ORSINI, Niccolo
ORSINI, Niccolò (Nicola, Nicolò). – Figlio di Giovan Francesco e di Ersilia Caetani, nacque, forse a Roma, nel 1510.
Nel 1533 sposò Livia Orsini dei conti di Nerola. Conte di Pitigliano, signore di Sorano, Saturnia, Montemerano, intraprese presto la carriera militare. Nel 1538 accompagnò a Fano Pier Luigi Farnese, consorte della zia Girolama. Sotto Paolo III si distinse nella guerra del sale, combattendo contro Ascanio Colonna e nel giugno 1541 si recò a Venezia per trattare il suo passaggio al servizio della Repubblica. Nel 1544 arruolò 2000 fanti nelle sue terre e nello Stato pontificio per passare prima in Toscana e unirsi in seguito alle truppe dei fuoriusciti fiorentini capeggiate da Piero Strozzi. Ferito a Luzzara, si rifugiò a Piacenza e, nel tentativo di unirsi al duca di Enghien, Francesco di Borbone-Vendôme, nel giugno 1544, prese parte alla battaglia di Serravalle Scrivia, salvandosi a Cherasco. Nel 1546 partecipò con Ottavio Farnese e Alessandro Vitelli alle guerre in Germania contro i protestanti, dove insieme con Carlotto Fausto Orsini e Onorio Savelli venne a contatto con le idee riformate. Tornato in Italia, nel 1547 cacciò il padre Giovan Francesco dalla contea imperiale di Pitigliano, poi, passato apertamente alla fazione francese, fece del feudo il centro della difesa di Siena, durante la guerra che vide la fine della Repubblica. Nel 1551 partecipò alla guerra di Parma e, dopo contrasti con Diego de Mendoza, governatore di Siena, si rifugiò in Francia, dove fu insignito da Enrico II dell’ordine di S. Michele. Fra l’estate e l’autunno 1551 partecipò attivamente alla difesa di Siena contro gli ispano-imperiali con la raccolta di truppe e con diretti interventi militari continuando poi, nel 1554 e nel 1555, a sostenere l’esercito francese e i fuoriusciti fiorentini con aiuti finanziari, cavalli e munizioni.
Alla fine della guerra di Siena riparò in Francia, ma fu richiamato a Roma nel 1556 da Paolo IV che gli affidò il comando della cavalleria. Nel 1558, accusato dal papa di eresia, ‘eccessi’ e di aver coniato falsa moneta nella fortezza di Sorano, spacciandola nei territori pontifici, fu imprigionato in Castel S. Angelo per 14 mesi. Fu liberato per l’esplicito intervento del re di Francia. Poiché rimanevano forti contrasti con il padre in merito al dominio nella contea di Pitigliano, il 5 gennaio 1558 Paolo IV, insieme con il duca di Paliano Giovanni Carafa e Camillo Orsini, fece concludere una ‘pace’ fra Orsini e il padre, nella quale Giovan Francesco rinunciava ai suoi beni e il figlio ritirava tutte le accuse contro il genitore, impegnandosi a garantirgli una pensione annua di 1200 scudi e a rendere le doti alle sorelle. Non accettò invece di restituire la rocca di Sorano al duca di Firenze come previsto nella ‘pace’ (Vienna, Haus-Hof und Staatsarchiv, Judicialia latina 400, cc. n. n.).
Nel gennaio 1562, suo figlio Alessandro fece ribellare Pitigliano che acclamò il duca di Firenze come nuovo signore.
Per motivi legati alla situazione politica contingente, Cosimo I non poteva mantenere il possesso della contea e adottò una tattica che di fatto gli assicurava il controllo sui feudi imperiali di Pitigliano e Sorano, limitando il risentimento dell’imperatore Ferdinando I, delle corti spagnola e francese che, altrimenti, nel caso della sua immediata presa di possesso del feudo, avrebbero violato i capitoli della pace di Cateau-Cambrésis del 1559. Cosimo concesse privilegi alla comunità, assumendo la funzione di arbitro e garante delle ‘libertà’ dei sudditi, ma invitò Giovan Francesco a rientrare a Pitigliano, sicuro che le lotte e gli odi familiari avrebbero giocato a suo favore. Palese era l’interesse spagnolo per la contea, confinante con lo Stato dei Presidi, al quale forniva i necessari approvvigionamenti di cereali e bestiami, né Cosimo poteva ignorare la parentela di Orsini con i Farnese, signori dello Stato di Castro direttamente confinante a Sud con Pitigliano, sul quale avevano ripetutamente mostrato i loro appetiti. Nel gennaio 1562 Pio IV, che era poco favorevole a un’espansione del ducato mediceo proprio in quella zona e propenso piuttosto a fare di Pitigliano un feudo della Chiesa, anche per bilanciare la presenza farnesiana su Castro, inviò Gabrio Serbelloni a Pitigliano, «acciò con l’auttorità et caldo di S. Beatitudine levasse i rumori et mettesse quiete et pace dove potesse» (Nuntiaturberichte..., 1903, pp. 7 s.), e propose che sul problema della legittimità del possesso feudale sulla contea si pronunziasse il tribunale della Rota. Parere discorde fu espresso dall’imperatore Ferdinando I, che nominò cinque commissari con a capo Prospero d’Arco per occuparsi del problema. Forse convinto dall’azione diplomatica degli agenti medicei a Roma, Pio IV infine rinunziò a prendere posizione giuridicamente sulla questione e non avanzò né pretese concrete sulla contea, né ostacolò l’azione del duca di Firenze.
La scelta dei vassalli di appellarsi a Cosimo non apparve neppure al papa spontanea e improvvisa e, come notava Carlo Borromeo nella lettera al nunzio Delfino, «li Pitiglianesi mostrano d’haver fatta questa risolutione dopo successa la ribellione, ma la fama suona che la cosa fusse molto prima tramata et conclusa con li ministri del detto Sr. Duca che stanno in Suana lì vicina et forse con S. Ecc.za propria» (ibid.). Cosimo, per mascherare il suo interesse per il territorio ribellatosi a Orsini, giustificava la difesa di Giovan Francesco, padre di Niccolò, e la custodia medicea della contea di Sovana. Il 13 febbraio 1562 fu stipulato a Firenze l’atto di sottomissione della contea a Cosimo e furono approvati i privilegi e le esenzioni già concessi il 16 gennaio precedente.Il 20 febbraio scriveva da Pisa all’imperatore Ferdinando I e, in attesa di una conclusione della «giustitia tra il figliolo et il padre», si presentava come il difensore «questi poveri huomini» di Pitigliano (Bibl. apostolica Vaticana, Chigiano N.II.46, cc. 147r-156v). Intanto, però, aveva fatto istruire un processo inquisitoriale contro Orsini e inviato a Pitigliano Francesco Vinta per proteggere i vassalli, ma in realtà per ottenere un ingrandimento territoriale senza alterare i capitoli della pace di Cateau-Cambrésis.
Iniziarono a Firenze davanti al cancelliere degli Otto di Balia interrogatori di diversi personaggi che avevano servito Orsini o esercitato cariche nella contea: alla negazione iniziale di fatti e misfatti seguirono deposizioni che disegnarono un quadro fosco della condotta del conte, degli abusi di potere, della sua immoralità e dei sacrilegi commessi. Gli interrogatori venivano contemporaneamente condotti a Pitigliano da Vinta e rogati dal notaio della comunità. Il 2 febbraio 1562, poco dopo lo scoppio della rivolta, furono stilati e sottoscritti dalla comunità 35 capi di accusa fondati sulle deposizioni di testimoni passati davanti sia ai magistrati fiorentini sia al commissario ducale nella contea. Alle accuse di numerosi stupri e violenze si sommavano altre riguardanti il tradimento compiuto prima della caduta di Siena col passaggio alla Francia e l’appoggio ai fuoriusciti capeggiati da Piero Strozzi. Si ricordava infatti «che detto Conte l’anno 52 o altro più vero tempo, ancorché fusse feudatario dell’Imperio, fece rebellare li Senesi et li aiutò nella rebellione mandandoci fanteria, denari et vettovaglie e li fece venir alla devotione de’ Francesi et levarsi dalla devotione et obedientia del Re Cattolico et di Carlo quinto et egli si acconciò allo stipendio di Francia» (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, filza 2776, c. 258r). L’uditore di giustizia mediceo Annibale Fabbroni trasmise al duca le testimonianze rese «circa la vita, si può dire così, epicurea, heretica et tirannica del Conte Nicola, per l’agravio della quale, credo, s’io continuassi di essaminare anco tutto un anno intero, che sempre ritroverei nuove et inaudite sue sceleratezze» (ibid., filza 492, c 67r). L’8 marzo 1562 Vinta comunicò a Cosimo di aver dato alle stampe il processo testimoniale «sopra la vita del Conte Nicola»; questi atti – sia gli interrogatori fiorentini, sia il documento con i 35 capi di accusa – furono trasmessi al S. Uffizio. Il tribunale inquisitoriale stilò in 25 articoli una puntuale procedura per esaminare i testi che avevano deposto contro Orsini e che si erano recati a Roma per ribadire le accuse già formulate davanti a Vinta. Ma il comportamento dissoluto e violento, gli abusi contro la popolazione non costituirono per il papa e per i membri della Inquisizione motivo per giustificare una condanna da parte loro, come si auguravano invece i vassalli e lo stesso duca di Firenze. Il 24 ottobre 1562 Giovan Francesco Orsini informava il duca che Pio IV aveva commesso la causa al cardinale Michele Ghislieri, il futuro Pio V, sicuro che questa decisione permettesse di superare tutte le difficoltà. Le divergenze fra Pio IV e Ghislieri si palesarono anche in questo caso, poiché il cardinale pretendeva, per poter procedere, che la causa gli fosse affidata con motu proprio, mentre anche l’ambasciatore fiorentino a Roma si adoperava perché il processo fosse commesso al procuratore fiscale. Lungaggini e cavilli procedurali, pressioni esercitate soprattutto dai cardinali Alessandro Farnese e Granvelle in favore di Orsini sembravano vanificare il ricorso all’Inquisizione come strumento risolutivo della complessa vicenda politica e giudiziaria. Il 20 giugno 1567 negli interrogatori condotti dal fiscale del S. Uffizio le accuse furono puntualmente contestate. Il tribunale dichiarò che il conte non risultava essere eretico, ma solo sospetto in materia di fede. Alla fine di febbraio 1567 Orsini, ancora «mezz’ammalato», si presentò spontaneamente dinanzi al tribunale dell’Inquisizione. Rimase in carcere per oltre un anno, fin quando, il 26 aprile 1568, in un avviso, si dava notizia che «in congregatione dell’Inquisitione fatta giovedi coram Sanctissimo fu trattato di terminare l’imputatione dotte d’heresia alli SS.ri Conti di Pitigliano et Onorio Savello, delli quali si spera bene per l’innocentia loro...» (Bibl. apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1040, c. 399r). Domenica 10 gennaio 1568 «si fece l’abiuratione di 23 inquisiti in la Minerva... il conte Nicola Orsini di Pitigliano abiurò sabato passato con una confessione canonica et generale nel palazzo della inquisitione... et confinato nel loco di Theatini ad arbitrio del Papa et a pagar anco lui 1000 scudi in opere pie» (ibid., c. 473v). Da parte fiorentina si cercò, contattando anche familiari del cardinale Pacecho, di ragguagliare l’imperatore «per fargli constatare qual sia questo signore» e legittimare appieno la protezione medicea sulla contea (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, filza 534, I, cc. 245r-246r) : ma anche Orsini, terminato il suo ritiro coatto, si recò di nuovo a Vienna e a Praga, come annunziava Ludovico Antinori a Cosimo il 10 febbraio 1569.
Nel corso del processo contro Pietro Carnesecchi, contemporaneo alla vicenda di Orsini, al protonotario fiorentino era stato chiesto se conoscesse il conte e la sua, prevedibile, risposta negativa fu sconfessata dalla lettera, prodotta dagli inquisitori, inviata da Carnesecchi a Giulia Gonzaga: era infatti ben al corrente del progetto politico di Cosimo su Pitigliano, tanto da aver scritto che «quel principe sia delli eletti, poiché ogni cosa li coopera in bene» (I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, 2000, II, pp. 822 s.). La coincidenza temporale delle ultime fasi dei due processi – elemento, questo, notato ripetutamente anche negli Avvisi – la positiva risoluzione dell’uno e la tragica fine dell’altro lasciano ipotizzare una stretta relazione fra i due casi.
L’assoluzione doveva permettere a Orsini di essere reinsediato in Pitigliano dopo la morte del padre, avvenuta a Roma l’8 maggio 1567, sotto la tutela e il controllo del duca di Firenze. Ma il fratello Orso si era fatto proclamare conte di Pitigliano, contro le ultime disposizioni testamentarie di Giovan Francesco Orsini che, nonostante i perenni conflitti con Niccolò, aveva dovuto cedere alle pressioni sia romane sia fiorentine e lo aveva nominato suo erede. Si aprì un lungo processo davanti all’imperatore, che l’8 agosto 1571 sentenziò che Orsini fosse il legittimo conte di Pitigliano. Egli ottenne di erigere la contea in primogenitura con altri privilegi e Orso fu messo al bando, ma le pretese medicee erano ormai troppo esplicite e costrinsero ancora Orsini a recarsi nuovamente a Vienna e a Praga per reclamare i suoi diritti e difendere il feudo imperiale. Orsini dovette concedere al granduca Francesco I il possesso della fortezza, riservandosi la giurisdizione feudale con annessi privilegi ed entrate. Nel 1576 Francesco I riconsegnò Pitigliano a Orsini che, l’anno precedente, aveva concordato con il granduca precise clausole o «capitoli» di possesso che prevedevano, fra l’altro, l’omaggio vassallatico di una coppa d’argento il giorno di S. Giovanni. Le tensioni familiari non cessarono: nel 1580 Alessandro occupò la rocca di Sorano e Pitigliano, impedendo al padre, assente per la caccia, di entrarvi. Orsini si ritirò a Montevittozzo e cercò la mediazione granducale che non tardò a manifestarsi: furono ricomposte le tensioni fra padre e figlio, ma il granduca Ferdinando I pretese la custodia delle fortezze di Pitigliano e Sorano, anticipando, così, il definitivo passaggio della contea al potere mediceo (giugno 1604).
Nel 1594 Orsini si ritirò a Firenze, dove morì il 15 settembre.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, vol. 11; Biblioteca apostolica Vaticana, Chigiano N. II. 46, cc. 147r-156v; Urbinate latino 1040, cc. 399r, 473v, 498r; Roma, Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, Stanza Storica R 2 m, cc. 218r-600r; Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, filza 2776, cc. 145rv; 255r-365r; 870r; 903r-904v; filza 492, c. 67r; filza 495, c. 439r; filza 533, cc. 265, 267r; filza 534, I, cc. 245r-246r; filza 3287, f. 444r; Archivio Capponi, bb. 166-168; 121-122; 137; scatola 159/2, 3; bb. 160, 167, 168, 173, 175; Vienna, Haus-Hof-und Staatsarchiv, Judicialia latina 399/14, 400 e 401; Rom, Hofkorrespondenz 1562-1568; 1562; Rom, Korrespondenz. Berichte des kaiserlichen Gesandten aus Rom, ff. 20-22, 28, 30, 32; 36; E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, IV, Firenze 1841, p. 472; A. Sozzini, Diario delle cose avvenute in Siena dai 20 luglio 1550 ai 28 giugno 1555, Firenze 1842 (rist. anastatica, Siena s.d.), ad ind.; R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, II, Firenze 1871, p. 15 s.; 33; Nuntiaturberichte aus Deutschland 1560-1572, Nuntius Delfino 1562-1563), I-III, a cura di S. Steinherz, Wien 1903, ad ind.; G. Bruscalupi, Monografia storica della Contea di Pitigliano, Firenze 1906, p. 345-405; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, VIII, Roma 1951, p. 209, n. 5; P. Fanciulli, La contea di Pitigliano e Sorano nelle carte degli Archivi Spagnoli di Simancas e Madrid e dell’Archivio di Stato di Firenze (Mediceo del Principato), Pitigliano 1991; G. Fragnito, Istituzioni ecclesiastiche e costruzione dello Stato. Riflessioni e spunti, in Origini dello stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini - A. Molho - P. Schiera, Bologna 1994, p. 542; I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), I, I processi sotto Paolo IV e Pio IV (1557-1560), a cura di M. Firpo - D. Marcatto, Città del Vaticano 1998, pp. XLV; II, 2, ibid. 2000, pp. 822 s.; G. Brunelli, Soldati del papa. Politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa (1560-1644), Roma 2003, p. 54; I. Fosi, N. O. ribelle al papa e a Cosimo I, in Procès politiques (XIVe-XVIIe siècle), a cura di Y.M. Bercé, Rome 2007, pp. 273-289; A. Tallon, Le «parti français» et la dissidence religieuse en France et en Italia, in La Réforme en France et en Italie. Contacts, comparaison et contrastes, a cura di Ph. Benedict - S. Seidel Menchi - A. Tallon, Rome 2007, pp. 383, 385, 391.