MONTENEGRO, Niccolo
MONTENEGRO, Niccolò. – Sesto di otto figli, nacque ad Andria, in provincia di Bari, il 20 marzo 1839 da Giuseppe e da Antonia Attimonelli.
Il padre, dopo un primo impiego come ricevitore di registro e bollo, fu nominato esattore di fondiaria; il fatto di essere un dipendente pubblico non gli impedì di militare nelle file dell’opposizione al regime borbonico, prolungando un’esperienza che risaliva al 1820 quando, giovanissimo sottotenente, si unì ai rivoltosi che chiedevano la costituzione. Stando al necrologio che gli dedicò nel 1871 la nuora Antonietta Tassi (La Roma del Popolo, n. 26, p. 208), dopo essere stato capitano della guardia nazionale, nel 1848 fu schedato come attendibile e nel 1855 finì in carcere per un non meglio specificato episodio di «prepotenza episcopale».
Cresciuto in questo clima, Montenegro si appassionò sin da giovane agli ideali di libertà, particolarmente sentiti nel Regno meridionale all’indomani del 1848. Mentre studiava giurisprudenza a Napoli, avvicinatosi ai gruppi di giovani che gravitavano attorno al Comitato segreto in cui erano presenti personaggi come Giuseppe Fanelli e Nicola Mignogna, visse i giorni dell’attentato di Agesilao Milano e seguì da vicino le vicende della spedizione di Sapri e la sua tragica conclusione. Politicamente andò oltre il padre e, avvalendosi anche delle conoscenze fatte all’università, aderì con decisione al mazzinianesimo, assorbendone con entusiasmo i principi, l’orientamento politico, l’attenzione per il problema religioso, lo spirito d’apostolato rivolto ai giovani e al popolo.
Fu proprio il rapporto tra cristianesimo e rivoluzione, tra riforma religiosa e questione nazionale a polarizzare l’interesse di Montenegro. Su questo aspetto divenne per lui fondamentale la conoscenza dell’opera di Edgar Quinet, che del tema della mancata riforma religiosa aveva fatto una precisa chiave di lettura delle cause della decadenza italiana. Si dedicò all’approfondimento delle sue tesi dopo il 1860, quando prese parte alla spedizione dei Mille aggregandosi al corpo di volontari guidato dal concittadino Federico Priorelli che si accodarono ai garibaldini in risalita dalla Calabria verso Napoli incorporandosi «nel 1° battaglione della brigata “Peucetia” comandata da Liborio Romano » (Tramarollo, 1964, p. 99). Di Quinet e della sua opera maggiore, Les Révolutions d’Italie, esisteva fino ad allora una sola parziale traduzione pubblicata in tre volumetti da F. Costero a Torino tra il 1849 e il 1852. Montenegro ne affrontò e condusse a termine la versione integrale, che apparve a Napoli nel 1863 col titolo Le Rivoluzioni d’Italia di Edgardo Quinet, prima versione italiana di un garibaldino, preceduta da apposita prefazione dell’autore e da un discorso di L.C. Chassin.
Dedicata a Mignogna, l’opera non svelava l’identità del traduttore che comparve solo nella seconda edizione (Lodi 1871; ma in copertina figura 1872) e dopo che egli se l’era attribuita dando alle stampe la Vita di Edgardo Quinet per Carlo Luigi Chassin (Prato 1868; poi Milano 1870). A proposito della seconda edizione, quella di Lodi (un’altra ne seguì a Milano nel 1878), va detto che Montenegro, oltre a dedicarla a Mazzini «maestro e amico mio», fece precedere il testo da un «discorso» di Emilio Visconti Venosta, il ministro degli Esteri della Destra che in gioventù era stato un fervente mazzinano: si trattava in realtà della segnalazione che Visconti Venosta aveva fatto al primo apparire dell’opera nell’Italia del Popolo del 1851, e conteneva passaggi da perfetto repubblicano: «La monarchia nulla può accettare dalla rivoluzione, e noi pure nulla possiamo accettare da essa […] da una parte la menzogna e la prepotenza monarchica, dall’altra il diritto e il sacrifico repubblicano». Riprendendola integralmente Montenegro più che dare sfogo a una meschina ritorsione intendeva richiamare il lettore al dovere della coerenza.
Ai suoi occhi sia Quinet sia Mazzini erano soprattutto due grandi educatori. Appena possibile entrò in relazione con entrambi. Con il pensatore francese stabilì anche un rapporto epistolare che si mantenne in modo non fitto ma regolare dal 1862 al 1875 (per poi proseguire con la vedova di Quinet) e toccò i temi della nascita dell’Italia come nazione, additando il bisogno che la democrazia italiana e quella francese (e dopo il 1870 anche quella spagnola) collaborassero a tenere lontani i due pericoli più seri: il clericalismo e il germanesimo.
Ne fu indotto a proseguire il lavoro di divulgazione della saggistica di Quinet di cui curò e pubblicò in successione altre versioni: Il genio della religione, prima versione italiana preceduta da una lettera dell’autore e da un discorso di M. Aldisio Sammito (Prato 1868); Il Cristianesimo e la Rivoluzione (s.l. 1869); La Repubblica. Condizioni della rigenerazione della Francia (Ravenna 1874, 1875); La rivoluzione religiosa nel sec. XIX (ibid. 1875); I Gesuiti (Milano 1877). Più che gratificato da una così ampia diffusione dei suoi scritti, già nel 1864 il francese non esitava a trovare nel lavoro di Montenegro i pregi della «conscience, précision, fermeté» (Angrisani Guerrini, 1981, p. 147).
Con Mazzini il rapporto fu certamente più intenso sotto il profilo intellettuale e politico ma anche più rado dal punto di vista epistolare. Verso l’Apostolo, ossia verso colui che chiamava il «gran Ligure proscritto » (G. Mazzini, Edizione nazionale degli scritti, LXXXVII, Imola 1938, p. 101), Montenegro ebbe una vera venerazione, ne seguì con passione le ultime iniziative rivoluzionarie ma non sembra che si calasse a pieno nella cospirazione del primo decennio post-unitario. Non per questo si salvò da qualche persecuzione politica volta a rendere la vita difficile a lui e alla famiglia, composta, oltre che dalla moglie Antonietta, da due figli, al primo dei quali aveva imposto il nome di Edgar. Mazzini sapeva di avere in lui «un intelligente scrittore, e fervidamente nostro» (lettera a Nicola Le Piane del 29 aprile 1870, ibid., LXXXIX, 1940, p. 124), ma sapeva anche che era più incline al lavoro di propaganda repubblicana che alle trame antimonarchiche. Fu appunto a un serio e costante impegno di divulgazione dei più intransigenti principî mazziniani che Montenegro si dedicò mettendo a frutto le doti di pubblicista di cui era in possesso. Se ne avvertiva il bisogno soprattutto al Sud, là dove la coscienza nazionale era ancora fragile e le strutture dello Stato avevano maggiore difficoltà a impiantarsi. La sua aspirazione principale come collaboratore di molte testate democratiche (Il Gargano di Foggia, La Riscossa di Catania, Il Popolo d’Italia di Napoli, Il Lucifero di Ancona, e inoltre La Libertà di Pavia e Il Dovere di Genova) fu però quella formativa, attraverso la quale si proponeva di risvegliare nei lettori non solo il valore della cittadinanza ma anche quello delle istituzioni che fossero espressione diretta della volontà del popolo e non fossero sottoposte a nessuna altra forma di sovranità.
A metà 1870 Montenegro raccolse in un opuscolo e ristampò per un editore di Milano alcuni articoli di Mazzini precedentemente apparsi in giornali con il titolo L’iniziativa. Subito dopo, con una lettera del luglio del 1870, Mazzini gli confidò ciò che si aspettava da lui, e cioè che contribuisse a illustrare il principio «nel quale soltanto l’Italia può trovare grandezza, virtù, prosperità, vita vera di popolo e che s’adoprerà a rifare, con un concetto di perenne armonia tra il pensiero e l’azione, l’unità umana smembrata dal materialismo, dal machiavellismo e dal monarchismo» (Tramarollo, 1964, p. 101).
Fedele esecutore di tali indicazioni, Montenegro pubblicò subito dopo, nell’ultimo periodico militante mazziniano, La Roma del Popolo (n. 11, 10 maggio 1871, pp. 95 s.), un articolo su Il piccolo Thiers e la Sinistra dell’Assemblea.
La crisi interna della Francia, seguita alla sconfitta con la Prussia e alla caduta di Napoleone III, vi era spiegata con un’analisi che metteva in primo piano il degrado morale causato dal materialismo e dall’egoismo individualistico a un Paese che non era nemmeno stato in grado di liberarsi da sé di colui che l’aveva oppresso. Partendo da questo esordio di stampo mazziniano Montenegro sviluppava una serie di considerazioni che, lungi dall’assumere i toni apocalittici dei coevi interventi di Mazzini, non condannavano la Comune ma individuavano nel ricorso alla presidenza di Adolphe Thiers, «ultima incarnazione dell’orleanismo », e nella condiscendenza dell’Assemblea legislativa – inclusa la componente repubblicana – le cause di fondo della rivolta con la quale la municipalità parigina aveva sollevato «la bandiera dell’assoluta autonomia».
Il 16 settembre 1875 Montenegro fondò a Barletta La Giovine Italia, giornale popolare educativo. Sotto la sua direzione uscirono 98 numeri animati dal tentativo di mantenere in vita pur dopo la morte di Mazzini i principî più qualificanti della sua dottrina e lo spirito d’associazione che l’aveva contraddistinta. Tenace interprete di una tradizione che nel Mezzogiorno aveva sempre stentato, il giornale, avvalendosi della collaborazione di alcune firme di prestigio, restò in vita fino al 14 ottobre 1877, quando dovette chiudere per insuperabili difficoltà finanziarie, spie di una generale condizione di crisi ma anche dell’orientamento crescente verso forme di militanza più aggressive. Durante il periodo in cui diresse il giornale Montenegro rafforzò i contatti con molti esponenti di punta della Sinistra estrema, sia repubblicana (Aurelio Saffi, Giuseppe Petroni, Maurizio Quadrio, Federico Campanella), sia radicale (Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Ricciardi), il che farebbe pensare a un suo tentativo di contribuire al superamento delle annose divisioni interne della galassia repubblicana. Da Giovanni Bovio, del quale era considerato un allievo, lo aveva invece diviso la scelta – fatta da Bovio dopo l’avvento della Sinistra costituzionale al potere – di accettare l’elezione al Parlamento del Regno.
Morì a Brindisi il 12 maggio 1879 e fu sepolto ad Andria vincendo l’opposizione del clero locale: l’epigrafe posta sulla sua tomba fu scritta da Saffi che il 1° giugno 1881 lo commemorò nel Dovere di Roma con un articolo intitolato Ai patrioti pugliesi.
Fonti e Bibl.: E. Quinet, Lettres d’exil à Michelet et à divers amis, I-IV, Paris 1885, II, pp. 262 s., 413 s.; III, pp. 97 s., 172, 272 s., 351 s.; IV, pp. 24, 74-76, 232 s., 418 s., 473 s., 488 s.; C. Pellegrini, Edgar Quinet e l’Italia, Pisa 1919, ad ind.; B. Croce, Conversazioni critiche, IV, Bari 1932, pp. 172-174; G. Tramarollo, Un giornalista mazziniano: N. M., in Boll. della Domus mazziniana, X (1964), pp. 99-102; P. Cafaro, N. M., in Rass. pugliese, s. 2, I (1966), pp. 524-527; G. Santonastaso, Edgar Quinet e la religione della libertà, Bari 1968, pp. 95-102; G. Brescia, «La Giovine Italia» di N. M. e la stampa politica barlettana nel decennio di Valdemaro Vecchi, in Arch. stor. pugliese, XXVI (1973), pp. 239-245; I. Angrisani Guerrini, Quinet e l’Italia, Genève- Paris 1981, ad ind.; Ed. nazionale degli Scritti di Giuseppe Garibaldi, Epistolario, XIII, 1868-1869, a cura di E. Moscati, Roma 2008, p. 218.