Nichilismo
di Valerio Verra
Nichilismo
sommario: 1. Origini e significati del termine. 2. Nichilismo, esistenzialismo e ontologia. 3. Nichilismo, teologia e religione. 4. Nichilismo, etica e costume. 5. Nichilismo e politica. 6. Nichilismo ed estetica. □ Bibliografia.
1. Origini e significati del termine
Nell'uso più corrente e consueto il termine nichilismo indica, da un lato, quella corrente di pensiero e di azione ateistica, materialistica, positivistica e rivoluzionaria che è stata cosi efficacemente descritta dai romanzi russi dell'Ottocento (da Turgenev a Dostoevskij, per non citare che i nomi più noti), e, dall'altro, il nucleo centrale del pensiero di Nietzsche come annuncio dell'inevitabile compiersi della ‟logica della decadenza" attraverso, appunto, l'avvento del nichilismo ‟nei prossimi due secoli". È noto, però, che il termine era entrato in circolazione già tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento nella filosofia tedesca, nel corso di polemiche sul criticismo kantiano e sull'idealismo (v. Verra e Vattimo, 1973). Più esattamente, di fronte all'affermarsi e diffondersi di costruzioni speculative idealistiche sempre più grandiose e sistematiche, il termine nichilismo era stato usato per accusare tali costruzioni, in quanto si affidavano ai puri processi dimostrativi della ragione, di tutto dissolvere in un pensiero vuoto, astratto e autosufficiente, annientando in tal modo la vera e concreta realtà con cui l'uomo aveva a che fare: una realtà oggetto non soltanto della conoscenza, ma anche dei sentimenti e delle passioni, e, rispetto a Dio, della fede. Successivamente, dopo il 1830, il termine compare, ancora in Germania, nelle opere degli esponenti della Giovane Germania, ossia di quel gruppo di scrittori che si propone di imprimere alla letteratura un energico moto di rinnovamento in senso politico e sociale. Frattanto, tra il 1830 e il 1840, il termine nichilismo comincia a circolare anche in Russia, nel corso di polemiche filosofico-letterarie, dapprima con un significato ancora prevalentemente negativo e spregiativo, addirittura per bollare la povertà culturale e intellettuale degli avversari, e, successivamente, in un senso più specifico per qualificare coloro che, all'opposto dei ‛mistici', non credono a nulla e professano uno scetticismo portato all'estremo. È invece nella seconda metà dell'Ottocento, con la grande stagione del romanzo russo, che prendono corpo quei caratteri che, per lungo tempo e, in parte, ancor oggi, si sono imposti come qualificanti la figura del ‛nichilista' in vasti strati della cultura e della coscienza europea: rifiuto sdegnoso di qualsiasi autorità; fiducia entusiastica nella scienza e nei suoi metodi; cinismo e gusto del paradosso spinti sino alla sfrontatezza, specie nel conflitto generazionale tra ‛padri e figli'; scetticismo sulla possibilità di un qualsiasi mutamento graduale della situazione politica e predilezione per il gesto eroico, anche terroristico; negazione di qualsiasi valore ancorato a basi metafisiche e religiose (sia pure, come nei personaggi di Dostoevskij, attraverso un dibattito molto teso e doloroso); e, infine, svalutazione dell'arte, se intesa come semplice espressione di sentimenti estetici individuali, considerati sterili, antiquati e rinunciatari, e non come strumento per servire la ‛causa del popolo'. Con Nietzsche, poi, il termine nichilismo assume una più complessa caratterizzazione storico-filosofica, giacché non indica più soltanto un atteggiamento etico, politico o religioso (o, se si preferisce, antireligioso), ma un principio complessivo di spiegazione e interpretazione dell'intero corso della nostra civiltà (anche se non solo della nostra), visto come inesorabile processo di una decadenza destinata a manifestarsi in modo sempre più clamoroso e totale. Un processo che ha le sue radici non soltanto nel mondo moderno, quando - con la caduta del sistema geocentrico - l'uomo si è sentito sbalestrato e sperduto in un universo infinito, ma addirittura nel mondo greco, quando con Socrate e Platone si è cominciato a contrapporre al mondo reale della vita, negandolo e squalificandolo, un mondo ‛vero', quello dei ‛valori'. Non è questa la sede per soffermarsi sulle complesse articolazioni di tali tesi nietzschiane, all'interno delle quali anche il cristianesimo figura come fenomeno nichilistico di decadenza (in quanto contrappone il mondo trascendente ed eterno a quello sensibile e temporale), e non di rinnovamento rispetto alla cultura ellenistica; è tuttavia essenziale ricordarne almeno qualche punto decisivo per comprendere la presenza del nichilismo nel Novecento. Anzitutto, la concezione nietzschiana del nichilismo si distingue nettamente da ogni forma di pessimismo, perché il pessimismo, secondo Nietzsche, implica ancora un atteggiamento giudicatorio rispetto alle cose, un commisurarle a presunti valori che in esse non troverebbero adeguata realizzazione: al contrario, Nietzsche critica i valori, dimostratisi ormai falsi, per dire di ‛sì' alla vita con la dottrina dell'eterno ritorno e l'affermazione della ‛volontà di potenza' come impegno a realizzare pienamente la vita in tutte le sue possibilità, quelle possibilità che la morale e la religione tradizionali hanno negato e mortificato. Più precisamente, Nietzsche distingue un nichilismo ‛passivo' come fattore di decadenza, in quanto negazione moralistica della vita, da un nichilismo ‛attivo', quale principio di forza, capacità di reazione, testimonianza del fatto che lo spirito avverte sì la decadenza, ma non l'accetta come ultimo e definitivo destino. In questo quadro si inserisce pure la tematica, tanto spesso fraintesa, del ‛superuomo', nella quale non è affatto questione di un individuo eccezionale e superiore agli altri, bensì di un nuovo tipo di uomo (altrettanto quanto l'uomo può esserlo stato rispetto alla scimmia superandola mediante una ‛mutazione'); un uomo capace di nuovi valori di cui non solo non è possibile dare nessuna fondazione ontologica o religiosa, ma che neppure possono essere prescritti o definiti, dovendo invece venir via via scoperti attraverso una sorta di libero giuoco. Di qui infine l'importanza del problema estetico nel nichilismo nietzschiano e nella sua diffusione, da un lato perché il nichilismo ha messo a nudo i caratteri effettivi della realtà, che può essere soltanto più ‛giustificata' come ‛fenomeno estetico', dopo che il ‛mondo vero' si è rivelato una ‛favola', ossia dopo che sono risultati falsi o, quanto meno, inconsistenti tutti i valori religiosi e metafisici in cui per secoli si era creduto di trovare il vero senso della realtà; e, dall'altro, perché tra i diversi tipi di uomo che si sono sinora realizzati, è precisamente l'artista ad avere i caratteri più vicini a quelli necessari per promuovere l'avvento di nuovi valori tali da dare al mondo un senso altrimenti mancante.
Già questi pochi cenni, necessariamente sommari, sulle origini e sugli sviluppi del nichilismo nell'Ottocento mostrano come il termine abbia assunto una gamma estremamente varia di significati tra loro diversi, che, tanto per schematizzare, vanno dall'accentuazione del momento etico-politico e dalla fiducia nella scienza e nel progresso, tipiche di tanto nichilismo russo, all'accentuazione invece del momento estetico-filosofico congiunta a una serrata critica del positivismo e dello storicismo, tipica del nichilismo nietzschiano. Già per questo appare dunque impossibile, o, quanto meno, illecito muovere da una qualsiasi definizione rigida e univoca del nichilismo per rintracciarne la presenza nella vita e nella cultura del nostro secolo, dove infatti sono stati recepiti i suoi esiti più diversi; ma tale difficoltà risulta, se possibile, ancora accresciuta dal fatto che il nichilismo come categoria storiografica, ossia come concetto usato per comprendere e spiegare intere epoche della civiltà, ha subito già con Nietzsche e poi, nel nostro secolo, soprattutto con Heidegger una straordinaria dilatazione del proprio ambito di riferimento cronologico, al punto da venir esteso all'intero sviluppo della civiltà greco-cristiana e, di conseguenza, portare a una diversa e più ampia valutazione della sua incidenza anche nel Novecento. In altri termini, se nella storia della filosofia e della cultura è abbastanza diffusa la tendenza a cercare anticipazioni o precorrimenti di una corrente di pensiero, risalendo oltre le sue prime formulazioni esplicite e oltre il comparire del termine che la designa, nel caso del nichilismo questo procedimento assume un aspetto particolarmente radicale, in quanto non si va timidamente alla ricerca di sue radici più o meno nascoste nel passato, ma se ne afferma categoricamente la presenza decisiva e operante già nella filosofia greca; anzi l'intero sviluppo della civiltà occidentale (e non solo della filosofia) fino a oggi viene commisurato alla svolta compiuta dall'umanità quando in Grecia ha contrapposto il pensiero alla vita o, come ha detto Heidegger, ha pensato l'essere in termini metafisici astratti e generici, dimenticando la differenza che sempre sussiste tra l'essere e gli enti singoli, determinati e transeunti. Naturalmente in una tale prospettiva il termine nichilismo, più che una categoria storiografica fondata e verificata su analisi degli aspetti peculiari delle diverse epoche storiche, indica un principio teorico a cui la stessa storiografia viene ricondotta, spesso in polemica contro una storiografia accusata di essere troppo ancorata alla realtà storica positiva, accertabile e individualizzata. Ma la cosa importante è che questo tipo di procedimento storiografico non è affatto casuale rispetto al nichilismo bensì gli risulta intrinseco, come si vede già dall'opera di Nietzsche e dal suo programma di smascheramento delle forme precedenti di coscienza e di cultura. Non a caso Nietzsche, accanto a Freud e a Marx, viene oggi considerato come uno dei grandi maestri del ‛sospetto', perché ha sviluppato, sulla base della sua concezione del nichilismo, una tecnica interpretativa del passato continuamente rivolta a scoprire, al di sotto delle formulazioni dottrinali positive sotto cui il nichilismo si è presentato (platonismo, cristianesimo, kantismo, storicismo, positivismo ecc.), la sua vera realtà distruttrice. Per comprendere esattamente il senso di questo procedimento può forse essere utile ricordare che la filosofia di Nietzsche è stata definita una sorta di teologia negativa senza il Dio cristiano (v. Heidegger, 1961). In effetti, a differenza della teologia negativa tradizionale che, mostrando i limiti delle verità determinate, cercava di aprirsi la via a una verità superiore ineffabile, per Nietzsche questo processo serve invece per mettere in luce che non c'è, né ci può essere, verità alcuna in senso assoluto e che tutte le cosiddette verità sono frutto di scelte utilitarie, utili menzogne, anche se per lo più inconsapevoli della propria natura. In questo senso la dilatazione della categoria storiografica del nichilismo in Nietzsche corrisponde al fatto che la sua interpretazione delle diverse dottrine filosofiche, morali, politiche e religiose, in una parola, dell'intera cultura umana, non può mai essere disgiunta dal suo impegno critico e moralistico, quell'impegno che, se appare particolarmente evidente nella fase centrale del suo pensiero, ne permea certamente tutto lo sviluppo. Ma, al di là delle linee segnate da Nietzsche, il problema della legittimità di estendere l'uso del concetto di nichilismo molto al di là delle sue effettive teorizzazioni deve forse essere considerato da un punto di vista più generale, prendendo in esame il rapporto tra il concetto di nichilismo e quello di nulla. Qualora infatti questi due concetti potessero esser considerati del tutto coincidenti o almeno convergenti sul piano teorico, diventerebbe non solo possibile, ma necessario, sul piano storico, far risalire il nichilismo molto al di là dell'Ottocento (quando se ne comincia a parlare con una certa frequenza), addirittura agli inizi della filosofia in Grecia. A partire da allora infatti il concetto di nulla è stato ripetutamente discusso e analizzato tanto in senso metafisico in rapporto al concetto di essere (perché l'essere piuttosto che il nulla, o ancora, come si spiega il passaggio dal nulla all'essere e dall'essere al nulla o, ancora più radicalmente, come si può ammettere il nulla di fronte all'essere?), quanto in senso logico (quali sono i fondamenti delle proposizioni negative, e delle diverse forme in cui si configura la negazione, come contraddizione, come contrarietà, come diversità ecc.?) e in senso linguistico (hanno un senso e a quali condizioni i termini che indicano il nulla in una qualsiasi forma?). Tuttavia, e questo è essenziale per intendere la difficoltà di individuare con esattezza la presenza del nichilismo nel nostro secolo, non è affatto lecito identificare senz'altro il problema del nichilismo con quello del nulla, perché quest'ultimo problema, come effettivamente è accaduto nel corso dei secoli (v. Kahl-Furthmann, 1968), può essere impostato in linea di principio senza attribuirgli un'intrinseca storicità, come invece fa specificamente il nichilismo. La differenza tra i due tipi di impostazione può forse essere chiarita ricordando una delle affermazioni più note del nichilismo nietzschiano, e cioè la tesi che ‟Dio è morto", di cui è facile scorgere la diversità rispetto alla tesi dell'ateismo tradizionale secondo cui: ‟Dio non è, Dio non è mai esistito". L'ateismo tradizionale infatti presenta la sua tesi come una proposizione fondata su motivi razionali indipendenti dallo sviluppo storico della filosofia e della civiltà, validi in sè e per sè, nel senso che la ragione porterebbe a negare che Dio sia mai esistito o possa esistere. Al contrario tutto il peso della tesi nietzschiana: ‟Dio è morto" si concentra sul suo significato storico, nel senso che è stata la storia a portare lentamente alla luce il fatto che Dio non era altro che un insieme di pseudovalori nichilistici consumatisi e, alla fine, rivelatisi come tali. In questo senso per il nichilismo il problema dell'esistenza o inesistenza di Dio come realtà in sé è relativamente privo d'interesse rispetto a quello veramente urgente della portata storica della morte di Dio, come scomparsa, per certi aspetti tragica e per altri esaltante, di quello che gli uomini per secoli hanno creduto e vissuto come Dio, fondandovi una civiltà che appare ora del tutto priva di senso e di motivazione. Proprio per questo il nichilismo non può essere ridotto ad affermazioni teoriche circa il nulla o identificato con esse, ma, al contrario, nel nichilismo il nulla viene riportato alla sua forza di negazione esplicita o implicita quale si è manifestata nella storia della civiltà o addirittura dell'essere.
Del resto, sempre riguardo all'impossibilità di una definizione rigida del nichilismo, non è forse casuale che in studi relativamente recenti (v. Rauschning, 1954) si sia ritenuto necessario sottolineare che il nichilismo non può mai presentarsi direttamente, esplicitamente, ma sempre soltanto in ‟maschere e metamorfosi", altrimenti il nichilismo dovrebbe assumere una forma positiva tale da contraddirsi e perderebbe quella funzione intrinsecamente distruttiva di ogni indebita certezza che lo contraddistingue e gli consente di mettere in luce come tutto consti di apparenze che rinviano sempre e soltanto ad altre apparenze. A questo proposito vanno pure ricordate indicazioni suggestive venute anche più di recente da ambienti del tutto diversi, soprattutto dalla Francia. Cosi Foucault, ad esempio, attribuisce a Nietzsche il merito di aver visto come al di sotto delle interpretazioni non vi sia affatto un significato originale a cui esse debbano o possano fare riferimento, dei segni enigmatici che le interpretazioni dovrebbero decifrare; in tal modo Nietzsche ha aperto la via a scoprire il carattere circolare - e non rettilineo, come voleva la dialettica - della vita delle interpretazioni. Di un ciclo di maschere, infine, parla Klossowski come dell'esito inevitabile della morte di Dio che, togliendo ogni garanzia dell'identità dell'io, l'ha portato a dissolversi e frantumarsi infinitamente nelle sue manifestazioni (v. AA.VV., 1967).
Per tutte queste considerazioni sarebbe dunque problematico e, al limite, controproducente muovere da una definizione troppo rigida di nichilismo per indagarne la presenza nella cultura e nella vita del Novecento, mentre con- verrà forse cercare di individuarne appunto le ‛maschere' e le ‛metamorfosi', ossia il modo in cui motivi nichilistici anche diversi tra loro abbiano operato in diversi campi, ora congiuntamente, ora scontrandosi, ma sempre imprimendo alle tematiche in questione (metafisica, teologia, morale, politica, estetica ecc.) un profondo rivolgimento interno destinato a concludersi o nella loro stessa dissoluzione o in radicali tentativi di trasformazione. Qualcosa di più preciso, invece, si può forse dire a proposito dello sviluppo storico di tale processo sul quale hanno ovviamente inciso i grandi mutamenti politici e sociali del secolo. Se infatti, agli inizi del Novecento, il nichilismo ha avuto fortuna soprattutto all'interno di certe élites come una sorta di entusiasmante avventura estetico-culturale, come un messaggio d'avanguardia, più cauto e pessimistico (si pensi ad es. alla risonanza della dottrina del ‟tramonto dell'Occidente" di Spengler) si è fatto l'atteggiamento quando si è avuta, con la prima guerra mondiale, un'immane tragedia di massa. Per altro verso, anche gli aspetti individualistico-anarchici del nichilismo russo, con il successo della Rivoluzione d'Ottobre e l'affermarsi di un saldo potere centrale del partito bolscevico, non potevano non subire un'eclisse o quanto meno perdere gran parte della loro suggestione ed efficacia. Il dibattito sul nichilismo torna a farsi acceso con l'avvento al potere del nazionalsocialismo, la formazione dei grandi Stati totalitari e la nuova terribile tragedia della seconda guerra mondiale che sembra la conferma più atroce della profezia nichilistica circa la caduta non solo di questo o quel valore del passato, ma dell'intero quadro di valori della civiltà europea, non senza che di tale caduta da molte parti venga imputato o quanto meno ritenuto corresponsabile il nichilismo stesso. Con il graduale distacco dagli anni terribili della guerra il dibattito tende invece a spostarsi da un piano polemico-esistenziale a un piano storico-critico, legato in parte al riesame dell'opera di Nietzsche e agli ultimi sviluppi di quella di Heidegger, anche se la ripresa di temi propri del nichilismo non manca nella più recente discussione dei caratteri della società industriale avanzata e del predominio della tecnica.
2. Nichilismo, esistenzialismo e ontologia
Anche se il nichilismo è sempre stato e ha voluto essere molto di più di una semplice dottrina filosofica, può essere utile iniziare l'esame della sua presenza nel Novecento proprio dal suo rapporto con la filosofia, per individuare alcuni dei suoi sviluppi tematici più complessi. In questa direzione è anzitutto necessario fare riferimento a quel tipo di filosofia che è stata considerata come la quintessenza del nulla nella cultura europea del Novecento, e cioè l'esistenzialismo appunto come ‟incontro con il nulla" (v. Kuhn, 1950). A parte lo spazio dato da grandi filosofi esistenzialistici come Jaspers e Heidegger al confronto con Nietzsche, è indubbio che l'esistenzialismo per tanti aspetti ha recepito e sviluppato temi nichilistici, quali il senso dell'angoscia di fronte al crollo di un sistema millenario di valori, la sfiducia nella razionalità, che da Platone a Hegel sembrava costituire l'asse portante della civiltà europea, un interesse, a volte quasi patologico, per tutte le sfumature più riposte della psicologia individuale nei suoi aspetti soprattutto negativi e deformati, il senso di una crisi ormai irrevocabile delle credenze religiose tradizionali e la convinzione che una via d'uscita dalla crisi non potesse esser cercata nelle grandi ideologie storico-politiche, ma piuttosto in un impegno radicale dell'individuo nella sua libertà, tanto se fondata ateisticamente, quanto se collegata a un senso nuovo e spesso laico di religiosità.
Al di là, però, di questi innegabili punti di contatto tematici, non è lecito stabilire un rapporto troppo stretto tra nichilismo e esistenzialismo, se appena si ricordino gli esiti molto lontani dal nichilismo a cui sono approdati autori usualmente considerati come esistenzialisti. Basti pensare ad esempio a Sartre, a cui si devono, particolarmente nella Nausée, magistrali descrizioni del senso di assurdità profonda e radicale dell'esistenza e, nella sua intera opera letteraria e teatrale, rappresentazioni così vive ed efficaci della negatività dei rapporti umani. Ora, proprio Sartre, affermando una concezione decisamente ‛umanistica' dell'esistenzialismo, vede nella scomparsa e nella distruzione di tutti i valori tradizionali e di ogni loro possibile fondamento metafisico o religioso la ragione di un ‛ottimismo' come dottrina dell'azione e dell'impegno umano nella progettazione, anzi nell'invenzione della libertà, un ottimismo che si è venuto sempre più indirizzando verso una forma di milizia politica motivata da un ripensamento della dialettica marxista. Venendo poi a Jaspers, non è poco significativo il fatto che, nella sua interpretazione di Nietzsche, egli tenda a escludere che il concetto di nichilismo possa valere come una diagnosi totale del corso della civiltà occidentale (essendo per Nietzsche infondata ogni considerazione totale della storia in senso hegeliano o storicista), e ad accentuare il carattere psicologico ed esistenziale del nichilismo come atteggiamento umano di cui si possono additare esempi già nell'antica sofistica e nell'antico scetticismo. Secondo K. Jaspers (v., 19716), infatti, un nichilismo veramente coerente, assoluto, è contraddittorio e impensabile, giacché dovrebbe essere una volontà di nulla, quale neppure si realizza nel suicidio, dove ancora si rinuncia alla vita in nome di qualche valore, foss'anche un valore a cui non si crede che la vita possa soddisfare. Il nichilismo è piuttosto qualcosa di sempre relativo, e la sua funzione inevitabile e, in un certo senso, feconda consiste nel corrodere qualsiasi nozione o dottrina finita che pretenda di fissarsi come assoluta, nel mettere in luce la costante contraddizione che si sviluppa nella vita dell'uomo tra i fini che egli persegue, la concezione del mondo a cui si ispira, e i risultati che via via consegue. In questo senso è sintomatica pure l'insistenza con cui Jaspers si richiama, nel suo giudizio sul nichilismo, a Hegel come filosofo della mediazione, accostandolo a Nietzsche filosofo della negazione. Per Jaspers quindi il nichilismo ha senso soltanto come momento interno di una tensione esistenziale che Nietzsche ha intuito e vissuto in modo estremo. Se, invece, di tale tensione viene isolato solo uno dei poli, quello della negazione, non si può non sfociare o nell'arbitrio assoluto di una sofistica che usa le dottrine come puro strumento del proprio desiderio di potere, o nell'impassibilità di uno scetticismo capace soltanto di mostrare l'insostenibilità di qualsiasi affermazione, o nel sadismo di una perenne compiaciuta accentuazione degli aspetti negativi dell'esistenza o, infine, in forme di fede o, addirittura, di credulità arbitraria nei surrogati più vari e banali dei valori metafisici e religiosi dichiarati inconsistenti e perenti.
Una contestazione radicale di ogni interpretazione umanistica, e quindi anche di quelle esistenzialistiche del nichilismo è venuta poi proprio da un filosofo come Heidegger che, pure, per un certo tempo è stato considerato un maestro dell'esistenzialismo, ma il cui pensiero si è, però, sempre più indirizzato in senso ontologico. Proprio in base all'ontologia, ossia al riferimento al problema dell'essere, Heidegger ha attaccato tanto ogni concezione soggettivistica e antropocentrica del nichilismo, come se esso concernesse soltanto la scomparsa o la trasvalutazione di certi valori, quanto ogni considerazione puramente storico-culturale del nichilismo quale semplice fenomeno di decadenza, quanto, infine, ogni pretesa di superare il nichilismo stesso in virtù della scoperta di nuovi valori (v. Heidegger, 1961). Quello che divide Heidegger da Nietzsche o, più esattamente, quello che Heidegger imputa a tutte le concezioni correnti del nichilismo, è di non aver riportato il problema del nichilismo al rapporto originario tra essere e nulla, o, meglio, di non aver posto il problema ontologico del nulla, dissimulandolo invece sempre in un semplice problema storico-cuiturale del tramonto di certi valori e dell'invenzione di altri. Tuttavia merito, sia pur inconsapevole, di Nietzsche è stato di aver manifestato nel modo più crudo e lampante l'origine di questo fraintendimento radicale del nichilismo, nella misura in cui ha collegato il problema del nichilismo e quello del suo superamento, come scoperta di nuovi valori, al concetto di ‛volontà di potenza'. Nietzsche, infatti, ha messo chiaramente in luce che i valori non sono altro che esplicitazioni della volontà di potenza; si dice che qualcosa vale proprio nella misura in cui corrisponde a un calcolo dell'uomo per potenziarsi, per imporre il suo dominio sulle cose. I valori non hanno dunque nessuna consistenza intrinseca o metafisica, ma, al contrario, è la metafisica con i suoi valori a essere sempre una estrinsecazione della volontà di potenza e come tale antropomorfica, ‛prospettivistica'. Questo, naturalmente, a patto di intendere la volontà di potenza non come volontà o volizione contingente di questo o quell'individuo, ma come ‛volontà di volontà', come volontà di assoggettare l'essere al potere dell'uomo, riducendolo a enti che si possono ordinare sistematicamente, oggettivamente, con il calcolo, secondo l'ideale della scienza moderna. Esplicitando e radicalizzando questo carattere antropomorfico della metafisica, Nietzsche l'ha portata a compimento, ma tale compimento non deve esser inteso come un semplice processo teorico, bensì come un avvenimento che segna e rivela il destino dell'Occidente e dell'intero pianeta. Proprio quando, infatti, è giunta al suo compimento e alla sua autodistruzione come sapere filosofico, la metafisica è andata sempre più ampiamente realizzandosi nell'intero pianeta come tecnica. Dove il termine tecnica non indica, però, soltanto l'ambito specifico dell'apparato produttivo fondato sulle macchine, ma l'intera organizzazione del reale, e cioè l'oggettivazione della natura, il movimento e lo sviluppo della cultura, la manipolazione della politica e delle ideologie (v. Heidegger, 1956). Questo grandioso, anche se minaccioso, successo della metafisica che ha portato, in ultima analisi, ad abbandonare l' ‟animale da lavoro alla vertigine delle sue produzioni affinché da se stesso si distrugga e si annienti nella nullità del niente" (v. Heidegger, 1956, p. 47) non è stato però casuale, ma condizionato dal fatto che la metafisica è nata e si è affermata con l'oblio di quella che Heidegger chiama la ‟differenza ontologica", ossia la differenza tra l'essere e gli enti, e, perciò stesso, si è trovata nell'impossibilità di impostare correttamente il problema del nulla e del nichilismo. Il nulla infatti non è la semplice negazione logica degli enti o tanto meno il loro annientamento, quanto piuttosto ciò per cui gli enti nella loro molteplicità e transitorietà non sono l'essere, ma rinviano all'essere; l'essere, a sua volta, a differenza degli enti, non è mai semplicemente presente, disponibile, dato alla ‛rappresentazione', ossia nel modo in cui l'uomo conosce gli enti. In altri termini, per rispondere alla domanda fondamentale della metafisica: ‟perché ci sono gli enti e non piuttosto il nulla?" non è mai possibile fermarsi agli enti, ma occorre rivolgersi all'essere nello spazio aperto dal rapporto tra gli enti e il nulla, come ciò che li minaccia e ne mette in forse l'essere. In questo modo si chiarisce la funzione centrale del nulla non solo rispetto agli enti, ma anche all'essere, che nel rapporto con gli enti si disvela (come essere degli enti) e al tempo stesso si occulta (come irriducibile agli enti). Ora la metafisica, che pure aveva cominciato ponendosi il problema dell'essere, ha dimenticato tale funzione necessaria del nulla perché, a partire da Platone, ha concepito l'essere in termini astratti e generici, come ciò che vi è di comune tra gli enti in quanto essi sono presenti e disponibili alla conoscenza e alla prassi umana. Per cogliere il vero significato del carattere nichilistico della metafisica è però essenziale tener ben presente che, come la differenza ontologica tra l'essere e gli enti non è affatto il risultato di una distinzione operata dalla ragione umana, bensì della presenza operante del nulla in tale rapporto, così pure l'oblio della differenza ontologica da parte della metafisica non è affatto il frutto di una semplice omissione compiuta da questo o da quel filosofo, bensì dipende dalla storia stessa dell'essere che, essendo originariamente in rapporto con il nulla, non può non dar luogo a un processo insieme di disvelamento e di occultamento. Soltanto quando si sia compreso il carattere ontologico e necessario di questo processo e, con ciò stesso, si sia riconosciuto che il nulla non è un ente o un oggetto di cui si possa affermare o negare metafisicamente qualcosa, bensì la negazione totale e globale del modo di pensare metafisico, diventa possibile distinguere dal nichilismo ‛inautentico', usualmente riconosciuto e identificato con gli aspetti negativi e decadenti della civiltà, un nichilismo, invece, ‛autentico' che neppure Nietzsche ha potuto individuare e riconoscere, poiché è rimasto ancora prigioniero della metafisica. Il nichilismo ‛autentico', infatti, consiste nel comprendere ontologicamente il problema del nichilismo considerando la sua funzione rispetto all'occultamento dell'essere da cui è sorta e si è sviluppata la metafisica. Proprio per questo, secondo Heidegger, non ha senso parlare di un ‟superamento" del nichilismo, e neppure, entro certi limiti, di un ‟superamento" della metafisica. Si deve piuttosto prendere coscienza delle ragioni intrinseche e necessarie del loro sviluppo e compimento e, di conseguenza, compiere un ‛passo indietro' verso quello che la metafisica, per il proprio intrinseco carattere nichilistico, ha lasciato necessariamente ‛non pensato'. Da questo punto di vista è particolarmente istruttiva la replica di Heidegger a Ernst Jünger, che nel saggio Über die Linie (v. Jünger, 1950) aveva sostenuto che il nichilismo è ormai giunto al suo compimento e che pertanto il ‟meridiano zero" è stato superato. Compimento, osserva Heidegger, non significa affatto fine, e cioè il fatto che il nichilismo oggi domini attraverso la tecnica e l'organizzazione l'intera vita planetaria secondo criteri sempre più omogenei e oggettivi non significa affatto che abbia concluso la sua parabola, ma piuttosto che ‛ora' inizia il suo dominio o comunque lo manifesta nel modo più pieno. Per rimanere dunque all'immagine del ‟meridiano zero", il discorso sul nichilismo non deve essere, come vuole Jünger, un discorso trans lineam (e per essere tale dovrebbe realizzarsi in forme di pensiero e di linguaggio non metafisici), ma può essere soltanto un discorso de linea, che porti a riconoscere le ragioni effettive del compimento del nichilismo senza nessuna illusione circa il suo superamento. Jünger, come Nietzsche e come quanti pensano di avere ricette e criteri per superare il nichilismo, commettono l'errore di volere, proprio come diceva Nietzsche, una filosofia come ‟medicina della cultura", mentre la filosofia può soltanto prendere coscienza del processo di compimento e di distruzione della metafisica, e non certo illudersi di rimediare a tale processo raccogliendo e ripresentando a nuovo parti di quell'edificio che la metafisica ha costruito e che è andato distrutto. In questo senso il pensiero heideggeriano rappresenta nel Novecento la ripresa e la radicalizzazione più esplicita e organica del nichilismo dal punto di vista filosofico, in quanto il nichilismo viene considerato come il destino stesso della filosofia occidentale, il nulla non è visto come una categoria statica e alternativa rispetto all'essere, ma come il principio dinamico interno della sua storia di manifestazioni e occultamenti nel pensiero dell'uomo al di fuori di ogni possibilità di sintesi sistematica o metafisica, e il pensiero dell'uomo, a sua volta, viene sottratto a ogni arbitrarietà o prospettivismo moralistico e soggettivistico, e riportato allo sviluppo interno della storia dell'essere.
Che il nichilismo vada considerato come l'estrema propaggine della filosofia occidentale e, al tempo stesso, che non abbia senso la pretesa di un suo superamento sono tesi che si trovano pure nella ‟dialettica negativa" di Theodor W. Adorno (v., 1966), però in aperta polemica contro l'esistenzialismo e i suoi fondamenti ontologici, considerati come ulteriore frutto di una prospettiva soggettivistica ormai condannata e consumata nell'‛irrazionalità' e assurdità del mondo a cui ha dato luogo il processo di razionalizzazione sviluppato dalla ragione ‛strumentale' e tecnologica. Per Adorno il nichilismo teorico e astratto non è altro che una forma secolarizzata o, peggio, ‟depravata" dell'idealismo speculativo, giacché porre in blocco il problema del ‛senso' della vita e affermare che tutto è nulla, che tutto è vano, significa mettersi in una prospettiva altrettanto vuota e mitica di quella da cui Hegel fa cominciare nella logica il movimento del concetto, con la differenza, però, che Hegel non si ferma affatto alla vuota e morta identità, ma la assume per andare oltre la sua nullità e giungere alla determinatezza. Il nichilismo come teoria non va, però, solo respinto in quanto vuoto e contraddittorio, ma soprattutto perché ‛ideologico'; domandarsi se la vita abbia un senso, e cioè se possa essere soddisfacente, significa infatti assumere come criterio ultimo di giudizio la cupidigia, il desiderio, e quindi mantenere tanto la domanda quanto la risposta in quel ciclo di soddisfazione e di appropriazione da cui derivano appunto gli aspetti assurdi e terrificanti della società su cui il nichilismo profonde le sue geremiadi. L'irrazionalità della società tardo-borghese non è qualcosa che può essere espresso teoricamente o mediante formule generali, e tanto meno qualcosa a cui si possa contrapporre un'alternativa ‛teorica' come pretendono i ‛superatori' del nichilismo; piuttosto, una situazione così disperata può essere espressa solo indirettamente attraverso il ritegno perfino a nominarla. In questo senso la contraddizione interna alla situazione assurda in cui si è conclusa la ragione apre la possibilità di un vero che neppure può essere più pensato: l'ontologia negativa è la negazione dell'ontologia. Non alla filosofia tocca dunque il discorso sull'assurdità della realtà, ma piuttosto al ‛dramma' che ammutolisce nel gesto, si irrigidisce nel mezzo del dialogo; quel dramma del non senso che ha la sua realizzazione esemplare in Beckett (specialmente in Fin de partie) dove l'assurdo, il fatto che ormai l'intera realtà è un campo di concentramento, non viene tematizzato, ma realizzato concretamente in quanto il processo di razionalità e di comunicazione si ripiega su se stesso e sfocia nella propria distruzione e nella propria impossibilità (v. Adorno, 1961). Parlare quindi di superamento del nichilismo significa per Adorno semplicemente allearsi con ogni volgarità sussistente e con il principio distruttivo stesso, contrapponendogli soltanto fruste ‛positività' che ne sono frutto e conferma, mentre il filosofo, al più, dovrebbe dichiarare di non essere mai abbastanza ‛nichilista' nella misura in cui è troppo ‛freddo', non prova abbastanza simpatia per chi soffre.
Quale sviluppo radicalmente antistoricistico e anticristiano del nichilismo va infine ricordata la posizione di K. Löwith, che ravvisa l'attualità del nichilismo nietzschiano nell'idea dell' ‟eterno ritorno" come tentativo di ‟rifidanzare" l'uomo con il mondo inteso come natura. Il nichilismo, in questo senso, porterebbe alla ripresa dell'antica concezione greca del rapporto originario tra uomo e cosmo, concezione stravolta dal cristianesimo prima e dal soggettivismo moderno poi, che, per vie diverse, hanno subordinato la natura all'uomo e ai suoi valori, invece di riconoscere che l'uomo è inserito anzitutto biologicamente in un mondo privo di qualsiasi senso e scopo nel suo sorgere e perire (v. Löwith, 1960).
3. Nichilismo, teologia e religione
Alla radicalità della critica del nichilismo contro l'intero sviluppo della filosofia greco-cristiana corrisponde una critica non meno violenta, che in Nietzsche spesso assume la forma dell'invettiva, contro la teologia e la religione, che per tanti aspetti a quella filosofia sono state strettamente legate. Nel nostro secolo, tuttavia, il rapporto tra nichilismo, teologia e religione si è venuto configurando in modo assai più complesso di quanto potevano far pensare i toni accesi dell'anticristianesimo e dell'ateismo professati dal nichilismo ottocentesco. Questo non certo nel senso che dal nichilismo siano scaturite direttamente nuove rilevanti forme di teologia o di religione, tali da contraddire l'accusa rivolta da Nietzsche alla civiltà occidentale di aver perso qualsiasi capacità creativa in campo religioso e, in quasi duemila anni dopo Cristo, di non aver saputo neppure inventare un nuovo Dio. Episodi come il tentativo di Klages e del suo seguito di ‛cosmici' di instaurare una nuova mistica dell'‛eros cosmogonico' venata di elementi dionisiaci, per realizzare quel ritorno all'unità originaria che poteva mettere in salvo la ricchezza della vita dell'‛anima' minacciata dalla forza disgregatrice dello ‛spirito', hanno sì contribuito a creare una certa atmosfera agli inizi del Novecento, ma un'atmosfera che ha finito con l'avere un carattere piuttosto estetico, nel senso lato del termine, che non con l'imporre nuovi modelli di religiosità capaci di rivaleggiare con la diffusione e la penetrazione di quelli tradizionali. Così pure la contrapposizione nietzschiana di Dioniso a Cristo e la ripresa del momento dionisiaco represso o emarginato dal cristianesimo hanno avuto notevole efficacia in campo letterario (v. Rosteutscher, 1971) e, attraverso la letteratura, hanno inciso sul costume e sulla morale in concomitanza con il diffondersi delle diverse forme di filosofia della vita, dell'azione e dell'intuizione, senza però dar luogo effettivamente a qualcosa che si possa considerare come una nuova teologia o una nuova religione.
Anche i tentativi espliciti di ricavare una vera e propria teologia filosofica dal nichilismo sembrano rimasti limitati alla cerchia di una discussione specialistica piuttosto ristretta, come dimostra per esempio il recente dibattito sulla possibilità di una ‟teologia all'ombra del nichilismo" sollevato dal filosofo tedesco Weischedel con la sua radicalizzazione del nichilismo (v. Weischedel, 1971; v. AA.VV., 1971 e 1975). Secondo Weischedel, infatti, il nichilismo non può essere limitato alla semplice negazione della verità, di Dio, del senso della vita; alla base di tali negazioni c'è un interrogarsi dell'uomo che non si spiegherebbe senza ammettere una problematicità originaria da cui tale interrogarsi proviene e a cui si riferisce. Certo, questo non autorizza minimamente a tornare a una concezione di Dio come esistente o come persona, ma, tuttavia, legittima, secondo Weischedel, una ‟teologia filosofica" come coscienza del carattere radicale della problematicità evidenziata dal nichilismo.
Incomparabilmente più vasta l'efficacia del pensiero heideggeriano sulla teologia del nostro secolo, ma questo non nel senso che in Heidegger si sia concretato in un nuovo discorso teologico lo spiraglio verso il divino indubbiamente lasciato aperto dalla sua interpretazione del nichilismo (v. Caracciolo, 1976), bensì piuttosto nel senso che la teologia contemporanea ha utilizzato in genere metodi heideggeriani (prima l'analitica dell'esistenza e poi l'ermeneutica) per una ripresa e un rinnovamento di temi cristiani del tutto estranei alla concezione heideggeriana del nichilismo.
Molto diverso invece dev'essere il giudizio se si considera quello che il nichilismo ha significato per la teologia e la religione del nostro secolo nella sua veste di istanza critica, o, quanto meno, di interlocutore privilegiato che, attaccandone le fondamenta, ha costretto il pensiero teologico ad assimilarne motivi ed esigenze per un fecondo riesame della propria possibilità e validità. In questo senso, allora, è possibile riscontrare tutta una gamma di posizioni che vanno dalle repliche di ispirazione più tradizionale, secondo le quali il nichilismo è uno dei tanti allontanamenti dell'uomo da Dio verificatisi nella storia, ma sostanzialmente privo di fondamenti validi e, perciò stesso, già da sempre ‟superato" dall'annuncio evangelico (v., per es., Fries, 1949), all'accettazione della ‟morte di Dio" come principio di rinnovamento, l'unico possibile, della teologia e del cristianesimo. Così, fin dai primi decenni del Novecento, il nichilismo ha dato un importante contributo al dibattito teologico-religioso con la sua polemica - anzi rottura radicale - non solo rispetto alla religione tradizionale, ma anche contro i tentativi, tipicamente ottocenteschi, di sostituirvi forme laiche di ‛religione dell'umanità', o di cercare nella storia e nella società la realizzazione di quei valori umani che erano stati indebitamente ‛alienati', ossia trasferiti in un Dio trascendente. Il nichilismo infatti si pone come critica radicale di tutti i valori di cui la religione e, in particolare, il cristianesimo si erano fatti assertori, ma non soltanto in quanto sono considerati trascendenti, bensì per la loro natura stessa di valori intrinsecamente negatori della vita, volti ad assicurare l'indebita protezione dei deboli e dei risentiti, o addirittura il loro predominio, rispetto ai forti e agli spietati; in questa posizione estrema si comprende perché nell'Also sprach Zarathustra la traiettoria della morte di Dio venga considerata tanto più vicina al suo compimento quanto più Dio mostra di aver perso i caratteri dispotici e addirittura vendicativi del Vecchio Testamento, per diventare sempre più un esangue coacervo di valori morali. Se ancora si ricorda quanto Nietzsche aveva affermato, e cioè che, propriamente, era stato soltanto il ‟Dio morale" a essere stato ‟confutato" o, ancora, che Dio non si era veramente distrutto, ma stava soltanto ‟cambiando pelle" per riapparire presto ‟al di là del bene e del male", non è difficile comprendere come si sia potuta realizzare una certa convergenza tra la polemica antireligiosa del nichilismo e la rinascita di una religiosità del tutto opposta a ogni forma di religione umanistica e moralistica, quale appunto si manifesta nel pensiero di Kierkegaard con la sua ben nota emblematizzazione della religione nella figura di Abramo chiamato da Dio a un sacrificio assurdo, moralmente immotivabile e inspiegabile. È questa l'atmosfera che vede fiorire nei primi decenni del secolo una ‛teologia dialettica' o ‛teologia della crisi' tutta fondata sul paradosso e sull'impossibilità e illegittimità di una qualsiasi giustificazione morale o razionale della salvezza.
Più tardi è stato un altro motivo tipico della polemica antireligiosa e anticristiana del nichilismo nietzschiano ad assumere grande efficacia, e cioè la tesi che proprio l'esigenza di sincerità e di veridicità avanzata dal cristianesimo sia stata uno dei fattori determinanti della sua dissoluzione, poiché ha portato a riconoscere non solo l'inconsistenza della religione dal suo lato teorico, ma soprattutto la sua sempre maggiore estraneità al concreto modo di vivere dell'uomo odierno. In effetti, nell'ampio dibattito che si è svolto negli ultimi decenni e che va dal ‟cristianesimo senza religione" di un Bonhoeffer fino alle più recenti e radicali affermazioni della ‟teologia della morte di Dio", ricorre costante il richiamo alla necessità di essere sinceri o, come dice il titolo di un libro (pubblicato dal vescovo anglicano J. A. T. Robinson nel 1963) che, non a caso, ha avuto molta fortuna in questo dibattito, di essere Honest to God non per motivi semplicemente individuali, ma per una situazione storica ormai irrevocabile. In altri termini, il problema non è più, come nel passato, di aggiornare le argomentazioni teologiche e religiose, tenendo presenti le conquiste più recenti della filosofia e della scienza, per inserirle entro i quadri sostanzialmente inalterati della fede in un Dio trascendente e creatore; al contrario, l'‛onestà' intellettuale e morale impone ormai una sorta di salto qualitativo che porti a riconoscere in blocco l'inaccettabilità e insostenibilità della rappresentazione tradizionale, più o meno mitologizzante, del Dio personale e trascendente a cui per secoli è stato connesso il cristianesimo e di cui nessuno come Nietzsche ha annunciato con tanta chiarezza la morte. Proprio l'esigenza di veridicità e di onestà di fronte a se stessi, agli altri, ma anche e soprattutto di fronte a Dio, richiede che si riconosca che il mondo ormai è divenuto ‛maggiorenne' e non ha alcun bisogno di Dio per risolvere i suoi problemi né da un punto di vista teorico né da un punto di vista morale. Non è certo questo il luogo per esaminare, o anche semplicemente ricordare, gli sviluppi, spesso assai diversi tra loro, di questa impostazione del problema teologico in senso postreligioso, nella misura appunto in cui la religione sia il rapporto con un ‛Dio tappabuchi', un Deus ex machina destinato a venir incontro ai bisogni e al senso di impotenza e frustrazione dell'uomo; sviluppi che vanno da una radicale ripresa del cristianesimo senza e contro la religione, nel segno del Cristo sofferente che, come l'uomo, si sente abbandonato da Dio, a forme radicali di secolarizzazione che nella ‟morte di Dio", nella scomparsa della categoria del ‟sacro", vedono una svolta decisiva verso un cristianesimo che sappia camminare ‟dal chiostro verso il mondo", fino a forme più complesse che, proprio nell'estremo nichilismo e nella dottrina dell'eterno ritorno, vedono come una promessa o una speranza di rovesciamento della situazione verso una nuova comparsa del divino (v. AA.VV., 1972 e 1973).
Tuttavia un cenno almeno è ancora necessario riguardo agli sviluppi di un motivo centrale nella polemica antireligiosa del nichilismo nietzschiano, e cioè il motivo del ‟risentimento", la cui critica in Nietzsche, com'è noto, coincide con il rifiuto del cristianesimo. Ora, già nei primi decenni del secolo, M. Scheler con la sua analisi della funzione del risentimento nella fondazione dell'etica (v. Scheler, 1955) aveva respinto tale identificazione, sostenendo che non solo il risentimento non coincide con il cristianesimo, ma che le sue matrici vanno piuttosto cercate nella filantropia universale dell'età moderna, come protesta contro l'amore cristiano quale amore di Dio e del ‟prossimo", ma non dell' ‟umanità". Ma è soprattutto con Bonhoeffer e la sua contrapposizione del cristianesimo alla religione, quale frutto appunto di un senso di impotenza e di frustrazione, che si hanno un rovesciamento e un'utilizzazione della critica nietzschiana contro il risentimento, in polemica contro ogni tendenza a portare l'uomo al cristianesimo valendosi dello psicologismo, della psicanalisi e dell'esistenzialismo, nella misura in cui queste correnti fanno leva sul sentimento di debolezza, di frustrazione, di colpa, e al limite, di disperazione dell'uomo. Alla base di questo ‟metodismo secolarizzato", che postula una contraddizione tra esterno e interno, tra palese e occulto, del tutto estranea al cristianesimo, Bonhoeffer ravvisa infatti una sorta di gioia sadica volta a intaccare tutto ciò che è puro, sano, semplice per riportarlo a elementi patologici e perversi; un atteggiamento, in ultima analisi, di astio e di diffidenza che esprime ‟la rivolta dei mediocri" e di cui non c'è traccia in Gesù, che opera sì il ‟rovesciamento di tutte le valutazioni umane", ma non certo per mettere in questione la salute, la forza e la felicità dell'uomo, bensì per rivendicare per sé e per Dio l'intera vita umana in tutte le sue manifestazioni.
4. Nichilismo, etica e costume
Se l'incidenza del nichilismo è apparsa già notevole nel campo del pensiero religioso, anche maggiore è la sua rilevanza rispetto all'etica, di cui sembra messa in dubbio la stessa possibilità di sopravvivenza in base ai presupposti tanto del nichilismo russo, quanto di quello nietzschiano. Se infatti Dio è morto, se Dio non c'è, non si dovrà trarre la conclusione che tutto è ugualmente lecito e illecito, ovvero per dirla con Camus (v., 1951) che tanto vale attizzare i forni crematori quanto consacrarsi alla cura dei lebbrosi, poiché malizia e virtù sono caso o capriccio? Anche qui, però, o forse qui più che mai, va osservato che il problema degli esiti del nichilismo nel nostro secolo è assai più complesso e articolato di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Cominciando dai suoi aspetti polemici, va rilevato che il nichilismo non si è affatto chiuso in un semplice rifiuto del problema morale, ma piuttosto ha operato o, comunque, ha contribuito a operare un profondo rovesciamento di valori e di criteri di valutazione. Così, attaccando alla radice quelli che per secoli erano stati i valori della civiltà occidentale, il nichilismo ha aperto la strada a una sorta di esaltazione dell'eroe negativo di fronte a quella morale che si considerava frutto di risentimento, mistificazione o ipocrisia. Se, per un verso, Nietzsche aveva sostenuto che era di gran lunga migliore una cattiva azione piuttosto di un cattivo pensiero, per altro verso, molto romanzo russo dell'Ottocento, secondo una linea destinata ad avere ampio successo, aveva ravvisato nei reietti e, al limite, perfino negli assassini, una sostanza etico-religiosa molto superiore a quella delle persone considerate ineccepibili secondo la morale vigente. E non è poi certo un caso che un autore così sensibile alla problematica nichilistica come H. Hesse nel suo romanzo Demian riprenda e sviluppi così ampiamente una tematica già affiorata nel romanticismo, e cioè la rivalutazione di Caino e dei ‛cainiti' rispetto agli schemi consueti della morale. Il senso della storia di Caino non è certo quello spiegato dai ‛maestri di scuola', bensì addirittura l'opposto, e il ‛segno' di Caino e della sua stirpe non è un marchio di condanna, bensì di elezione, giacché caratterizza quella schiatta di gente impavida e inquietante, che sola è capace di spinger l'umanità da un ‛idillio ristretto' verso ‛pericolose lontananze' nei momenti cruciali della storia. Ma, al di là del rovesciamento di certi criteri usuali di valore, nel nichilismo nietzschiano si è vista ancora di recente (v. per es. Marcuse, 1955) una più generale rivoluzione in campo etico come liberazione totale dal senso di colpa - di cui si è mostrata l'origine storica e sociale -, accompagnata dalla proclamazione, contro gli ideali ‛repressivi', di un principio di realtà fondamentalmente antagonistico a quello dell'intera civiltà occidentale, e cioè la rivendicazione piena e totale della vita come gioia e godimento. Infine non va forse sottovalutata la portata polemica della rivendicazione nietzschiana del ‟corpo" come ‟grande ragione" contro la piccola ragione prevalsa nell'età moderna attraverso la contrapposizione cartesiana di pensiero ed estensione e l'affermazione di una razionalità autonoma e indipendente rispetto alla vita istintuale e corporea; un ‟corpo", ovviamente, da intendersi non nel senso limitato del materialismo ottocentesco e positivistico, ma nel senso più ampio di completa disponibilità a sviluppare le infinite possibilità di felicità che rimangono ancora inesplorate nella ‟volontà di potenza" e che per secoli sono state represse e calunniate.
Al di là di queste linee polemiche, venendo al rapporto diretto tra nichilismo e morale, si possono forse distinguere tre posizioni fondamentali, da quella che vuole ricondurre il nichilismo alla più rigorosa coerenza in campo etico, coerenza ravvisata nel suicidio, a quella che dal nichilismo prende lo spunto per cercare nuovi e diversi modelli morali rispetto a quelli mostratisi ormai irrimediabilmente falsi e consunti e, infine, a quella che è stata la conseguenza di più vasta portata del nichilismo, e cioè l'abbandono della stessa problematica morale, l'accettazione della vita senza più alcuna richiesta di senso e, al limite, senza neppure più avvertirne l'assurdità. Per quanto riguarda il primo punto, va ricordata anzitutto la posizione assunta da A. Camus (v., 1942) secondo cui, dopo il nichilismo, il più autentico e urgente problema filosofico non può essere che quello del suicidio. Di fronte alla concezione nichilistica della vita come assurda, priva di senso, sono possibili, secondo Camus, due risposte altrettanto errate, che consistono rispettivamente nel suicidio vero e proprio, oppure nel ‟suicidio filosofico", attuato dalle filosofie esistenzialistiche che, dopo aver riconosciuto la situazione attuale di crisi dell'uomo, hanno cercato la via d'uscita nell'appello a una qualche trascendenza metafisica o religiosa. Entrambe queste soluzioni, secondo Camus, non rendono veramente giustizia all'insegnamento del nichilismo in quanto sopprimono, ma non risolvono, il problema che deve, invece, essere affrontato positivamente, accettando l'assurdità della vita per realizzare in continua lotta contro di essa, come Sisifo con il macigno, la felicità consentita all'uomo che sa farsi padrone del proprio destino. Sempre a proposito del suicidio, va pure ricordata la posizione di H. Hesse, soprattutto nel romanzo Der Steppenwolf e nella parte più specificamente teorica di esso, il Traktat über den Steppenwolf. Nel quadro di una polemica esplicita contro la morale cristiana e borghese, il problema del suicidio viene risolto in termini assai vicini all'insegnamento nietzschiano, anche se in Hesse operano, com'è noto, elementi, da un lato, della tradizione pietistica e, dall'altro, del pensiero orientale. Come via d'uscita dallo stato di vuoto e di disperazione viene indicato il suicidio, non come atto effettivo, ma come fondamento etico di una superiore disposizione a mettere alla prova, oltre ogni limite previsto o immaginabile, la capacità umana di soffrire, in base appunto alla certezza di poter interrompere tale prova, quando diventasse veramente insopportabile, mediante il libero rifiuto della vita. Una prova oltremodo stimolante, nella misura in cui non si tratta semplicemente di perpetuare un'esistenza di cui già si è in possesso, quanto piuttosto di cercarla e inventarla continuamente. Come afferma Hesse, abbiamo certamente un solo corpo, ma non è affatto vero che abbiamo una sola anima: siamo piuttosto un fascio di impulsi, sentimenti, tendenze che possiamo cercare di coordinare in modo unitario, senza mai illuderci di essere tornati veramente ‟a casa", ossia di aver veramente attinto quell'unità definitiva e consolidata che per secoli è stata attribuita all'anima umana. Passando poi a esiti meno rivolti alla ricerca della coerenza radicale del nichilismo e di più all'invenzione di nuove forme di morale postnichilistica, vanno ricordati gli inizi del Novecento, quando veramente il nichilismo è stato sentito e vissuto come una grande apertura verso nuovi orizzonti etici, come un'enorme liberazione rispetto a norme morali considerate ormai sclerotizzate e paralizzanti, come l'avvio a nuove forme di eroismo etico ed estetico. Basti ricordare il modo in cui D'Annunzio celebra la morte di Nietzsche quale ‟asceta" che parlava sulla ‟plebe schiava" e sulla ‟moltitudine morta" e che seppe ritrovare ‟la porta antica della Vita bella" o, ancora, quale ‟Barbaro enorme che risollevò gli iddii sereni dell'Ellade su le vaste porte dell'Avvenire", per avvertire la chiave decadente ed estetizzante in cui si sviluppa la ricerca di un nuovo programma di vita, una vita inimitabile ed eccelsa, dove ‟si danza sugli abissi" e si compie ‟sotto il rombo della tempesta l'opera austera". In effetti il nichilismo nietzschiano operava in quegli anni, più che come una dottrina estremamente complessa, soprattutto come un ‟eccitante", quale doveva poi qualificarlo Valéry, e perciò stesso veniva considerato da molte parti come una forza di corruzione morale, come principio di un vero e proprio immoralismo (anche se spesso più letterario e verbale che non effettivamente praticato e vissuto). Comunque, per i tratti essenziali dell'‛immoralismo' di quegli anni, rimangono sempre significativi quelli delineati da Gide: polemica contro l'erudizione, la cultura, la storia, come forze destinate a ottundere gli istinti vitali; celebrazione di quanto di più vigoroso e di fresco, anche se spesso primitivo, potessero offrire le forze della vita; ricerca dell'evasione e continua disponibilità all'avventura e alla conquista; egoismo estetizzante e raffinato, spinto all'estremo come ostentata noncuranza delle sue possibili conseguenze sugli altri, in obbedienza all'unico imperativo etico superstite: ‟il dovere di essere felici". L'abbattimento della vecchia morale e l'esaltazione del superuomo scatena poi nelle ‛avanguardie' un entusiasmo spericolato e provocatorio, come si può vedere nel futurismo dove non ci si limita a combattere contro il moralismo e contro ogni ‟viltà opportunistica e utilitaria", ma si giunge a glorificare la guerra ‟come sola igiene del mondo". Così pure, nel futurismo, la tendenza a una nuova umanità superiore travalica i confini dell'individualismo raffinato ed estetizzante e sbocca anche in un esaltazione delle ‟grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa", delle ‟masse multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne" e, insieme, del mondo della macchina e della velocità che hanno lasciato alle loro spalle il tempo e lo spazio e fanno sì che l'uomo viva già nell'assoluto (v. Arnold, 1971). Da ultimo, bisogna considerare il rapporto tra nichilismo, etica e costume in una dimensione diversa da quella delle scelte consapevoli e degli sviluppi innovatori, ed esaminare la sua presenza largamente diffusa anche là dove non viene filosoficamente tematizzata. A questo proposito è forse utile ricordare la distinzione, largamente utilizzata, tra un nichilismo ‛professato' (nel senso in cui si professa un credo politico, religioso e morale), che consisterebbe nell'affermare esplicitamente che nulla ha senso, nulla ha valore, e un nichilismo invece ‛cifrato', dissimulato, e perciò stesso molto più diffuso, dove si esibiscono come moventi dell'azione ideali di cui però si conosce perfettamente l'inconsistenza e che vengono utilizzati propagandisticamente per affermare il proprio potere sugli altri e, specificamente, sulle masse (v. Thielicke, 1950). Ma, anche a prescindere da questo tipo di sfruttamento nichilistico di principî morali e politici, in cui in realtà non si crede, la questione è piuttosto se in gran parte della nostra civiltà non si sia già realizzato quanto prevedeva Nietzsche, e cioè il fatto che la caduta di tutti i valori porta a escludere che ancora abbia un senso porre la domanda di un ‛perché' del mondo, della vita e dell'azione. In questo senso la presenza del nichilismo non si esaurisce certo nei programmi più o meno aristocratici ed estetizzanti di alcune avanguardie, ma piuttosto rappresenta ormai ‟l'aria che respiriamo" (v. Fries, 1949), un presupposto che neanche più si mette in questione e che ha così compenetrato la nostra vita da rendere ovvia una forma di esistenza ‟unidimensionale" incapace tanto di interrogativi, quanto di risposte e, soprattutto, indifferente a entrambi (v. Rauschning, 1954). Si comprende allora il tentativo compiuto da Ernst Jünger (v., 1950) di liberare decisamente il nichilismo dalle rappresentazioni un po' oleografiche di cui è stato rivestito per decenni, escludendo che esso si possa identificare con il caos, con la malattia e la decadenza o, peggio, con il male. I moderni Stati totalitari e l'organizzazione tecnocratica sempre più dispotica della società mostrano come il nichilismo, e cioè la totale assenza di una domanda sul ‛perché', sia perfettamente compatibile con l'ordine più raffinato e asettico, anzi ne rappresenti la condizione ottimale, come del resto conferma il prevalere dovunque di una specializzazione sempre più avanzata che rende praticamente impossibile una considerazione sinottica dei diversi campi. Così pure il nichilismo non può essere identificato con la malattia e la decadenza, giacché, al contrario, il suo avvento segna piuttosto la formazione di ‛uomini di ferro', il cui unico ideale è una spietata efficienza, come dimostra anche l'odierno modo di praticare lo sport quale lavoro specializzato e rivolto non allo sviluppo libero dell'uomo, ma alla sua strumentalizzazione per la conquista del record, del primato a ogni costo. Infine, il nichilismo non può essere identificato con il male e con il crimine, giacché questi termini implicano ancora una possibilità di giudizio che, invece, nella civiltà nichilistica tende sempre di più a scomparire nella misura in cui dal ‛sistema morale' si entra nel ‛sistema automatico', dove trionfa la riduzione a numeri e a cifre. Le stesse ideologie hanno perso gran parte del fascino che potevano ancora esercitare dopo la prima guerra mondiale, mentre ci si avvia sempre di più a una forma di ‛mobilitazione totale' fine a se stessa e destinata a penetrare nell'intera vita dell'uomo. Ricordare come per Jünger a questa tendenza si possa e si debba resistere, tenendo fermi aspetti della vita - l'amore, l'amicizia, la vera arte - di cui il ‛grande Leviatano' non può mai propriamente impadronirsi, ma che soltanto può cercare di violentare e di reprimere, è forse necessario anche per indicare le linee secondo cui Jünger intravvede il superamento del ‟meridiano zero"; ma soprattutto era opportuno accennare alle sue tesi perché sono tra le formulazioni più organiche e sistematiche di tutta una serie di diagnosi che da varie parti ravvisano la presenza del nichilismo nel costume del nostro secolo in un processo sempre più ampio di spersonalizzazione, di cinismo, di sadismo (l'avversario non è più un uomo, ma qualcosa da distruggere a ogni costo per liberarsi dal proprio risentimento) e, al limite, di volgarità, spesso collegata al dilagare del benessere e non alla sua mancanza. Per questa via non si è mancato di addebitare al nichilismo anche lo squallore delle odierne forme di ‛distrazione' e di erotismo, la diffusione del fumetto come forma tipica di analfabetismo di una civiltà priva ormai del gusto della ricerca e della riflessione, il cedimento alla moda come surrogato di modelli religiosi o morali ormai inammissibili (v. Leist, 1961; v. Fries, 1949; v. Rauschning, 19642), dove però la critica del nichilismo sembra confluire nell'alveo più ampio di critiche complessive alla civiltà di massa.
5. Nichilismo e politica
Per quel che riguarda la portata politica del nichilismo va fatta una netta distinzione tra il nichilismo russo e quello nietzschiano, giacché in questo campo la loro efficacia ha avuto un andamento cronologico opposto. Il nichilismo russo infatti è stato al centro di grandi dibattiti soprattutto nella seconda metà del secolo scorso quando, a torto o a ragione, è stato considerato uno dei maggiori responsabili o artefici di tutta una serie di movimenti insurrezionali a carattere anarchico. Al contrario il nichilismo nietzschiano è stato chiamato ripetutamente in causa rispetto ai profondi e spesso terribili sconvolgimenti del nostro secolo, non solo per la radicalità delle sue tesi metafisiche, religiose e morali, ma anche per l'asprezza della sua polemica tanto contro quelli che erano stati i fondamenti millenari della vita politica e sociale, quanto contro le correnti che si proponevano come rinnovatrici in senso democratico e socialista. In effetti Nietzsche ha sviluppato una polemica piuttosto violenta contro il socialismo e la democrazia, considerati come ultima incarnazione di quella religione del risentimento che era stato il cristianesimo, manifestando una sostanziale sfiducia in qualsiasi forma di ‛rappresentanza' e sostenendo che alla decadenza sarebbe stato possibile mettere argine soltanto attraverso un addestramento estremamente severo di una nuova classe dirigente. Si tratta di una concezione sostanzialmente aristocratica della vita politica, dove il termine aristocratico non va, ovviamente, inteso in senso ereditario (Nietzsche stesso irride a chi pensa all' ‛almanacco di Gotha') o tanto meno razziale (è ormai largamente nota la deformazione e strumentalizzazione del pensiero nietzschiano operata dalla sorella Elisabeth Förster Nietzsche e dai teorici del nazionalsocialismo), quanto piuttosto in senso culturale: Nietzsche pensa cioè a quelle aristocrazie che avevano reso possibile lo splendore della civiltà greca o di quella rinascimentale. Questo non esclude che, ad esempio in Francia, nei primi decenni del secolo ci siano stati tentativi di dare addirittura un'interpretazione socialista del pensiero nietzschiano o, comunque, di fondere temi nietzschiani con l'esigenza socialista di formare una classe operaia europea egemone (v. Bianquis, 1929, pp. 89-95), ma in complesso sono state molto più diffuse le tendenze a scorgere nel nichilismo nietzschiano il fondamento di dottrine ‛decisionistiche', fasciste e totalitarie. Per quanto riguarda il ‛decisionismo' va fatto soprattutto riferimento all'opera del giurista e politologo C. Schmitt e alle sue diagnosi sull'evoluzione della vita politica verso forme di democrazia totalitaria. Secondo Schmitt infatti lo Stato liberale e ‟neutrale" dell'Ottocento ha creato una condizione di estrema spoliticizzazione che ha portato, in ultima analisi, a una situazione di ‟nulla culturale, spirituale e sociale", a cui certamente non si può pensare di porre rimedio con la restaurazione di concezioni politiche tradizionalistiche o romantiche, contro le quali anzi Schmitt polemizza aspramente. Si tratta invece di riconoscere che è radicalmente fallito il tentativo di stabilire un rapporto fondante diretto tra diritto e politica e, pertanto, che ogni legge e ordinamento normativo dipende esclusivamente da una decisione politica che non si rifà a nessun principio razionale o di valore, ma piuttosto a una situazione ‟esistenziale" di lotta reale contro un nemico reale. In questa situazione conflittuale e, al limite, bellica di rapporto ‟amico-nemico" (dove, ovviamente, il nemico è l'hostis, il nemico pubblico, ossia un gruppo di uomini che, almeno virtualmente, ne combatte un altro, non l'inimicus, ossia il nemico semplicemente privato, la persona che si odia) finisce con l'assumere la preminenza il potere decisionale indiscusso del ‛capo', come in effetti è avvenuto con il nazionalsocialismo, di cui Schmitt è stato uno dei più importanti teorici. Quanto al rapporto intercorrente tra nichilismo e nazionalsocialismo va poi ricordata la tesi di Rauschning (v., 19642) secondo cui non solo si può stabilire un nesso specifico tra nichilismo e rivoluzione, ma il nazionalsocialismo dev'essere considerato come il tipo più esplicito di ‟rivoluzione" e di ‟politica nichilistica". Secondo Rauschning infatti tutte le parole d'ordine avanzate da Hitler (nazionalismo, germanesimo, culto della razza, polemica contro le democrazie capitalistiche e plutocratiche ecc.) non erano altro che continui espedienti per realizzare un unico scopo di fondo: la volontà di potenza come continua affermazione di se stessa, senza nessun'altra meta, salvo il proprio perpetuarsi senza alcun limite. Proprio per questo il nazionalsocialismo non è affatto un tipo di rivoluzione limitata alla Germania, ma un principio che tende a sovvertire l'ordine esistente in tutto il pianeta, dovunque gli si offra l'occasione di intervenire, utilizzando situazioni conflittuali di altra origine per i suoi scopi. Analogamente, all'interno, il nazionalsocialismo si pone come continua e completa distruzione di ogni rapporto (sociale, etico, religioso e perfino militare) che leghi gli uomini tra loro impedendo loro di essere una massa assolutamente fluida e disponibile alle decisioni insindacabili del Führer. Caratteristica specifica di questa rivoluzione è l'abolizione di ogni preciso confine tra guerra e pace e l'instaurazione di un sistema di ‛mobilitazione totale' tanto in guerra che in pace, come, per altro verso, l'assommare nel Führer la suprema potestà tanto politica che militare. In questo senso il nichilismo si presenta in Europa come una rivoluzione atipica, perché non obbedisce a nessuna delle ideologie tradizionali nè ha propriamente un'ideologia, quanto piuttosto nutre un cinico disprezzo di ogni ideologia, ridotta al semplice ruolo di incessante propaganda. Mentre in Rauschning il legame tra nichilismo e nazionalsocialismo viene affermato piuttosto in base a un'analisi interna del costituirsi e del tendenziale autodistruggersi del regime nazionalsocialista, con Lukács (v., 1960) il rapporto che intercorre tra nichilismo e nazionalsocialismo viene invece stabilito nel quadro di una valutazione più ampia e complessiva della storia europea dal romanticismo all'imperialismo, di cui gran parte della filosofia del nostro secolo è considerata espressione. In questo quadro Nietzsche, sia pure al di là della lettera e degli intenti della sua opera, viene collocato in una posizione ‛oggettivamente' centrale quale fondatore dell'‛irrazionalismo' come apologia del capitalismo ormai avviato a espandersi su scala mondiale come imperialismo. Un tipo di apologia del capitalismo, quella di Nietzsche, molto raffinata e pericolosa, e destinata ad avere un successo di gran lunga superiore a quanto potesse far pensare la relativa esiguità della parte politica vera e propria del pensiero nietzschiano, poiché si presenta con un carattere ‛iperrivoluzionario'. In altri termini, mentre le consuete forme di apologia della società borghese tendono a idealizzarla e abbellirla, o quanto meno a metterne in ombra gli aspetti negativi, l'originalità e la suggestione del nichilismo nietzschiano consistono nel procedere, con estremo cinismo, proprio all'accentuazione degli aspetti barbarici, oppressivi e repressivi del capitalismo (tipica l'insistenza sulla necessità di una forma di schiavitù e, in genere, l'opposizione a ogni forma di uguaglianza), dando così l'alibi all'intellettuale borghese di sentirsi, per questa radicalità di prospettiva, più avanzato e rivoluzionario di quello socialista, mentre rifiuta sostanzialmente una qualsiasi azione concreta e si accontenta di un rivoluzionarismo puramente mitologico. Molto diverso invece il giudizio sulla portata politica del pensiero nietzschiano da parte di Thomas Mann che, pur rimproverando a Nietzsche, come a Sorel, una sopravvalutazione del pericolo di ottundimento e sclerotizzazione della vita a opera dell'intelligenza (il vero rischio, secondo Mann, è piuttosto che accada l'opposto), non esita ad affermare che non è stato Nietzsche a creare il fascismo, quanto piuttosto è accaduto l'inverso, in quanto il fascismo ha utilizzato Nietzsche per i propri scopi (v. Mann, 1958). In realtà, secondo Mann, la posizione di Nietzsche non può essere confusa con il fascismo nè accostata a esso perché ne sta invece agli antipodi: il nichilismo nietzschiano è una sorta di ‟radicalismo aristocratico", mentre il fascismo è una sorta di volgarità che si propone di adulare e sedurre le masse. Ma, al di là di queste distinzioni, c'è in Thomas Mann una tesi di fondo, che risulta già nettamente dalle Betrachtungen eines Unpolitischen, e cioè che Nietzsche è stato non soltanto un grande moralista, ma anche un grande educatore civile che ha propugnato una cultura di respiro europeo, non mai provinciale e nazionale, e ha smascherato dalle radici le mistificazioni propagate dalla cultura ufficiale. Pertanto, anche molte delle critiche contro il nichilismo nietzschiano avanzate da parte socialista dimenticano che la polemica di Nietzsche è tutta diretta contro la morale borghese e vittoriana e lasciano quindi sussistere per lo meno il sospetto di essere legate a quella morale molto più di quanto vorrebbero. Su questo dibattito tuttora aperto si può ancora ricordare un intervento appassionato come quello di G. Bataille (v., 1945), il quale non solo esclude qualsiasi continuità tra nichilismo e nazionalsocialismo, ma ritiene ch'essi siano da collocarsi su piani opposti per una serie di ragioni che vanno dal fatto che in Nietzsche tutto deve essere subordinato alla cultura, mentre nel Terzo Reich la cultura è stata ridotta e subordinata alle finalità della forza militare, al fatto che, esaltando il primato del futuro sul passato, Nietzsche si trova esattamente agli antipodi di ciò che ‟sotto il nome di morte, esecra la vita, e sotto il nome di reazione esecra il sogno" (ibid.).
Il rapporto tra nichilismo e politica infine è stato considerato in un quadro più ampio, che abbraccia le diverse forme di nichilismo e l'intera storia degli ultimi due secoli, da Albert Camus il quale, come in Le mythe de Sisyphe (1942) aveva discusso il problema del nichilismo nel suo ‟significato soprattutto morale prendendo lo spunto dal nesso tra nichilismo e suicidio, così in L'homme révolté (1951) sviluppa gli aspetti soprattutto politici della questione prendendo le mosse dal rapporto tra nichilismo e omicidio. Se infatti nulla ha senso e tutto è ugualmente lecito, diventa possibile, anzi logica, la giustificazione dell'omicidio, ma non di un omicidio gratuito, irrazionale, casuale, bensì sistematico, ‟filosofico", motivato dalla necessità di superare il nichilismo costruendo nella storia il regno dell'uomo al posto del regno di Dio dimostratosi ormai inesistente. La morte di Dio infatti non comporta per nulla la rinuncia all'assoluto, ma piuttosto la ricerca di una giustizia assoluta attraverso un esperimento spietato, un'‟ascesi collettiva" che si concreta negli Stati totalitari. In questo senso il nazionalsocialismo rappresenta l'espressione storica della rivoluzione nichilistica come smania di instaurare una mistica al di fuori di ogni morale, attraverso il soggiogamento di alcuni per realizzare la libertà assoluta di altri, una smania del nulla che ha finito con il rivolgersi contro se stessa e annientarsi. Più complesso il carattere totalitario della Rivoluzione russa, che tende a liberare tutti gli uomini, e non più un gruppo soltanto, ma a tale scopo ritiene necessario sottoporli ‟provvisoriamente" a una sorta di ‟cesarismo intellettuale" che tutto subordina, compresa la verità, al fine della libertà assoluta promessa per il futuro.
6. Nichilismo ed estetica
Mentre nel nichilismo russo, come già si è accennato, il rapporto con l'estetica tendeva sostanzialmente a una funzionalizzazione dell'arte rispetto alla politica, nel nichilismo nietzschiano, invece, esso assume una portata decisiva nella concezione stessa della filosofia, della sua storia e del suo futuro, o, più esattamente, il nesso tra arte e nichilismo e la sua centralità all'interno della filosofia appaiono strettamente legati allo sviluppo e al superamento del nichilismo. Proprio il fatto che il nichilismo passivo stia ormai avvicinandosi al suo compimento con il dissolversi della metafisica platonico-cristiana e, di conseguenza, della contrapposizione tra un presunto mondo vero e uno apparente, fa sì che per Nietzsche, come già si è accennato, la realtà non appaia ormai più giustificabile se non come fenomeno estetico. Ma questo, come ha sottolineato Heidegger nella sua interpretazione della storia del nichilismo, non va inteso nel senso puramente ricettivo, fruitivo, come dice Nietzsche stesso, ‟femminile" dell'estetica, bensì comporta un rovesciamento di prospettiva, per cui l'estetica va considerata dal punto di vista dell'‟artista" come produttore, creatore, come colui che ‟dà" e non che riceve. In questo senso l'estetica non può essere limitata al problema del bello e dell'arte bella, e, come del resto era ovvio prima di Kant e del romanticismo, l'arte va riferita al ‛produrre' in generale, e quindi al far venire alla luce, far apparire le possibilità della realtà. L'arte appare così, sempre secondo l'interpretazione heideggeriana, strettamente legata alla ‟volontà di potenza" e rivela un'intrinseca portata ‟metafisica", giacché si connette appunto alla concezione dell'essere in termini di volontà di potenza, così radicalmente esplicitata da Nietzsche. Ma questo, per Heidegger, è anche il limite dell'estetica nichilistica nietzschiana, che vede nell'arte così intesa l'unico possibile ‟contro-movimento" rispetto alla religione, alla morale e alla filosofia come forme di decadenza. Proprio per questo, ancora, l'esaltazione dello ‟stile grandioso", la rivendicazione dell'importanza dell'ebbrezza, la riscoperta di una sensibilità assai più ampia di quella a cui aveva voluto limitarla la moderna contrapposizione tra spirito (o ragione) e corpo, sono tutti temi che non possono venir ridotti a prospettive e valutazioni semplicemente culturali dell'estetica come un ramo particolare della filosofia, bensì corrispondono al significato più profondo del nichilismo nietzschiano; considerazione questa che non impedisce, però, a Heidegger di riconoscere che nel nostro secolo l'influenza del nichilismo nietzschiano si è dispiegata per lungo tempo in modo assai più generico o, quanto meno, al di fuori di una piena consapevolezza di questa unità tematica e portata storica del nesso tra nichilismo e arte, quale del resto soltanto l'interpretazione ontologica poteva mettere pienamente in luce. Sempre per quanto riguarda Heidegger, il rapporto tra filosofia ed estetica assume nel suo pensiero una funzione sempre più importante, anche se nel quadro non di un ‟superamento" del nichilismo, ma piuttosto, come già si è detto, di un ‟passo indietro" rispetto a ciò che la metafisica e il nichilismo hanno lasciato come ‟non-pensato". È infatti nel linguaggio, e precisamente nel linguaggio poetico, distinto dal linguaggio subordinato unicamente alle regole della logica e della scienza, che si fa sentire l'appello dell'essere e l'esigenza di una forma di pensiero non-metafisico e, in questo senso, l'arte stessa, come accadere della verità, è, nella sua essenza, poesia.
Venendo poi al dispiegarsi del nichilismo nietzschiano in un campo più strettamente estetico, è abbastanza facile individuare alla fine dell'Otto e nei primi decenni del Novecento alcune tendenze polemiche caratteristiche, come una forte reazione contro le concezioni naturalistiche e realistiche dell'arte, e, insieme, la presenza di certi motivi che in parte si sono visti incidere anche sulla concezione della morale, della religione e della politica: esaltazione dell'artista; privilegiamento di ciò che non è comune, abituale, ma ‛eccelso' e magari anche ‛efferato'; rivendicazione della validità degli impulsi vitali e, al limite, del dionisiaco; disprezzo di ogni forma di morale o di precetto, a favore di tutto ciò che è ‛gesto' eroico e geniale. Non c'è, si può dire, corrente della prima metà del Novecento, dal neoclassicismo al neoromanticismo, dal decadentismo al futurismo, dall'espressionismo al surrealismo, dove non si senta la presenza operante di queste tematiche, anche se ben diversi e complessi ne sono stati gli esiti, di cui sarà opportuno ricordare qui alcuni tra i più sintomatici. Così, al di là di quello che può essere il giudizio sul valore artistico di un autore come R. Dehmel, che ebbe grande successo tra fine Ottocento e primo Novecento, val la pena di ricordare la sua celebrazione della ‟Venere eroica" quale sviluppo della concezione nietzschiana dell'ebbrezza dionisiaca e della forza liberatrice degli impulsi per realizzare effettivamente quella ‟affermazione della vita" che in realtà a Nietzsche non era riuscita. Uno sviluppo organico e, per molti rispetti, rimasto poi paradigmatico, di temi nichilistici nietzschiani si ha poi con St. George e il suo ‛circolo', spesso considerato come il luogo tipico di educazione al ‛superartista'. L'affermazione dell'arte per l'arte e la subordinazione dell'etica all'estetica rientrano infatti nel programma di costruzione di un nuovo mito, il mito del ‛pensatore-poeta', che parla e opera soltanto per una piccola cerchia di iniziati (donde anche la preferenza per la lirica rispetto ad altri generi poetici), abbastanza forti di spirito per ricevere e sviluppare l'annuncio del superuomo e del completo rovesciamento di tutti i valori. Che il nichilismo nietzschiano non dovesse avere però necessariamente un esito estetistico viene ben presto affermato da Thomas Mann, che ammette sì la possibilità di un tale esito (estetismo della perversità e del Rinascimento, culto isterico della forza e della bellezza della vita), ma in base alla sua interpretazione, già accennata, di Nietzsche come grande moralista e critico della cultura, contrappone all'estetismo un altro esito del nichilismo destinato ad avere non minore importanza nella letteratura contemporanea: l'ironia. Il torto dell'estetismo europeo, secondo Thomas Mann, è quello di aver accettato ingenuamente l'immoralismo nietzschiano senza avvertire l' ‟ironia romantica" insita nel suo eros, un'ironia che porta lo spirito ad autonegarsi di fronte alla vita disperando di poterla guadagnare alla propria causa, ma che in realtà trionfa su di essa come colui che ama rispetto a colui che è amato. Se poi in Thomas Mann l'ironia postnichilistica si afferma in una direzione piuttosto umanistico-moralistica, in Musil si sviluppa invece in una dimensione mistico-utopica attraverso una costruzione tutta fondata non solo sulla consapevolezza della dissoluzione dei concetti tradizionali di realtà e di verità, ma soprattutto su una precisa conoscenza dei limiti logici e semantici del linguaggio e della conoscenza ; un'ironia, infine, non moralistica perché fondata sulla convinzione che il nichilismo abbia ormai messo in luce l'irreparabile inconsistenza intrinseca dell'uomo stesso ; l'uomo appare ormai come una sorta di sostanza colloidale che si adatta alle forme anziché costruirle, o, se si preferisce far riferimento alle più note formulazioni del suo capolavoro, per Musil è ormai chiaro che non c'è propriamente l'uomo, ma piuttosto è sorto un mondo di qualità senza l'uomo, un mondo di esperienze senza qualcuno che propriamente le esperisca.
La consapevolezza di una profonda dissoluzione nichilistica non solo dei valori metafisici e religiosi, ma anche di quelli specificamente umani che ha caratterizzato i primi decenni del secolo - e di cui si è trovata testimonianza anche nell'opera di critica e di protesta del Brecht giovane sì da parlare di un suo ‟nichilismo illuministico" e ‟nichilismo anarchico" (v. Schwarz, 1971 ; v. Pietzcker, 1974) - ha poi avuto ampio sviluppo nell'espressionismo; a questo proposito anzi può essere utile ricordare alcuni dei termini essenziali con cui si è creduto di poter caratterizzare il costituirsi della lirica espressionistica ‟all'ombra del nichilismo": infantilismo, narcisismo, volontà di annientamento, efferato fantasticare, macabra autodifesa ecc. (v. van Bruggen, 1946). Ma, al di là di queste indicazioni tematiche, va ricordato che proprio all'interno dell'espressionismo si è avuto a opera di Gottfried Benn uno dei tentativi più organici e ampi di costruire un'estetica vera e propria su basi specificamente nichilistiche e postnietzschiane. Non che in Benn manchi l'interesse per gli aspetti più specificamente strutturali del problema o, se si preferisce, per una ‛poetica' di tipo espressionistico, come quando per esempio insiste sull'uso di uno stile ‟a blocchi", ‟acausale", ‟a spicchi d'arancio" per riflettere l'assenza di qualsiasi ordine metafisico, oppure accentua il carattere ‟statico" della poesia contro ogni forma di dinamismo sto- ricistico; il suo discorso va però molto oltre, poiché intende ripensare l'intera funzione dell'arte nella vita dell'uomo dopo il nichilismo. Come Kant aveva posto fine a un'epoca e ne aveva aperta una nuova domandandosi ‟com'è possibile l'esperienza", così oggi, secondo Benn, si tratta di domandarsi com'è possibile quell'elemento primario che caratterizza la nostra epoca, e cioè l' ‟espressione". Il mondo dell'espressione sta infatti tra il mondo storico e quello nichilistico come un mondo umano superiore conquistato dallo spirito contro di essi, in una lotta che non riguarda soltanto l'uomo e la storia, ma anche il destino della natura e di Dio, che vengono liberandosi e realizzandosi attraverso l'espressione umana. Si tratta cioè di comprendere a fondo che cosa significhi il fatto che l'uomo ‟faccia arte", obbedisca a un impulso di formazione che solo lo distingue dall'animale in un'epoca in cui la ‟catastrofe schizoide" inauguratasi con l'intellettualismo in Grecia, è giunta al suo termine con il nichilismo. Secondo Benn, infatti, nella nostra epoca domina ovunque il principio di ‟irrealtà", ossia il fatto che non si può attribuire alcuna consistenza e, tanto meno, alcun senso alle cose con cui abbiamo a che fare, a cominciare da noi stessi, dall'uomo. Ma la peculiarità della posizione di Benn rispetto a tanti esiti antintellettualistici e antirazionalistici del nichilismo sta nello scorgere nell'intelligenza al tempo stesso il principio della crisi nichilistica e del suo superamento, proprio in quanto l'intelligenza diventa principio di stile nell'arte. Non è infatti dall'ebbrezza creatrice e dagli impulsi passionali e vitali che può venire il superamento del nichilismo, ma dalla legge della freddezza e della durezza simbolizzata da Pallade, la dea dell'intelligenza opposta alla vita, ma appunto perciò capace di formare ciò che è più della vita: lo stile, la natura stilizzata come arte, in una parola ‟le statue, i fregi, lo scudo di Achille". È il nichilismo stesso dunque che, giunto al suo estremo, provoca una sorta di rovesciamento di tendenza, per cui il nulla appare come principio evocatore di forme che lo trascendono non solo sul piano estetico, ma su quello più ampiamente storico e, in un certo senso, anche religioso; sull'arte infatti viene a ricadere il peso antropologico e metafisico sostenuto per secoli dalla religione poiché soltanto l'arte si rivela come ciò che può giustificare la presenza specifica dell'uomo nella natura.
Muovendo da premesse analoghe (prospettivismo, acuto senso dell'irrealtà non solo di ciò che ci circonda, ma dello stesso io inafferrabile e inesprimibile, rinuncia a qualsiasi illusione di poter trovare un bandolo nel labirinto del mondo in cui ci aggiriamo), Kafka con la sua tematizzazione dell'incomunicabilità è giunto a una valutazione del tutto opposta dell'arte. Non solo l'artista appare isolato e incompreso, come ogni uomo e più di ogni uomo, ma in realtà, come risalta in modo particolarmente efficace da novelle quali l'Hungerkünstler e Josefine die Sängerin, la questione di fondo è se, nell'assurdo e nel terrore in cui siamo condannati a vivere, l'arte abbia una qualche consistenza effettiva o non sia essa stessa una sorta di inganno più o meno reciproco; questo è il dubbio da cui l'artista è continuamente roso e tormentato e da cui finisce con l'uscire soltanto mediante quella forma di sublimazione e ritorno ‟al popolo dei padri" che è la morte sua e dell'arte (v. Ries, 1977). Così, mentre da George all'espressionismo il nichilismo aveva aperto la speranza di un suo sviluppo positivo nella ricerca e nella costruzione della ‛forma', attraverso la corrosione ironica del linguaggio da una parte e, dall'altra, attraverso la sempre maggiore consapevolezza dell'insufficienza del linguaggio stesso rispetto alla dimensione smisurata del vuoto e dell'incomunicabilità dell'esistenza, il nichilismo si rivolge contro la stessa ‛forma' o, quanto meno, si esplica in estetiche e in poetiche dell'informale, dell'assurdo, del contraddittorio e, al limite, del silenzio. Già in parte si è accennato all'importanza, evidenziata da Adorno, dell'opera di Beckett e, sempre a questo proposito, vanno certamente ancora ricordati autori come un Jonesco o un Dürrenmatt per la struttura del loro teatro sospeso sul vuoto e sul non senso. Resta, però, l'interrogativo se in tal modo il nichilismo abbia concluso la propria parabola o se si tratti semplicemente di una fase di transizione verso nuove ‛metamorfosi'; un interrogativo sul quale, proprio per i caratteri specifici del nichilismo, sembra impossibile azzardare qualsiasi tentativo di risposta.
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