TOMMASEO, Niccolò
Nato a Sebenico in Dalmazia il 9 ottobre 1802 da Girolamo, modesto negoziante, e da Caterina Chevessich, morto a Firenze il 1° maggio 1874. La sua famiglia, che traeva origine dalla Brazza e del cui nome documenti attendibili attestano antica la forma italiana, era stata nobilitata in un ramo diverso da quello di Niccolò, il quale sempre si tenne di popolo e sempre sentì e ostentò verso i nobili una sua ruvida fierezza plebea. Viva egli riconosceva nel proprio essere la duplice eredità italiana e slava. Ma se agli Slavi si sentiva legato da vincoli di sangue e d'amore che in più occasioni ebbe ad affermare, all'Italia si tenne sempre unito come alla madre del suo spirito e alla sua patria d'elezione:
Italia, Italia! Sola
De' miei pensier tu nido:
A te il diurno vola,
A te il notturno grido
di tal che ormai per voto è tuo figliuol.
Così egli cantava ventenne. E nel 1837 scriveva a Cesare Cantù con quel suo accento tra ispirato e paradossale:
"Io sono italiano perché nato da sudditi veneti, perché la mia prima lingua fu l'italiana, perché il padre di mia nonna è venuto in Dalmazia dalle valli di Bergamo. La Dalmazia, virtualmente, è più italiana di Bergamo, ed io, in fondo, son più italiano dell'Italia. Rome n'est plus dans Rome. La Dalmazia, ripeto, è terra italiana per lo meno quanto il Tirolo, certo più di Trieste, e più di Torino. La lingua ch'io parlai bambino è povera, ma francesismi non ha: ed è meno bisbetica de' più tra i dialetti d'Italia. Ma tutto codesto non prova nulla. Dante dice che il Quarnaro Italia chiude... Dante m'esilia me, il disgraziato. Iddio gli perdoni: e' non sapeva quello che si facesse".
E nel 1861, in una delle sue lettere pubbliche ai Dalmati, nelle quali negava per fierezza di spirito regionale, fattosi più ombroso nella sua avversione alla politica unitaria del Cavour, poter "la Dalmazia farsi oramai coda all'Italia", ma anche ne oppugnava fortemente l'annessione alla Croazia:
"Dopo ciò, mi sarà lecito, io spero, soggiungere ch'io amo l'Italia, e chiedere licenza ai Croati d'amarla. L'amo perché i miei maggiori, che pure sentivano la carità della terra natale, la amarono; l'amo perché il padre mio ebbe madre una donna d'origine italiana; l'amo perché Italiani e Dalmati da più secoli sono uniti per gioie e dolori non ingloriosi, partecipati fraternamente, e, meglio che i matrimoni, congiunsero i sangui loro le ben combattute battaglie, e, più che il sangue infuso ne' figli, gli ha apparentati il sangue versato nel nome della patria e di Cristo. Amo gl'Italiani, perché dalle due lingue loro ebbi luce all'ingegno, e ineffabili consolazioni dell'anima; perché le due lingue loro furono e devono essere, e voglio credere che sempre saranno ai Dalmati care, e gli aiuteranno a più potentemente scrivere e più sapientemente stimare la propria; gli amo perché gli è uno de' più illustri e civili popoli della terra, e lo sconoscerne i pregi mi parrebbe barbarie; gli amo perché sono stati e sono e saranno assai tempo ancora infelici; gli amo, perché ho, se non fatto, qualcosa patito per essi".
In realtà egli vagheggiava, al maturare dei tempi, il libero affratellamento delle genti slave del mezzogiorno, "unite e distinte", intorno alla giovane Serbia, e in questa fraterna unione di popoli assegnava alla Dalmazia, da lui sempre sentita e detta "nazione" privilegio di mediatrice tra l'Italia e l'oriente slavo ed ellenico. A questa concezione il T. era portato senza dubbio dal suo federalismo romantico; ma anche vi si riconoscono vivissimi il suo senso dell'impronta veneta in Dalmazia e l'esperienza delle forti relazioni culturali tra le due sponde adriatiche.
Come di tutti i Dalmati, italiana era la sua cultura. Un suo zio paterno, Tommaso, canonico di Sebenico, era stato educato nel collegio illirico di Loreto e aveva scritto versi italiani. Un altro zio paterno, il frate francescano Antonio, che poi fu chiamato a Roma penitenziere illirico a San Pietro e a Roma scrisse un'opera apologetica in italiano, fu il primo maestro, sempre rammentato e amato, di Niccolò. Questi fece gli studî secondarî nel seminario di Spalato, dove un vicentino, Bernardino Bicego, gli fu guida efficace all'amore della letteratura latina e segnatamente della poesia di Virgilio. Passato di quindici anni a Padova per studiarvi diritto, fu ospite di quel seminario in cui si trasmetteva come glorioso retaggio di generazione in generazione la dotta ed elegante latinità dei Facciolati e dei Forcellini. Quivi conobbe A. Rosmini, studente allora di teologia, non meno attratto verso il giovinetto T. dalla potente singolarità di quell'anima, umile a un tempo e orgogliosa, che dall'ammirazione per i versi latini da lui composti con maestrevole bravura; e dall'incontro nacque una fervida e fedele amicizia. Laureatosi in legge nello Studio padovano (1822), il T. rimpatriò per breve tempo e a Sebenico attese alacremente a letture ed esercitazioni letterarie, filosofiche e lessicali, di cui più tardi, come delle anteriori e delle posteriori fino al 1837, egli diede notizia nelle Memorie poetiche (Venezia 1838). Ma la sua vocazione lo voleva in Italia. Tentata invano a Rovereto la via dell'insegnamento e con scarso successo quella del giornalismo in periodici veneti, si recò da ultimo a Milano, col progetto di fondarvi una rivista che riprendesse la tradizione delle riviste inglesi e italiane del Settecento ispirate a propositi di riforma morale e letteraria; ma non gli fu dato attuarlo. Conobbe allora A. Manzoni, che a lui cattolico schietto e tutto preso dall'idea d'una civiltà rifatta intimamente cristiana apparve esempio insigne e quasi tipo del poeta nuovo; e il Manzoni egli amò e venerò sempre.
Lo dimostrano, più che le poco felici e troppo spesso sofistiche postille ai Promessi sposi (scritte nel 1827, pubblicate postume a Firenze nel 1897), altri scritti più maturi e soprattutto i bellissimi Colloqui col Manzoni o Venti ore con A. Manzoni (del 1855; ed. G. Bonola Lorella, in Il Convegno, 1928 e T. Lodi, Firenze 1929). I suoi scritti più significativi di questo tempo, nei quali già si rivela il suo alto concetto etico, ma anche il suo temperamento combattivo e spesso anche litigioso, sono Il Perticari confutato da Dante (Milano 1825), che è una difesa della lingua del popolo e della toscanità contro il volgare illustre patrocinato da V. Monti e da G. Perticari, la confutazione in senso cristiano del sermone del Monti sulla mitologia (Milano 1826), e il discorso Dell'urbanità (ivi 1826) premesso al Galateo del Della Casa e a quello di M. Gioia da lui ridotti e corretti. Fece così imbizzire il Monti (che poi nel 1828 egli doveva giudicare con equità e serenità in un articolo commemorativo ripubblicato più tardi nel Dizionario estetico) e si attirò dalla Biblioteca italiana i fulmini di P. Zajotti.
Proffertosi collaboratore all'Antologia di G.P. Vieusseux, si stabilì a Firenze nel 1827. La voluttà ch'egli aveva provato giovinetto, quando venendo dalla Dalmazia in Italia aveva sentito in un'isoletta dell'Istria i contadini vangando parlare italiano, gli si rinnovò al sentire quella lingua fiorentina "indicibilmente soave" e allo spettacolo di quell'arte pura e splendida. Il soggiorno in Toscana gli fu fecondo d'esperienze diverse.
Qui egli allargò la cerchia delle sue relazioni e amicizie e d'amicizia si strinse, oltre che col buon Vieusseux, con Gino Capponi, il terzo dei grandi italiani contemporanei, dopo il Rosmini e il Manzoni, del cui esempio e del cui consiglio sentì sempre con gratitudine l'efficacia. Qui preparò uno dei suoi più poderosi e geniali lavori, quel Dizionario dei sinonimi (Firenze 1830; Milano 1834; Firenze 1838; Milano 1852-1859), pazientemente elaborato di sulle testimonianze degli scrittori e dei parlanti, che rivela la sua maravigliosa conoscenza del patrimonio lessicale italiano e il suo gusto squisitissimo. Qui sperimentò l'amore travagliato, misto d'ebbrezze e di rimorsi, nella lunga convivenza con una povera popolana, Giuseppa Maria Papi nata Catelli, ch'egli ringraziò con tenerezza nella prefazione dei Sinonimi per l'aiuto datogli in quel lavoro e alla cui vita bisognosa sovvenne fino all'ultimo con suo sacrificio. All'Antologia collaborò assiduo, contrassegnando gli scritti con la sigla K. X. Y., e fu collaborazione apprezzata non da quelli soltanto che simpatizzavano per il suo civismo cristiano, ma anche suscitatrice, per l'umor acre dello scrittore, di astiose ritorsioni e rancori.
Nobilissimo fu il contegno del T. quando nel 1833 l'organo della reazione, La voce della verità di Modena, denunziò due articoli apparsi nell'Antologia, uno dei quali era del T., come antiaustriaci e antirussi: ne venne di conseguenza un passo diplomatico dell'Austria e della Russia e, dopo che il Vieusseux ebbe rifiutato di nominare gli autori dei due scritti incriminati, la soppressione dell'Antologia: si conserva tra le carte del Vieusseux, forse da questo non mai trasmessa per amore dell'amico, una lettera al granduca in cui il T. si dichiara autore dei due articoli, sia per stornare i fulmini governativi dall'Antologia, sia per scagionare l'altro scrittore più esposto di lui a rappresaglie. Volontariamente il T. lasciò la Toscana e riparò in Francia, desideroso di pubblicare quel che in nessuno stato d'Italia avrebbe potuto.
Così incominciò il suo primo esilio, com'egli stesso lo chiamò periodo anche questo ricco di feconde esperienze e dal punto di vista letterario e poetico forse il più fervido della sua vita.
Possiamo seguirlo passo passo in questi anni grazie al carteggio con C. Cantù (Il primo esilio di N.T., lettere raccolte da E. Verga, Milano 1904), a quello abbondantissimo e confidenzialissimo col Capponi (v. Bibl.) e, per quel che spetta alla sua travagliata vita intima e perfin sessuale, a un diario sincero come una confessione (pubbl. da R. Ciampini in Convivium, 1936, e in Nuova Antologia, 1936). Confessioni s'intitola il volumetto ch'egli pubblicò allora (Parigi 1836, ristampato a Lanciano nel 1919 con introduzione di G. Battelli) e che contiene i suoi versi più belli (ripubblicati quasi tutti, ma qua e là corretti, nelle Poesie, Firenze 1872), nuovi nella lirica italiana moderna per la potente, accorata, cristiana introspezione e per il senso profondo della natura venutogli in parte da Rousseau, da Lamennais e dall'ammiratissima George Sand, ma da lui infuso d'uno spirito religioso schiettissimo. E confessione indiretta, parte degli anni vissuti con la Catelli, parte di quelli in Francia, è il romanzo Fede e bellezza (Venezia 1840, ripubblicato più volte e da ultimo, corretto, a Milano nel 1852, ristampato a Lanciano nel 1919 con introduzione di G. Battelli): sotto condizioni mutate, esso ha nella letteratura italiana, anche per una certa affinità di complicazioni sentimentali, il posto che in quella francese spetta a Volupté di Sainte-Beuve, romanzo psicologico, come un tempo si diceva, in contrapposizione al romanzo storico di tipo scottiano. Storico invece è il breve racconto, di assai minor importanza, Il duca d'Atene (Parigi 1837, ristampato a Lanciano nel 1922 con introduz. di A. Cajumi). Ma già in Toscana il T. aveva ideato e in buona parte scritto i cinque libri Dell'Italia, opera che doveva essere quasi il suo testamento civile e politico e che, per poter entrare negli stati italiani, venne a luce (Parigi 1835, ripubbl. a Torino nel 1926 con introduz. di G. Balsamo-Crivelli) con la mentita intitolazione di Opuscoli inediti di fra Girolamo Savonarola: libro ardente, pugnace fino all'invettiva, che nella pubblicistica del Risorgimento sta a mezza strada tra i primi scritti del Mazzini da una parte e il Primato e le Speranze d'Italia dall'altra e se già si può definire neoguelfo, è più ancora "piagnone", pieno di quello spirito cattolico e repubblicano di cui il Savonarola appariva il tipo più insigne ed il simbolo: libro che per questo raccolse i maggiori consensi in Toscana e quivi ebbe efficacia, diretta o indiretta, anche sulle nuove generazioni.
Da Parigi, dove più d'una volta aveva difeso a viso aperto l'Italia, il T. si recò a Nantes, chiamatovi istitutore in un collegio, e poi in Corsica. E alla Corsica, ch'egli salutò "itala terra" è dedicata una delle sue ispirate poesie, quella che intitolò A Giuseppe Multedo corso.
Quivi raccolse le lettere di Pasquale Paoli (Firenze 1846) come prima aveva raccolto e tradotto, per incarico del Guizot, le relazioni degli ambasciatori veneti (Parigi 1838). In Corsica ricercò anche con amore paziem, caratteristico del suo romanticismo cristiano, i canti anonimi popolari, che poi raccolse nell'opera Canti toscani, corsi greci, illirici (Venezia 1841). Degli anni passati in Francia è anche la prima edizione del commento di Dante, uno dei maggiori titoli di gloria del T. (Venezia 1837, ripubbl. a Milano nel 1854, nel 1865 e nel 1869; nuova edizione a Torino nel 1922).
L'amnistia che l'Austria aveva concesso agli esuli nel 1850 lo indusse a stabilirsi a Venezia, dove attese alla pubblicazione di molte delle opere già ricordate e di altre ancora, tra le quali la raccolta di scritti disposti per ordine alfabetico di nomi col titolo Dizionario estetico (Venezia 1840; quarta ristampa con aggiunte, Firenze 1867) e le Scintille (Venezia 1841), con pagine anche in greco moderno e in illirico. Nel 1847 fu per breve tempo a Roma, con l'intento di comporre il dissidio apertosi in Bosnia tra quel vescovo e i francescani, e parlò a Pio IX. Un discorso letto all'Ateneo di Venezia il 30 dicembre 1847, in cui chiedeva al governo la libertà di stampa, fu causa del suo arresto. In carcere finì di tradurre i Vangeli. Liberato dal popolo insieme con Daniele Manin, egli, che non aveva approvato l'insurrezione e solo aveva chiesto riforme, fu dei più zelanti a sostenere la proclamata repubblica, nella quale vedeva impegnato l'onore del popolo veneziano. Ministro della pubblica istruzione, ambasciatore a Parigi per chiedere aiuti dalla repubblica francese, dissentì dal Manin quando questi propugnò e riuscì a far proclamare l'annessione di Venezia al Piemonte. La sua puntigliosa avversione al Manin, e non solo al Manin, si manifesta soprattutto nell'opera intitolata Venezia negli anni 1848 e 1849, di cui è uscita postuma la prima parte (Firenze 1931). Ma durante l'epico assedio il T. pagò di persona ripetutamente, fino all'ultimo contrario alla resa, e in quei mesi memorandi agì con tal purezza d'intenti che il Manzoni a questo proposito ebbe a definirlo "un diamante".
Caduta Venezia, fu escluso dall'amnistia e si rifugiò a Corfù, dove rimase fino al 1854. Qui nel 1851 si unì in matrimonio con una donna di condizione modesta, Diamante Pavello vedova Artale (di cui, dopo che gli morì nel 1873, lasciò memoria in un libro postumo, Diamante, madre e moglie, Firenze 1875), e ne ebbe due figli, Caterina (poi monaca francescana a Zara col nome di suor Chiara Francesca, 1852-1911) e Girolamo (1853-1899).
Sono di questi anni il libro in francese, e condannato a Roma, contro il potere temporale dei papi, Rome et le monde (Capolago 1851) e l'eloquente Supplizio d'un italiano a Corfù (Firenze 1855) scritto per difendere la memoria d'un romagnolo condannato a morte per omicidio in rissa: a questo libro, in cui il T. si dimostra avverso alla pena capitale, si ricollegano i discorsi Della pena di morte (ivi 1865).
Lasciata Corfù, visse a Torino fino al 1859 e poi a Firenze fino alla morte. Rimasto fermo nelle sue idee repubblicane e federaliste e in questo dissenziente dai suoi stessi amici, non nascose la sua avversione alla politica unitaria del Cavour e ne avversò quella ecclesiastica. Dal nuovo regno italiano rifiutò ogni onore, anche quello di un seggio in Senato, per conservare intatta la libertà della parola; ma troppo spesso questa gli usciva dalle labbra amara e pungente. Benché quasi cieco e costretto a dettare, continuò fino all'ultimo a raccogliere in nuove forme di libri miscellanei pagine inedite o sparse ovvero a comporne di nuove.
Ricorderemo, degli anni in cui fu cieco, Bellezza e civiltà o delle arti del bello sensibile (Firenze 1857), l'edizione delle Lettere di S. Caterina da Siena in quattro volumi con ampio discorso introduttivo (ivi 1860), una raccolta di Scritti di Giovita Scalvini (ivi 1860), Il secondo esilio (Milano 1862), Il serio nel faceto (Firenze 1868). Ma la più gloriosa fatica dei suoi ultimi anni è il grande Dizionario della lingua italiana, in sette volumi (Torino 1858-79), per il quale fu aiutato da B. Bellini e da altri e soprattutto da G. Meini, che condusse a termine il lavoro. Gustose le sue polemiche contro il darvinismo, raccolte nel volumetto L'uomo e la scimmia, lettere dieci (Milano 1869).
È un luogo comune dire che il T. è un dimenticato; ma non è punto vero: di molti suoi libri esistono ristampe moderne, anche popolari, e il pubblico è attentissimo all'esumazione di suoi scritti inediti. Alta figura di combattente cristiano e italiano, egli ha tuttavia una gloria contrastata. In lui l'uomo e lo scrittore attirano e a un tempo respingono, secondo il giudizio concorde della sua generazione e delle successive. Dei difetti dell'uomo abbiamo qua e là toccato, della sua litigiosità, della sua acredine, dei suoi puntigli: aggiungiamo che dalla sua stessa maestria stilistica egli era portato a lambiccare questi mali umori, come nei crudeli epigrammi (consegnati per altro in lettere intime) contro il Leopardi. Si è parlato ripetutamente d'una sua intima scissione, ma bisogna vedere quali sono in lui gli elementi che non si compongono in armonia e che a volta a volta generano nei lettori l'attrazione e la ripulsione: diremmo che sono innanzi tutto l'orgoglio intellettuale, così radicaio da fargli ritenere infallibile in ogni campo il proprio giudizio, la pedanteria e saccenteria morale che dànno come una sensazione d'asfissia, e d'altra parte, a contrasto, la sua alta sete di sacrifizio, il suo bisogno di chiamarsi in colpa e umiliarsi, il suo spontaneo riconoscimento, anche negli avversarî, d'ogni atto generoso e disinteressato; e poi ancora quelle sue inquisizioni pettegole e maligne nella vita intima dei vivi e dei morti a contrasto con quella sua voluttà degli alti e puri pensieri, con la sua stessa indiscutibile purezza morale. Alcuni di questi difetti dell'uomo si riflettono nel critico, che ebbe altissimo il concetto della poesia e si sollevò perfino, se non proprio al concetto chiaro, almeno all'intuizione dell'autonomia dell'arte, ma intorbidò di preconcetti moralistici (sia pure con nobili intenti) il giudizio dell'opera d'arte, troppo mescolandovi anche arguzie filologiche e fin minuzie scandalistiche. Poca cosa il T. storico: anzi, nonostante i suoi meriti di raccoglitore di testi e documenti, questo nome non gli spetta neppure. Il suo ingegno eccessivamente analitico e il suo gusto delicatissimo eran fatti piuttosto per i lavori di commento minuzioso e di sfaccettamento della parola, nel che il T., come postillatore e lessicografo, veramente eccelle. Rimane l'artista, padrone d'una prosa robusta e delicata, forse fin troppo ricca di vibrazioni e di chiaroscuri: si ha l'impressione che la rara bravura gli noccia: nel maggior romanzo, pur così attraente per la profonda introspezione, troppo indulse a una sapiente, ma a lungo andare faticosa frammentarietà di quadretti, sian essi paesaggi o ritratti. Questo difetto diviene fino a un certo punto un pregio nella lirica, nel cui breve quadro il senso finissimo del particolare concreto, industriosamente coltivato anche per l'abitudine del poetare in latino, non riesce a soverchiare l'attenzione del lettore e a stancarlo; e meglio che nel T. critico e romanziere si sente qui, come nella sua propria sede, la coscienza ch'egli aveva dell'unità del creato, coscienza più mistica che filosofica, rivelantesi talora in lampeggiamenti stupendi.
Opere: Le opere a stampa del T., quali risultano dalla donazione fattane dalla figlia di lui suor Chiara Francesca alla Biblioteca Nazionale di Firenze nel 1899, constano di 223 volumi e I62 opuscoli. Nella stessa biblioteca sono anche custoditi i manoscritti inediti, provenienti dalla stessa donazione, parecchi dei quali non potranno venire a luce prima del 1950. Non esiste un'edizione completa delle opere, né una raccolta delle principali. Nell'impossibilità di ricordarle qui tutte, rimandiamo all'elenco bibliografico che segue la necrologia del T. dettata da M. Tabarrini (Archivio storico italiano, XIX, 1874), a quello amplissimo dell'articolo Tommaseo nel vol. XXII dell'Enciclopedia del Boccardo, al Catalogo dei lavori editi ed inediti pubbl. da V. Mikelli in appendice al suo Saggio critico su N.T. (Ateneo veneto, s. 9a, I, 1885), al Manuale della letteratura italiana D'Ancona-Bacci, voll. V e VI (supplemento bibliografico). Indichiamo alcune scelte di scritti del T.: L'educazione morale, religiosa, civile, letteraria dell'italiano, a cura di G. Falorsi, con biografia, notizie e commenti, Firenze 1895; Scritti di critica e di estetica, con prefazione di A. Albertazzi, Napoli 1913; Prose, a cura di E. Aubel, con introduzione biografica e notizie bibliografiche, Milano 1921.
Bibl.: Oltre agli scritti biografici e critici ricordati sopra, C. Guasti, Commemorazione, in atti della R. Acc. della Crusca, Firenze 1874 (ristampata nel vol. III, parte 2a, delle Opere di C. Guasti, Prato 1896); A. Conti, Di N. T., in Nuova Antologia, 1874, e Ricordo di N. T., in Letteratura e patria, Firenze 1892; G. De Leva, N. T., in Archivio veneto, VII (1874); E. Panzacchi, Il T. poeta, in Teste quadre, Bologna 1881; id., N. T., in Donne e poeti, Catania 1902; E. Nencioni, N. T., in Fanfulla della domenica, 1882 (art. raccolto in Saggi critici di letteratura italiana, Firenze 1911); G. Martelli, N. T. educatore, in Rassegna nazionale, 1898; V. Riccardi di Lantosca, Pape Satan Aleppe (racconto umoristico di due visite al T.), in Poesie scelte, Firenze 1900; P. Prunas, La critica, l'arte e l'idea sociale di N. T., ivi 1901; id., L'antologia di G. P. Vieusseux, Roma-Milano 1907; I. Del Lungo, Il T. e Firenze, in Nuova Antologia, 1902; (P. Silva), A proposito del centenario di N. T., in Civiltà cattolica, s. 18a, IX (1903); F. D'Ovidio, L'indomani della morte di N. T., in Rimpianti, Palermo 1903; A. Coari, N. T., Milano 1903; P. Mazzoleni, Dell'ingegno e dell'animo di N. T., Zara 1904; G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Napoli 1905 (2a ed., Milano 1920), capitoli 9° e 12° e passim; G. Barzellotti, Dal Rinascimento al Risorgimento, Palermo 1909 (2a ed.), pp. 263-65; G. Salvadori, La giovinezza di N. T., Roma 1909; id., Le idee sociali di N. T. e le moderne, Città di Castello 1913; id., N. T. educatore, in Vita e pensiero, n. s., anno X, xv (rist. in G. Salvadori, Liriche e saggi, III, Milano 1933); M. Lazzari, L'animo e l'ingegno di N. T., Roma-Milano 1911 (cfr. M. Vinciguerra, La poesia di N. T., in Cultura, 1911); B. Croce, N. T., in Critica, 1912 (rist. in La letteratura della nuova Italia, 3a ed., Bari 1929) e Storia della storiografia in Italia, in Critica, 1916 (ripubbl. in volume, 2a ediz., Bari 1930); C. de Lollis, Un pensoso della forma: N. T., in Cultura, 1912 (rist. in Saggi sulla forma poetica italiana dell'800, Bari 1929); E. Aubel, N. T. poeta, Città di Castello 1913; L. Siciliani, L'arte di N. T., in Studi e saggi, Milano 1913; A. Vesin, N. T. poeta, Bologna 1914 (cfr. recensione di V. Lugli, in Romagna, 1914); V. De Angelis, La Francia giudicata da N. T., in Rivista d'Italia, 1914; V. Lugli, Appunti su "Fede e bellezza", in Rivista d'Italia, 1914; G. Gentile, Gino Capponi e la cultura toscana nel sec. XIX, Firenze 1922, cap. V e passim; G. Ambrosi, Saggi su N. T., Spoleto 1925 (con buona appendice bibliografica); C. Angelini, T. (e i suoi anticipi), in Testimonianze cattoliche, Pavia s. a.; G. Gambarin, Il Carducci e il T., in Nuova Antologia, 1930; M. Lascaris, T. traducteur de chants serbes en grec, Praga 1930 (comunicazione fatta a Praga al Congresso dei filologi slavi il 7 ottobre 1929); F. Montanari, L'estetica e la critica di N. T., in Giornale storico della letterat. ital., XCVIII (1931); G. Biasuz, Il T. e le arti figurative, in Convivium, III (1931); E. Flori, T. e la questione romana, in Voci del mondo manzoniano, Milano 1932; R. Tommaseo, L'ora di N. T., Firenze 1933; G. Damerini, T. amico e nemico di Carrer, Venezia 1934. Al T. è dedicato tutto il fascicolo 3°, anno III, della Rivista dalmatica, in occasione del centenario del 1902. Importanti le ampie giunte di G. Salvadori alla seconda edizione delle Memorie poetiche, Firenze 1916. Una vera miniera di notizie biografiche e bibliografiche è nelle note del Carteggio T.-Capponi, a cura di I. Del Lungo e P. Prunas (in corso di stampa a Bologna dal 1911: ne sono usciti quattro volumi di cui il quarto diviso in due parti).