpture, London 1968, pp. 105-114; I. Lavin, Bernini and the crossing of St. Peter’s, New York 1968, p. 230 n. 53; Id., Five new youthful sculptures by Gian Lorenzo Bernini and a revised chronology of his early works, in The Art Bulletin, L (1968), p. 230; K. Noehles, La chiesa dei Ss. Luca e Martina nell’opera di Pietro da Cortona, Roma 1969, pp. 100 s. n. 198, 182, docc. 35, 54 s.; J. Montagu, Antonio and Giuseppe Giorgetti: sculptors to cardinal Francesco Barberini, in The Art Bulletin, LII (1970), p. 288 n. 85; M.S. Weil, The devotion of the Forty Hours and Roman Baroque illusions, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXXVII (1974), pp. 232-235; M. Aronberg Lavin, Seventeenth-century Barberini documents and inventories of art, New York, 1975 s.v.; G. Magnanimi, Palazzo Barberini, la sala ovale, in Antologia di belle arti, I (1977), p. 30 n. 6; M. Fagiolo Dell’Arco - S. Carandini, L’effimero barocco: strutture della festa nella Roma del Seicento, I, Roma 1977, pp. 120-122, 150-152, 286; II, ibid. 1978, pp. 10, 33, 197, 392, 425; R. Wittkower, Bernini, Milano 1990, p. 198; M.G. Barberini, Scultura in terracotta del barocco romano, Roma 1991, p.35; J. Montagu, La scultura barocca romana: un’industria dell’arte, Torino 1991, pp. 178, 187; H. Tratz, Die Ausstattung des Langhauses von St. Peter unter Innozenz X, in Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana, 1991-92, nn. 27-28; O. Ferrari - S. Papaldo, Le sculture del Seicento a Roma, Roma 1999, pp. 88, 148, 190, 192, 395, 509, 542, 546, 550.
A. Agresti