GRANUCCI, Nicolao
Nacque a Lucca nel 1521 da Guglielmo, preposto di S. Maria di Filicorni, prebenda appartenente alla famiglia, e rettore sine cura della chiesa di S. Donnino a Marlia, nel territorio cittadino.
I Granucci erano una famiglia nobile di parte guelfa che aveva avuto un ruolo nelle lotte intestine nell'età comunale. Nella Piacevol notte, et il lieto giorno (cc. 4v-5v), pubblicata nel 1574, il G. racconta che si chiamavano in origine Paladini e furono tra le novecento famiglie bandite da Castruccio Castracani nel 1316 e che, nel 1335, si stabilirono a Marlia. Furono quasi estinti dalla peste del 1348: sopravvisse solo un Buonanno, dal quale la famiglia mutò il nome in de' Buonanni; da lui discese un Andrea che ebbe tre figli, il maggiore dei quali, di nome Granuccio, rientrò a Lucca trasmettendo alla discendenza il suo nome. Nel 1531-32 membri della famiglia furono coinvolti nella rivolta degli straccioni; durante i disordini, nel giugno e nel dicembre 1531, alcuni cugini di secondo grado di Guglielmo, minacciarono di dare l'assalto al monastero di S. Fridiano, pare con il pretesto che Guglielmo avanzava dei diritti su una cappella o altare di S. Silvestro nella chiesa di S. Salvatore in Mustolo, e su un podere a essa appartenente, per i quali si era fatto avanti un altro aspirante. Guglielmo fu oculato e attivo amministratore di un piccolo patrimonio di canoni e rendite su benefici e prebende di cui era titolare, come dimostrano documenti conservati nell'Archivio arcivescovile e nell'Archivio di Stato di Lucca, non tale comunque da farlo vivere in condizioni agiate. Morì tra il 17 maggio 1564 e il 31 ag. 1566.
Le vicende centrali della vita del G. che è dato ricostruire sono collegate a due avvenimenti occorsi lo stesso giorno e verosimilmente tra loro collegati. Il 2 marzo 1557 rimase vittima di un attentato, che gli procurò una grave ferita alla gamba destra, e un lontano parente, Iacopo Granucci, lo denunciò al magistrato per essersi introdotto una sera del gennaio precedente in casa sua armato di spada e con l'intenzione di aggredirlo. Le conseguenze dei due fatti sono narrate in prima persona dallo stesso G. ne L'eremita, la carcere, e 'l diporto, opera nella quale si contengano [sic] novelle et altre cose morali (Lucca, V. Busdraghi, a istanza di F. Fagiani da Trino, 1569), in tre libri, nei quali egli espone le sue disavventure, addizionandole però di materiali eterogenei che ne complicano la trama e trasformano l'opera in un ibrido, in parte memoria autobiografica, in parte compilazione di storia, dialoghi, novelle, intrattenimenti conviviali, unificato soltanto dall'intento morale ed edificante che vi immette l'autore.
La ferita costrinse il G. per lungo tempo al letto in pericolo di vita. Lo assisté Caterina Rapondi, fondatrice della Congregazione delle figlie di S. Maria degli Angeli di Lucca, che egli nomina con riconoscenza nello Specchio di virtù (Lucca, V. Busdraghi, 1566, c. 25r). A causa della degenza il G. non poté presentarsi al processo criminale istruito a seguito della querela e il 1° giugno fu condannato a una multa di 250 fiorini d'oro e bandito dalla città. Il 5 giugno lasciò Lucca per Pisa; ai primi di ottobre era a Firenze, dove ricevette cure mediche che alleviarono molto l'infermità alla gamba, tanto che nella primavera 1558 fu in grado di intraprendere un viaggio verso l'eremo di Camaldoli, dove si intrattenne in conversazioni morali con un eremita (il dialogo occupa la maggior parte del libro I). Sin da prima aveva maturato la decisione di tornare in patria per provare la sua innocenza; rientrato dunque a Lucca, si consegnò alle autorità il 4 marzo 1558. Rimase in prigione fino al 18 febbr. 1559. In questi mesi amici influenti, tra cui Giusfredo Rapondi (figlio di Caterina) e Cristoforo Lamberti intervennero in suo favore, ottenendo la revisione del processo. I testimoni a carico furono giudicati inattendibili e il 18 aprile il G. fu assolto. Si recò allora ai Bagni di Lucca per rimettersi in sesto e di lì, in maggio, in campagna, ospite di un gentiluomo impietositosi per le sue vicissitudini. Nell'ultima parte de L'eremita, la carcere, e 'l diporto, in una cornice di confortevole villeggiatura, il G. dà così sfogo al suo, peraltro scarso, estro di novellatore. Una fra le signore presenti propone di eleggere un re che governi la brigata: viene eletta lei stessa e propone che dopo cena si raccontino novelle di contenuto morale. Così, la sera, dopo avere recitato alcune stanze composte da G.B. Maganza, i sette gentiluomini e le sette gentildonne presenti narrano uno dopo l'altro una novella, senza che l'autore interponga introduzioni, commenti o intermezzi di alcun tipo, perché, spiega, prefazioni ed epiloghi sono tediosi e inutili. L'intero libro II dell'opera è costituito da Un breve compendio de' fatti più notabili de' Turchi fin a tutto l'anno 1566, una storia di quel popolo dalle origini, che l'autore, suggestionato dalla notizia dell'ingresso della flotta ottomana nel Tirreno nel marzo 1558, cominciò a comporre in carcere per alleviare la sua situazione e, una volta tornato in libertà, condusse fino al 1566, aggiungendo infine un'appendice contenente alcune cose tralasciate nella prima parte.
Le vere ragioni di questa oscura vicenda emergono da alcuni passi delle opere del G., nei quali egli parla dell'amore per una giovane, dal nome fittizio di Ismine, causa per lui di funeste conseguenze. Ne L'eremita (cc. 46v-49r) racconta la sua storia romanzata a un mercante raguseo compagno di prigionia. Il padre di Ismine era un gentiluomo virtuoso e onorato che la ebbe da una femmina mercenaria a Padova. La fece educare civilmente e istruire in un convento, a quattordici anni la diede in sposa a un amico del G.; ma Ismine si accese di amore per lui, che, dopo avere resistito per tre anni ai lascivi allettamenti della donna, cadde innamorato di un amore onesto. Ismine si diede però a un altro e per due anni il G. tentò invano di ricondurla sulla retta via, finché il marito si accorse dell'adulterio e l'avrebbe addirittura uccisa, se il G. non fosse intervenuto per riconciliarli. Ismine si diede allora di nuovo a sedurre il G., che per nove anni cercò di resistere in tutti i modi, anche allontanandosi da Lucca, finché di nuovo si abbandonò alla passione amorosa. A questo punto, però, Ismine di nuovo si accese di un altro amante, con il quale ordì una congiura contro il G. per privarlo della vita e da qui hanno inizio le vicende narrate nell'opera. Nella Piacevol notte (cc. 67v-70v) Francesco Benci, che è in questo luogo trasposizione dell'autore, più compendiosamente narra che quando era giovane e inesperto d'amore fu sedotto da Ismine, giovane moglie di un amico, che all'improvviso cambiò umore divenendo disdegnosa e ostile, si diede poi preda d'un "huomo senza virtù et colmo d'ogni vitio" (c. 70r) e per godere con maggior agio degli abbracciamenti di costui ordinò una "congiura e tradigione" (ibid.) ai suoi danni, da cui ebbe inizio per lui una serie di rovinosissime sciagure. Tuttavia, Francesco dichiara di portare Ismine ancora nel cuore e di desiderare parlarle per mostrare che non nutre odio contro di lei.
Qualche altro dato sul fatto centrale della vita del G. si ricava dalla riduzione in prosa della Theseide di G. Boccaccio da lui data alle stampe nel 1579 (Lucca, V. Busdraghi, a istanza di G. Guidoboni). La composizione dell'opera risalirebbe a quattro anni prima, stando a quello che il G. dichiara nella lettera introduttiva, allorché, durante l'estate, villeggiava in un luogo ameno, dove ogni pianta, ogni tronco, ogni sasso gli ricordava il nome di colei che tanto amava; così, per ingannare la noia, si era messo a comporre imprese sul suo amore sfortunato. Poi, mutato proposito, si diede a ridurre in prosa la Theseide, giudicando il Boccaccio eccellente prosatore, ma inferiore come poeta. La versione è incorniciata in un dialogo tra Ismenio (trasposizione dell'autore) e Ismine, che si incontrano dopo tanto tempo, nella bella stagione. Ismenio chiede a Ismine di intrecciare di nuovo le loro sorti divise nel 1557 e ricorda le sofferenze che ha patito per lei. Ismine dichiara di essere pentita di avere causato tanti dolori e che per 23 anni (dunque la scena è ambientata nel 1579, con un anacronismo rispetto alla data dichiarata di composizione) ha vissuto nel rimorso di ciò che ha fatto. La donna ha lasciato Lucca nel 1560 e ha trascorso tutti questi anni a Roma, da dove fa ritorno ora per la prima volta. Ismenio le chiede allora che racconti qualche nuovo caso occorso e Ismine promette di narrare una sfortunata storia d'amore avvenuta in Sicilia, a patto che poi Ismenio racconti a sua volta una storia amorosa. In questa maniera si dà avvio alla versione della Theseide, alla fine della quale, una volta ritornato alla cornice, il G., al solito, svaria disinvoltamente e si mette a discettare della peste, addentrandosi in una serie di considerazioni mediche e astrologiche, per poi terminare con il ricordo di alcuni personaggi lucchesi a lui vicini che Ismine ravvisa con difficoltà a causa della lunga assenza.
Anche La piacevol notte, et il lieto giorno, opera morale (Venetia, G. Vidali, 1574) ha origine da un'occasione autobiografica, ma di modesto rilievo. Il G., infatti, dice di essersi recato a Siena nel 1568 per affari e di avere fatto visita a una famiglia dei Granucci abitante a Pienza. Qui è ospitato per otto giorni e visita i dintorni. Nell'abbazia di Lecceto viene accolto da un frate lucchese, che lo informa di alcuni ragionamenti tenutisi tempo addietro, e gli consegna un compendio manoscritto redatto da uno dei partecipanti. Il G. ripose il manoscritto tra le sue carte e qualche anno dopo, capitatogli per le mani, decise di pubblicarlo. L'opera si divide in due sezioni: la Piacevol notte è quella trascorsa in conversazioni fra quattro uomini, Francesco Benci proprietario della villa di Toiano dove si svolge il tutto, e tre ospiti. Il giorno successivo arrivano altri uomini e diverse dame, che trascorrono la giornata in vari trattenimenti e infine si dedicano al novellare. Su questa disadorna intelaiatura il G. imbastisce una farraginosa narrazione in forma di dialogo, in cui i personaggi prendono la parola per esporre racconti, aneddoti, riflessioni morali, insomma una selva ("selva di varia lettione non sarebbe forse illicito nome" dichiara il G. nella dedicatoria, echeggiando il titolo della pluriedita nel XVI secolo Silva de varia lección del sivigliano Pedro Mexía) di materiali eterogenei affastellati con un gusto della compilazione di rado illuminato da una qualche presa di proposizione originale. In un caso almeno ciò avviene, allorché, quando si discute dell'origine della nobiltà e del suo rapporto con la virtù, Francesco Benci trascorre in un'invettiva contro la nobiltà (cc. 40v-42r) che è parsa a Berengo "tra le più incontenibili di quante il tardo Cinquecento ci ha trasmesso" (p. 261). Il G. innalza la sua protesta asciutta e vibrata di uomo situato al basso della scala sociale contro l'orgoglio di casta e lo sfarzo di cui si ammantano i nobili, la loro inutilità per il benessere dei più, l'immeritata condizione di favore che deriva loro dai privilegi di cui godono. Analoghi sentimenti sono espressi in una discussione ospitata dal I libro de L'eremita (cc. 30r-33v), nella quale il binomio nobiltà-virtù di nuovo viene letto tutto a favore del secondo termine. Prese di posizione, queste del G., da non interpretare tanto come adesione a istanze radicali e livellatrici, quanto piuttosto come sintomo di un indubbio risentimento verso la classe dirigente lucchese di estrazione patrizia, cui sono complementari le diverse attestazioni di simpatia per il regime del Granducato mediceo sparse nelle sue opere. Il G. tiene a proclamarsi sempre con orgoglio cittadino lucchese e l'appartenenza a una famiglia di antiche tradizioni, anche se decaduta, è ostentata con una fierezza persino ingenua, come quando nella Piacevol notte, nel narrare le vicissitudini che hanno portato al cambiamento del nome della famiglia, fa un parallelo con Dante, il cui cognome d'origine era Frangipani, poi Elisei, infine Alighieri.
Mentre si ignora di cosa abbia vissuto prima della disgrazia, dopo il rientro in patria il G. esercitò il mestiere di ciabattino (sutor e caligarius risulta in documenti rispettivamente del 1560 e del 1564); teneva bottega in contrada S. Cristoforo. Aveva inoltre qualche entrata da rendite fondiarie, ma le sue condizioni non erano agiate, come provano i due testamenti, dettati il 20 luglio 1587 e il 7 sett. 1591: a parte modesti legati a parenti e per opere di beneficenza, lascia soltanto un piccolo terreno in contrada S. Donato "al chiasso".
La data di morte del G. generalmente accettata, ma per la quale mancano conferme documentarie, è il 1603.
Il G. compose anche uno Specchio di virtù (Lucca, V. Busdraghi, 1566), che è una compilazione di storie edificanti tratte prevalentemente da fonti classiche, divisa in tre libri, dedicati rispettivamente all'amicizia, al matrimonio, alla castità. Precedono i singoli libri dediche a Giusfredo Rapondi (libri I e III) e alla madre Caterina (libro II) e l'opera si può perciò interpretare come un omaggio alle due persone cui il G. doveva la vita e la libertà.
La Novella narrata da Ismine nell'introduzione della Theseide è stata edita a parte in edizione numerata (Livorno 1869); Due novelle dallo Specchio di virtù in soli quattro esemplari (Livorno 1875; una copia si trova nella Biblioteca apostolica Vaticana, Ferrajoli, III.2051 [int. 7]).
Fonti e Bibl.: A. Marsand, I manoscritti italiani della Regia Biblioteca di Parigi, II, Parigi 1838, pp. 226 s.; M. Righetti, Per la storia della novella italiana al tempo della reazione cattolica, Teramo 1921, pp. 69-87; L. Di Francia, Novellistica, II, Milano 1925, pp. 111-120; M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, pp. 261 s., 269 n.; F.S. Stych, La vita di N. G. illustrata da documenti degli archivi di Lucca, in Actum Luce, VIII (1979), pp. 31-58.