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Nichilismo giuridico

di Natalino Irti - Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)
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Nichilismo giuridico

Natalino Irti

Nichilismo e modernità

L'espressione è segnalata in un autore tedesco del primo Novecento, riaffiora in saggi di rivista, dà titolo a un libro nel 2004. Essa non designa un preciso indirizzo di filosofia, né una concezione generale del diritto, ma piuttosto raccoglie ed esprime i caratteri della modernità giuridica. La connessione tra nichilismo e modernità, e come questa si svolga e concluda in quello, è tema centrale dell'indagine.

Per modernità giuridica vogliamo intendere che la posizione di norme è consegnata, sempre e soltanto, alla volontà dell'uomo; e che nessun criterio esterno è legittimato a guidare e valutare le scelte così compiute. La decisione della volontà sta a sé e nulla riconosce dietro o sopra di sé. Non già che la volontà intuisca o interpreti un ordine cosmico e prenda luogo nella totalità delle cose; non già che la singola scelta rifletta una sapienza eterna o un consiglio divino: la norma è posta nella solitaria nudità della decisione umana.

Alla modernità sono estranei sia l'originaria adesione a un ordine cosmico, che stringa insieme divinità, natura, storia degli uomini, sia il più tardo dualismo tra physis e nomos. Questo dualismo - risalente alla sofistica greca e perpetuatosi, con varianti sia laiche sia religiose, fino all'inizio del 21° sec. - rompe l'unità tra volere umano e legge dell'universo e lascia emergere, al di sopra o contro il diritto positivo, un criterio di giudizio capace di conferire o di negare validità alle norme decise dall'uomo.

L'interrogarsi sulla validità del diritto positivo, poiché sottintende che positività non coincide necessariamente con la validità, apre la strada ai tormentosi e drammatici dualismi da cui è segnata l'intera storia del diritto. Allorché sorge la domanda sulla validità del diritto positivo - e, dunque, circa la questione se esso è come deve essere -, si frange infatti l'originaria unità e si apre un dualismo interno alla stessa posizione di norme, le quali non sono lasciate in sé sole a misurarsi dentro il loro proprio congegno e organismo, ma vengono tratte dinanzi a un criterio valutativo che le approva o disapprova, riconosce o rifiuta, convalida o invalida. Si moltiplicano così distinzioni e antitesi: norme valide e ingiuste; norme valide e giuste; e così via.

I dualismi, generati dalla rottura dell'unità originaria, esprimono, a loro volta, il bisogno di unità, dove si costruisca e dove si plachino le tensioni interne al diritto.

Una nuova unità

Codesta nuova e diversa unità viene costruita mediante la critica dissolvitrice di ogni dualismo. La 'morte di Dio', cioè la perdita di influenza sociale da parte del cristianesimo, il rifiuto della metafisica, l'impossessamento tecnologico della natura, la lotta storicistica contro la ragione, sono i fattori che restringono l'orizzonte giuridico alla pura volontà dell'uomo. Si raggiunge così una nuova unità: non più fondata, come l'antica, sull'adesione all'ordine cosmico, sul compenetrarsi dell'Io con il mondo, ma sull'esaustiva radice della volontà umana. Questa, sciogliendosi da ogni rapporto esterno, tutta si racchiude nella propria terrena solitudine. Essa è sufficiente a sé stessa e non ha bisogno di volgersi altrove - l'altrove del divino o del naturale - per trovare la giustificazione delle proprie scelte. Queste si 'fanno giuste' nel loro storico ed effettuale accadere.

F. Nietzsche coglie la condizione della modernità giuridica con illuminante chiarezza: "Ma dove il diritto non è più, come da noi, una tradizione, può essere soltanto una imposizione, una costrizione; noi tutti non abbiamo più un sentimento tradizionale del diritto, quindi dobbiamo contentarci di diritti arbitrarii, che sono espressione della necessità che esista un diritto" (Menschliches, allzumenschliches, 1878, aforisma 459). Il diritto non ci è più 'trasmesso' da altri - che sia il passato storico o la sapienza di un dio -; e dunque cade per intero nella volontà occasionale e precaria dell'uomo, nel suo 'arbitrio', il quale così soddisfa la 'necessità che esista un 'diritto'. Non possedere un 'sentimento tradizionale del diritto' significa non avvertire alcun vincolo, alcun condizionante presupposto delle scelte normative.

L'assenza di presupposti

Tale assenza può tenersi fra i caratteri del nichilismo giuridico. La condizione di validità del diritto positivo non sta fuori e prima di esso, ma all'interno di esso, nel meccanismo produttore di norme. Sono caduti o declinati i titoli di legittimazione esterna. La decapitazione di Luigi xvi acquista un rilievo simbolico: non c'è più alcun tramite con gli dei. Quando s'insegna essere la sovranità originaria, si dice, appunto, che il diritto trova origine in sé stesso, che la catena di norme, degradanti dalle generali alle particolari, non è appesa a un gancio esterno, ma si svolge e sostiene da sola.

Questa catena obbedisce, nelle democrazie occidentali, alla razionalità tecnica, che è propria dell'economia capitalistica. Le norme giuridiche sono considerate come un prodotto, ossia risultato di un meccanismo tecnico, capace di ricevere e 'trattare' qualsiasi materia. Le fabbriche del diritto hanno l'aspetto di procedure, di ordinate sequenze di atti, che volgono verso un prodotto conclusivo. Il linguaggio del diritto s'indebita verso il linguaggio dell'economia: produzione, procedure, funzionamento, efficienza, e così via. È il linguaggio di congegni, pronti a 'macinare' il grano e il loglio, capaci, nella loro astratta e regolare funzionalità, di tradurre in norma giuridica qualsiasi contenuto (politico, religioso, scientifico, e così via). La razionalità tecnica non valuta né seleziona i contenuti: e non è in grado di farlo, poiché essa non presuppone nulla e, dunque, non è munita di un criterio di distinzione e di scelta. Al formalismo delle procedure corrisponde l'indifferenza contenutistica. Né varrebbe - come si tenta, per es., da J. Habermas e da altri filosofi o giuristi - di invocare, per limite o rimedio, il 'patriottismo della costituzione', che è sempre patriottismo di una o più norme appartenenti a un dato diritto positivo e perciò suscettibili di essere abrogate o modificate. Così non si esce dal diritto positivo, non si trova un criterio sovrastorico, ma piuttosto si radicalizza un dato contenuto di norme, assumendolo, in schietta contraddizione con la logica del regime democratico, come fermo e statico. Assunzione, che è - giova appena di notare - anch'essa atto di volontà, un conferimento di priorità deciso e sorretto dal potere umano, e perciò mutevole e precario.

La perdita di un centro

Siamo giunti al carattere precipuo del nichilismo giuridico. Il diritto non conosce più un 'dove andare'; esso ha perduto qualsiasi centro. Il nulla circonda tutt'intorno il mondo del diritto: nessuna norma appare necessaria e incondizionata. I meccanismi produttivi traggono le norme dal nulla e le ricacciano nel nulla. In luogo dell'unica e universale ragione, o della natura legislatrice, stanno le innumerevoli e contingenti rationes delle singole norme: gli scopi - di qualsivoglia indole e specie - perseguiti da ciascuna di esse. Un diritto, insomma, privo di durata, su cui si esercita, con insonne fatica, il riformismo politico.

La dissoluzione di vecchi dualismi ci ha lasciato questa terribile e dolorosa unità: l'unità dell'Io volente e decidente, che si è sciolto da ogni presupposto, e, con Nietzsche, ripete a sé stesso: "[…] non possiamo tornare all'antico, abbiamo bruciati i vascelli; resta solo d'aver coraggio, avvenga che può" (Menschliches, allzumenschliches, 1878, aforisma 248). Il n. g. ha propriamente tale estremo coraggio: non è statica e rigida immobilità, ma piuttosto ossessiva e indefinita produzione di norme. Le 'fonti' del diritto si moltiplicano, operose e assidue: negoziali, regionali, nazionali, europee, internazionali e così via. In questa produttiva fluidità - che non conosce né argini di costituzioni, né misure di codici - nessuna norma si sottrae al rischio dell'annichilimento. Nessuna norma ha la forza di resistere alle procedure, che, sole, danno e tolgono la vita.

La volontà imponente

La nota propria del n. g. è che questo declino di significati unitari e complessivi non genera infeconda rassegnazione, ma suscita piuttosto rigoglio di volontà, accettante fraternità con il divenire. Gli uomini, pur lasciati così soli e deserti, operano e desiderano, odiano e amano, vogliono e disvogliono scopi innumerevoli. E la storia continua a vedere vincitori e vinti, rotture di rapporti e nuovi equilibri di forze, volontà tramontanti e altre che si levano impetuose e altere. I congegni produttori di norme ricavano il tumulto di idee e di volontà per il tramite della politica: nelle democrazie occidentali, i partiti politici adempiono a questa funzione mediatrice. Una volta immersa nel meccanismo procedurale, raccolta la prevista quantità di voti, la volontà proponente si converte in volontà imponente. Poiché gli antichi dualismi sono dissolti, e il diritto si costituisce e svolge senza condizionanti presupposti, non c'è ulteriore istanza, non c'è giudice d'appello contro le norme (costituzionali o ordinarie) così deliberate. L'autosufficienza della produzione giuridica offre la misura del nichilismo. La conclusione ne è tratta da Nietzsche: "Nessuno sentirà più verso una legge altro dovere che quello di inchinarsi momentaneamente alla forza che introdusse quella legge: e tosto ognuno si volgerà a minarla mediante una nuova forza, una nuova maggioranza da formare" (Menschliches, allzumenschliches, 1878, aforisma 472).

L'assenza di presupposti - ossia di condizioni, che, per essa sottratte alla volontà di singoli, vincolino e unifichino tutti gli uomini - conduce l'individuo a chiudersi nel proprio Io. Il carattere globale del mercato, dove ciascuno si trova di contro o di fronte all'altro, e si sforza di trarre da un ossessivo e ansioso negoziare il più alto vantaggio, favorisce e accelera il processo del solipsismo. Questo Io, che nella politica interna si piega alle procedure di decisione e al criterio quantitativo della maggioranza, è finalmente e completamente solo. E reputa che fonte del diritto, di aspettative e di impegni, sia il singolo accordo, qui e ora negoziato e concluso: l'accordo, in cui si misurano la sua abilità e il suo genio affaristico. Il diritto non si è sciolto da dualismi teologici o metafisici, ma, saltando oltre le procedure di decisione maggioritaria, si raccoglie in un punto estremo, in quell'unità originaria e assoluta che è la volontà dell'Io. Tutto dipende da me; a me soltanto si riconduce il merito del successo o la responsabilità dell'insuccesso.

Nichilismo del mercato e nichilismo del diritto si congiungono nella modernità globale: come la volontà può tutto desiderare, e ogni cosa volgere in oggetto di scambio, così la volontà può negoziare e concludere qualsiasi accordo, e generare qualsiasi diritto. Il nichilismo dell'incondizionata volontà scende dalle maggioranze parlamentari al singolo Io, svelandosi nelle sue radici più intime e profonde.

Tra descrizione storica e riflessione filosofica

Gli scorci, qui accennati, mostrano che il n. g. sta fra descrizione storica e riflessione filosofica. Da un lato, raccoglie e narra le vicende della modernità giuridica, quale si svolge all'interno delle democrazie parlamentari e nello spazio planetario dei mercati. Dall'altro, esso è consapevolezza di questa storia, coscienza di una necessità, che genera e spiega l'accadere dei fatti. È l'interiore necessità di un diritto chiuso in sé, capace di porsi e svolgersi da sé, consegnato per intero alla solitaria e nuda volontà dell'uomo. Questa volontà - non sottoposta ad alcun vincolo, né teologico né metafisico né storico - sceglie, di volta in volta, la propria strada, e la percorre o abbandona o rovescia e distrugge. Il diritto fa tutt'uno con la mutevole temporalità del volere: si frange negli innumerevoli scopi delle singole norme, ma non ha un 'dove' conclusivo, non un senso 'abbracciante' e unificante. Il nichilismo narra questa storia, e se ne fa dolorosa coscienza. Sapere che le norme, quali sono, potevano o potranno essere altre, e che il loro nascere e perire dipende soltanto dal volere umano, e che codesto volere si svolge e attua con impeto incondizionato, sciolto da ogni presupposto, ecco il carattere decisivo del nichilismo giuridico.

bibliografia

N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari 2004, 20052.

Vedi anche
Friedrich Wilhelm Nietzsche Filosofo (Röcken, presso Lützen, 1844 - Weimar 1900). Nella sua opera convivono una violenta critica distruttiva verso il passato (la tradizione filosofica, morale e religiosa dell'Occidente da Socrate in poi) e un appassionato appello al futuro, alla creazione di un uomo nuovo capace di affrontare la ... Martin Heidegger Filosofo tedesco (Messkirch, Baden, 1889 - ivi 1976). Compì gli studi universitari a Friburgo in Brisgovia, dove conseguì la laurea in filosofia nel 1913 con una tesi su Die Lehre vom Urteil in Psychologismus, pubblicata nel 1914, e la libera docenza con H. Rickert nel 1916 con lo scritto su Die Kategorien- ... relativismo Concezione fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non oggettivo o assoluto, sia della conoscenza, dei suoi metodi e criteri (relativismo gnoseologico), sia dei principi e dei giudizi etici (relativismo etico), variando tutti da individuo a individuo, da cultura a cultura, da epoca ... Emanuele Severino Filosofo italiano (n. Brescia 1929), professore di filosofia nell'univ. cattolica del Sacro Cuore di Milano (dal 1962), poi (dal 1970) di filosofia teoretica nell'univ. di Venezia, dove dal 2005 è prof. emerito. Socio corrispondente dei Lincei (1994). Sostiene che la storia dell'Occidente è storia del ...
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