CORONA, Nicola
Il più giovane dei cinque figli di Francesco, nacque, molto probabilmente intorno al 1750, a Sora (provincia di Frosinone), nel Regno di Napoli. Scarseggiano dati biografici sul C.: insieme con i fratelli Pietro e Camillo egli si trasferì durante la giovinezza a Roma, ove dovette condurre a termine gli studi di legge: amava infatti definirsi "giureconsulto". A Roma acquisì quella cultura classica profondamente ravvivata dalla lettura dei filosofi, economisti e scienziati dell'illuminismo europeo che manifesterà nei suoi scritti degli anni Novanta. Anche nel C., come in molti intellettuali della sua età, la cultura illuministica e l'adesione al movimento riformatore sboccarono, sotto l'influenza della Rivoluzione francese, nel giacobinismo. Almeno a partire dal 1793 dovette prender parte alle cospirazioni del gruppo dei "patrioti" romani stretti intorno all'ambasciata francese. La prima data relativamente certa della sua biografia è quella del 14 maggio 1794, quando la Gazzetta di Pesaro diede notizia dell'arresto dei "fratelli Corona rei di corrispondenza con i francesi commessari residenti a Nizza". Il riscontro con altre fonti fa ragionevolmente. presumere che l'arresto concernesse tanto Nicola quanto Pietro e Camillo.
Nel 1795 sotto lo pseudonimo di Stefano Laonice il C. pubblicò i due volumi delle Riflessioni economiche politiche e morali, un'opera che introduce nel vivo del dibattito di politica economica che si svolgeva a Roma in quegli anni. Con la politica doganale e tributaria di Pio VI la spinta riformatrice che, intorno alla metà del secolo, aveva scosso nel profondo la società centroitaliana era stata sostanzialmente deviata, se non arrestata. La scelta neocolbertista e mercantilista del governo pontificio aveva deluso quelle speranze di rinnovamento dell'agricoltura che nei decenni precedenti avevano suscitato una fitta pubblicistica e promosso, anche in provincia, la formazione di società e accademie agrarie. In realtà quella spinta era stata accantonata perché le riforme agrarie costano politicamente molto più di quelle finanziarie: la trasformazione della agricoltura avrebbe, prima o dopo, portato alla rottura del monopolio aristocratico e parassitario della terra, avrebbe dovuto far leva su ceti sociali che erano al di fuori del quadro della politica pontificia, la borghesia emergente e i coloni. Nel 1794 P. Vergani, un funzionario pontificio seguace delle idee del Beccaria, aveva pubblicato un saggio in difesa della politica economica governativa: le Riflessioni del C. ne costituirono la risposta.
Contro le tesi del Vergani e contro la politica protezionistica di Pio VI che mantiene i privilegi e rovina l'agricoltura, il C. si collega alla tradizione fisiocratica e liberista, ai riformatori della metà del secolo: "l'agricoltura è la prima base della ricchezza dello stato, essa deve esser promossa prima delle manifatture e del commercio". Ma il rinnovamento non può consistere solo nell'aggiornamento delle tecniche, esso deve assicurare migliori condizioni di vita ai contadini. La polemica contro l'equivoco delle riforme pontificie spinge il C. verso le soluzioni cui era pervenuto l'egualitarismo dei giacobini. Pur rifiutando la legge agraria ("amo l'ordine e rispetto la proprietà") e ispirandosi al modello di Federico Il di Prussia che "ha reso proprietari i coloni", propone un piano di divisione delle terre "a proporzione della famiglia contadina". La riforma doveva esser "comandata dal Principe" e prevedeva facilitazioni di credito, interventi tecnici e pedagogici in favore dei neoproprietari. Nonostante le cautele del linguaggio, un'ispirazione radicale corre nei paragrafi che descrivono lo squallore delle terre possedute "dai gran capitali e dai gran conventi": il C. giunge a prevedere la confisca e la divisione delle terre dei grandi proprietari assenteisti "nemici di Dio e della Patria". L'altro grande tema delle Riflessioni, attraverso il quale il C. si avvicina ancora al lacedemonismo dei giacobini, è la polemica contro il lusso. Questa è ispirata, non tanto da "pensieri melanconici" quanto dalla considerazione del vero interesse delle finanze statali: il lusso doveva esser combattuto perché "consuma per pochi i prodotti destinati a molti" e corrompe fatalmente i costumi.
L'opera, che poneva l'agricoltura alla base dello sviluppo demografico e commerciale in un'età che aveva scoperto la energia trainante delle manifatture, suscitò immediate reazioni, e fu giudicata, allora come ancor oggi da alcuni, una battaglia di retroguardia dei ceti agrari. Comunque il libro rivela un solido impianto culturale, aggiornate letture, conoscenza dei testi dei moralisti e degli economisti del Sei e Settecento.
Il C. continuò la sua attività pubblicistica economico-sociale scrivendo nel 1796 il Saggio chimico medico ed economico delle qualità venefiche del rame e della salubrità del ferro.
Si tratta di un originale libretto ispirato da intenti scientifici e insieme divulgativi, geometricamente articolato in capitoli e paragrafi, nei quali il C., preoccupato "della salute dei cittadini e dell'economia dello stato", dimostra gli aspetti negativi della manifattura del rame, rivelando la pericolosità di questo metallo dal momento dell'estrazione a quello della lavorazione e dell'utilizzazione nel vasellame domestico. Al rame il C. contrappone il ferro "metallo indigeno e salubre". L'operetta tende a promuovere l'impianto di manifatture per il vasellame di ferro nello Stato pontificio. Lo stringato discorso del testo si appoggia ad un ricco apparato di note nelle quali le citazioni poetiche degli autori classici sono piacevolmente mescolate con i riferimenti scientifici tratti dalla contemporanea trattatistica geologica, chimica, medica di Francia, Germania, Inghilterra, Olanda.
In quegli stessi anni '96 e '97 il C., insieme con il fratello Camillo, fu al centro dell'attività del gruppo dei "giacobini" romani. Per suo tramite i cospiratori corrispondevano con Parigi. Il 7 febbr. 1797 indirizzò al generale Berthier il memoriale con il quale i patrioti chiedevano l'intervento dell'armata francese. Seguirono nell'autunno i primi moti cittadini. Allo avvicinarsi della crisi il C. ottenne la protezione diplomatica della legazione di Prussia della quale fu nominato segretario.
L'11 febbr. '98 le truppe francesi entravano in Roma e il 15 "una gran quantità di popolo" si radunò nel Campo Vaccino per ascoltare il discorso pronunciato dal C. davanti l'albero della libertà. Era la prima manifestazione repubblicana, le parole del C. furono date alle stampe. Ricordi classici si uniscono, nella sua orazione, all'annuncio dell'"aurora felice" che sorge sulle rovine del dominio dei "preti coronati". Non manca l'invito a rovesciare ("con la scure" i segni dell'antica servitù. Lo stesso giorno il C. fece parte della delegazione di otto cittadini che implorò dal generale Berthier la protezione della "Grande Nation". Il 16 fu nominato prefetto di polizia e come tale indirizzò un Proclama al "Popolo Sovrano", firmò numerosi bandi e ordinanze. Indisse luminarie e un "festino pubblico", invitò il popolo ad assistere al Te Deum, ordinò lo scalpellamento degli stemmi nobiliari, requisì case per alloggiare le truppe. Il 10 marzo fu designato segretario del ministro di Polizia Giuseppe Toriglioni e per breve tempo ne controfirmò gli atti. Il 16 marzo fu chiamato al Tribunato per il dipartimento del Tevere, nello stesso mese fu invitato a far parte dell'Istituto nazionale per la sezione di scienze politiche.
Prese spesso la parola al Tribunato e fu eletto membro di numerose commissioni. Guadagnandosi sul Monitore la taccia di moralista, tuonò contro il gioco di azzardo e i duelli; con accenti lacedemonici propose leggi suntuarie e restrizioni all'importazione di generi non strettamente necessari. Contro le minacce degli "anarchisti" e dei reazionari chiese che si istituisse un tribunale rivoluzionario. Il 10 maggio '98 tenne un importante discorso nel quale propose che per porre rimedio all'estrema decadenza dell'agricoltura la legge limitasse a 100 rubbi la estensione della proprietà fondiaria e provvedesse alla "giusta distribuzione" delle terre incolte o mai coltivate. In un suo di scorso del giugno '98 risuonano accenti unitari.
Gli articoli pubblicati sul Monitore rivelano altri aspetti del pensiero del Corona. Questi pur denunciando monopolisti, speculatori, falsi patrioti, sottolinea quanto abbia influito il secolare malgoverno pontificio sulla crisi contemporanea, si mostra consapevole della fragilità della classe politica repubblicana e dei pericoli di quella ch'egli chiama "democrazia donata". Sa che le difficoltà della Repubblica romana sono quelle che devono affrontare tutti i paesi che "scuotono le catene". Ha il senso della svolta storica che. si compie in quegli anni, ma irrigidisce questa sua concezione in una squadratura dell'universo in due blocchi contrapposti. L'Inghilterra, guidando la coalizione dei "Tiranni europei" e inceppando il commercio marittimo, sta essiccando nei continenti le fonti della produzione, ma Bonaparte, affrontando in Oriente "la nazione monopolista" riequilibrerà le sorti mondiali, "ridonerà la bilancia al commercio europeo".
La dissertazione che diede alle stampe nel '98, Diversità delle guerre presenti dalle guerre passate, unisce alla celebrazione delle grandi personalità storiche (un tema che si dilaterà, poi, senza freno, nelle Egloghe)le argomentazioni proprie della pubblicistica civile e repubblicana di quegli anni. Dopo una lunghissima serie di guerre inutili e per tutti disastrose, finalmente il generale vittorioso combatte una guerra che rende "immortali i vincitori, felici i vinti, sollevati gli oppressi", una guerra che pone le basi della pace perpetua e inaugura l'era della giustizia e della libertà, in cui l'eguaglianza non è livellamento economico e intellettuale, ma "eguaglianza di diritto naturale e civile", e la libertà non è sofisma né anarchia, ma obbedienza alle leggi ispirate dalla costituzione.
Nel novembre '98, durante l'invasione napoletana, il C. si rifugiò nella Cisalpina; tornato a Roma con le truppe francesi riprese la lotta politica dalla sbarra del Tribunato e dalle colonne del Monitore. Col crollo della Repubblica riparò in Francia. A Parigi si avvicinò al gruppo dei letterati che circondavano il vecchio abate Casti. Divenne segretario del poeta e curò per lui l'edizione parigina degli Animali parlanti. All'inizio del 1807 tornò definitivamente in Italia. I soli riferimenti certi in quest'ultima fase della sua vita si possono trarre dalle Egloghe che pubblicò tra il 1800 e il 1809.
Queste composizioni in esametri latini, cui il C. volle far seguire la traduzione in endecasillabi e settenari italiani, gettano qualche luce sul processo che spinse il vecchio repubblicano ad accettare l'ordine imperiale. Dopo la battaglia di Marengo, in uno scenario arcadico, Coridone spiega all'autobiografico Tirsi, ignaro pastore, il significato degli ultimi eventi che hanno trasformato il mondo turbando l'immobilità delle selve e delle campagne. Il nuovo corso storico è stato iniziato dalla rivoluzione di Parigi, una città che, rovesciando i tiranni che da secoli l'angariavano, ha fatto sperare tutti gli oppressi, ma solo le gesta dell'eroe che ha sgominato la congiura mondiale dei despoti hanno assicurato ai popoli un ordine nel quale la libertà è garantita dalle armi e dalle leggi. Il tema della ritrovata età dell'oro domina le Egloghe;della felice palingenesi il C., nuovo Virgilio, vuole cantare solo i riflessi georgici. L'altro aspetto notevole delle Egloghe sta nella possibilità che esse offrono di ricostruire il processo di trasfigurazione maiestatica dei Napoleonidi. In questo il C. dovette essere influenzato dalla pubblicistica e dalla iconografia francese. Nel primo Carmen pastorale Bonaparte è rappresentato come console e principe, ma nella rappresentazione dell'eroe repubblicano seduto sulla sedia curule si colgono già i riflessi del fulgore imperiale: o Assyriam splendenti murice vestem virtuti oblatam induit". Nelle Egloghe a Maria Giulia e a Maria Carolina accanto ai toni aulici della tradizione cortigiana assumono risalto sempre maggiore gli accenti nuovi dell'adorazione della numinosa maestà. Il C. la esprime assorbendo nell'esametro virgiliano la cadenza liturgica delle litanie: "o decus, o pietas, o nostri gloria saecli, Iulia!... Tu sidus nautis, miseris Tu numen amicum, Tu Iris...", ecc. L'ispirazione democratico-egualitaria e l'orgoglio della cittadinanza del vecchio tribuno sono cancellati per sempre nella genuflessione innanzi alla regina incoronata: "nos respice ab alto quo resides solio... nos Te regnantem soliis imitabimur altis... Te solam adoremus...".
Nell'Egloga a Giuseppe Napoleone non manca qualche riflesso attuale: Tirsi accenna infatti alle campagne turbate dal brigantaggio, ma nell'impianto georgico ed aulico non si trova alcun accenno alla quotizzazione dei demani che, proprio in quegli anni, trasformava, nel senso già indicato dal C. nel '95, l'assetto fondiario del regno meridionale. Notevoli sono invece i riferimenti autobiografici. Tirsi ricorda il fallimento delle rivoluzioni di Roma e di Napoli, le stragi, l'esilio degli scampati. Lui stesso ha trascorso "otto anni" in quella Parigi "bagnata dalle limpide acque della Senna" ma soprattutto resa felice dalla presenza di Napoleone. A Parigi Tirsi ha potuto per la prima volta mirare "l'aspetto venerabile del Nume", impetrare da lui il ritorno in patria, ed ottenere "un placido assenso". Tirsi spiega come, in seguito all'invito di Giuseppe Napoleone che gli promise appoggio e protezione entro i confini del regno meridionale, egli abbia scelto di stabilire a Napoli la residenza. Campani sono infatti gli scenari delle ultime Egloghe, romana la tipografia che ne curò la stampa, e tra Napoli e Roma il C. dovette trascorrere gli ultimi anni.
Rimane sconosciuta la data di morte del Corona.
Opere: Riflessioni economiche, politiche, morali sopra il lusso, l'agricoltura, la popolazione, le manifatture e il commercio dello Stato pontificio, il suo vantaggio e beneficenza, I-II, Roma 1795 (2 ed., ibid. a. VI); Saggio chimico medico ed economico delle qualità venefiche del rame e della salubrità del ferro, ibid. 1796; Discorso recitato nel Foro romano avantial popolo dal cittadino N. Corona, ibid. 1798; Cagioni politiche dell'attuale miseria di Roma, in Il Monitore di Roma, 6 brumaio a. I, 13 brumaio a. I della Repubblica romana; Agli ambiziosi, ibid., 16 brumaio a. I della Repubblica romana; Risposta di N. Coronaal foglio pubblico del cittadino Toriglioni, ibid., 29 piovoso a. II della Rep. romana; Economiapolitica, ibid., 3 germinale a. II Rep. romana; Istruz. pubbl. [contro il gioco d'azzardo], ibid., 9 fiorile a. II Rep. rom.; Diversità d. guerrepresenti dalle guerre passate, Roma a. VI; Carmen pastorale ad Bonapartem principemReipublicae consulem liberatorem Italiae fundatorem pacis, Lutetiae Parisiorum a. Reipublicae constitutae IX [1800]; Ecloga adIosephum Napoleonem Bonapartem serenis, simum ac potentissimum utriusque Siciliae regem Magnum Imperii Gallorum electorempium felicem augustum optimum principem, Romae MDCCCVIII; Ecloga ad MariamAnnuntiatam Carolinam Napoleonis BonaparteMagni Gallorum imperatoris Italiaeque regisSororem et serenissimi ac potentissimi IoachiniNapoleonis I Utriusque Siciliae regis Coniugembeatissimam piam felicem augustam optimaminclytam ornatissimamque reginam, ibid. MDCCCIX; Ecloga ad Mariam Iuliam Bonapartem serenissimam ac potentissimam Hispaniarum Indiarumque Reginam catholicampiam felicem augustam, ibid. MDCCCIX.
Fonti e Bibl.: Per il dibattito di polit. economica a Roma nell'ultimo scorcio del Settecento vedi: E. Piscitelli, Le riforme di Pio VI e gliscrittori econ. romani, Milano 1958, pp. 219-224 e ad Indicem;L. Dal Pane, Lo Stato pontif. e ilmovimento riformatore del Settecento, Milano 1959, ad Indicem;F. Venturi, Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, in Riv. stor. ital., LXXV(1963), pp. 815-817. Discutibili i giudizi su "Stefano Laonice" di P. Berselli Ambri in L'opera del Montesquieu nel Settecento ital., Firenze 1960, ad Indicem. Per la ricostruzione della attività politica del C. nel periodo rivoluzionario e durante l'esilio francese vedi la bibliogr. in questo Dizionario, s. v. Corona, Camillo. Vedi inoltre: V. E. Giuntella, La giacobina Repubblicaromana. Aspetti e momenti, in Arch. della Soc. rom. di storia patria, LXXIII (1950), pp. 38 ss., 143 ss. L'attribuzione al C. del discorso di politica agraria del 10 maggio 1798, anonimo nei Processi verbali del Tribunato, è fondato sul resoconto della seduta in IlMonitore di Roma, I (1798), p. 553.