BOILEAU, Nicolas (noto ai contemporanei sotto il nome di Despréaux o di Boileau-Despréaux)
Nacque a Parigi il 1° n0vembre 1636 e vi morì il 13 marzo 1711. Usciva da una famiglia schiettamente borghese, illustratasi però con l'avvocatura e con le alte cariche giudiziarie, fornita di parentele e di aderenze cospicue, tanto che al B. riuscirà possibile, nel 1699, farle riconoscere con regolare sentenza una nobiltà quattro volte secolare. Suo padre era cancelliere alla Grand' Chambre del tribunale ed egli crebbe tra "la polvere cancelleresca", destinato in un primo tempo alla carriera ecclesiastica e poi a quella forense. La morte del genitore (1657) gli permise di abbandonare la legge per cui non si sentiva chiamato e di volgersi totalmente alle lettere: tra i fattori determinanti della sua vocazione letteraria ci fu forse l'esempio del fratello maggiore Gilles, (1631-1669), traduttore e poeta, dal 1659 membro dell'Accademia francese. Il suo primo saggio poetico a stampa, il primo almeno che egli abbia apertamente riconosciuto, apparve solo nel 1666 (Satires du Sieur D...., Parigi, presso Claude Barbin); ma, se è esatta la data fornitaci dal commento del Le Verrier, la sua satira prima, cioè il vero e proprio inizio della sua attività di poeta, rimonterebbe al 1657. Certo le sette satire ond'è costituito il volumetto circolarono a lungo prima di quella data, diffuse verbalmente dall'autore stesso, dicitore mirabile: nel febbraio 1665 ad es. le leggeva presso la principessa Palatina, dinnanzi al fior fiore dell'aristocrazia e del mondo intellettuale parigino. Poverissime d'ispirazione e di pensiero, infarcite di luoghi comuni e di spunti letterarî noti, da Giovenale, da Orazio, dal Régnier, sorrette soprattutto dal sapore scandaloso delle allusioni e dalla chiassosa franchezza di certi attacchi, le Satire avevano tuttavia una loro innegabile originalità letteraria. Decisamente avvicinate al monologo drammatico, e realmente fatte per la recitazione, erano come irradiate dall'ideale artistico molieresco; in guerra anch'esse contro tutti i nemici della naturalezza, del buon senso, della verità; aperte ad un brioso realismo (questo domina ad es. nella sat. III Le repas ridicule e nella sat. VI Les embarras de Paris); desiderose esse pure di conciliare, come le commedie in versi del Molière, ma con un senso più pedantesco delle convenienze formali e senza l'intuito geniale del maestro, la spontanea vivacità dell'eloquio quotidiano, cioè la pittura fedele della vita comune, col programma malherbiano di misurata eleganza, di tecnica rigorosa e perspicua. Non inauguravano, come fu detto a torto, la critica militante, ma ripetevano a voce alta, con la crudeltà che hanno spesso i giovani verso gli anziani, le condanne che il pubblico ormai pronunciava in segreto; erano l'eco spassosa delle discussioni letterarie del giorno, degli allegri ritrovi, alla Croix blanche, alla Pomme de Pin, al Mouton blanc, ove, in compagnia di attrici, di comici, di poeti (Molière, Chapelle, Furetière, Racine), di gran signori gaudenti (Nantouillet, Vivonne, Broussin, Ranché) il giovane B. si divertiva a demolire e a sentir demolire le riputazioni ufficiali, collaborando ad es. alla parodia dello Chapelain décoiffé, alla Métamorphose de la perruque de Chapelain en astre; ove certo nacque la cosa più viva composta dal B. prima dei trent'anni, il Dialogue des héros de roman, felicissima variazione del capolavoro di Molière, Les précieuses ridicules. Lo straordinario successo avuto dal volumetto del 1666, accresciuto dalle repliche aspre degli scrittori colpiti, incoraggiò il B. a tentativi ulteriori. Non era però la sua, artisticamente, una personalità in grado di rinnovarsi e di svolgersi. Spirito positivo e prudente, con le solide virtù ma anche con tutte le lacune e i limiti che può avere un borghesuccio che vive di rendita, di scarsa cultura, senza passioni, senza grandi esperienze, un po' pedante, vanissimo del proprio ingegno, talento medio in ogni cosa, non aveva che lo spingesse a poetare nessuna interiore necessità, all'infuori di un po' di ambizione e della tranquilla certezza, dopo il successo delle Satire, di essere l'Orazio francese. Aggiunse alle prime altre cinque satire (in quarant'anni!); diede loro per pendant una dozzina di Épîtres; adattò ai bisogni del suo secolo l'arte poetica di Orazio (1673-1674); tradusse il Trattato del Sublime attribuito a Longino (1674); compose un poemetto eroicomico, Le lutrin (primi quattro canti, 1674; ultimi due, 1683): in complesso una produzione stentata e arida, estremamente mediocre. Con la sua pigrizia e con la sua lentezza native cooperarono le circostanze. Nell'inverno 1673-1674 il duca di Vivonne lo presentò a Luigi XIV, che un abilissimo Discours au Roi, intercalato tra la V e la VI satira, aveva già accarezzato con arte sapiente e che fu pienamente conquistato dalla 1ª epistola: "colpo di fortuna", per dirla col B., che convertì il libero rimatore in poeta regio, con lauta pensione, obbligandolo a lasciare per nuove e più ardue vie d'arte quelle per cui era più fatto il suo ingegno. Si aggiunse che nel 1677 il re lo nominò, insieme col Racine, suo storiografo: impiego assorbente e severo che parve, specie nei primi tempi, ai due poeti non conciliabile con la poesia (v. racine). Nonostante la mediocrità della sua produzione poetica e il suo precoce distacco dall'arte, la personalità letteraria del B. non cessò di guadagnare in autorità presso il pubblico. Giovò al suo prestigio di poeta il suo credito di cortigiano. Morti Pascal e Molière, entrati nel silenzio, o quasi, il La Rochefoucault, il Corneille, il Racine, egli restò quasi solo sull'orizzonte letterario e parve il rappresentante tipico del periodo glorioso con cui aveva coinciso la sua giovinezza. Ad ogni sua cosa fu accordato un valore incalcolabile; i suoi scritti furono ammirati e consultati con cieca fiducia: nessun altro autore francese, forse, ha goduto, in vita e dopo morte, di così largo consenso. Specialmente fortunato, presso i contemporanei e presso i posteri, in patria e fuori, l'Art poétique, che valse al B., auspici soprattutto il Voltaire e il La Harpe, l'epiteto tradizionale di legislatore del Parnaso e su cui si fondò la leggenda ch'egli sia stato maestro e guida ai grandi scrittori del suo tempo. Entrata prestissimo nelle scuole e divenuta uno degli elementi essenziali della cultura letteraria francese, l'Arte poetica - come avvenne del resto per il suo modello romano - finì con l'essere sopravalutata e col piegarsi alle interpretazioni più encomiastiche. Si giunse a vedere in essa una vera e propria estetica (Brunetière, L'esthétique de Boileau, in Revue des deux mondes, 1 giugno 1889; G. Lanson, Boileau, p. 89 segg.); alle parole ragione, verità, natura di cui il B. si serve, nelle sue battute polemiche contro il malgusto, come richiamo alla logica, alla naturalezza, alla semplicità, alla chiarezza, venne attribuito il valore che esse ebbero, nel periodo post-romantico, per la scuola naturalistica; l'Art poétique fu considerato come la prefazione teorica ai capolavori dell'epoca, come il manifesto del classicismo e si ripeté che il concetto di poesia che vi è formulato è quello che risponde meglio ai bisogni reali, eterni dello spirito francese. In realtà, il poemetto del B., ove non è una semplice imitazione di Orazio, è invece, sostanzialmente, poco più che un garbato esercizio di verseggiatura su qualcuno dei luoghi comuni che allora avevano corso intorno all'arte dei versi. Certo, riprendendo la battaglia, ormai vinta da tempo, delle Satires, contro la stravaganza e il preziosismo, il B. si propone e s'illude di sostituire alle semplici stoccate personali una vera e propria dottrina. Ma il satirico non riesce a trasformarsi in un critico. Sul fondo teorico tradizionale - riduzione dell'arte alla tecnica, imitazione obbligatoria dei modelli classici, sostituzione al vero del verosimile, necessità di un fine pratico e di un contenuto morale - egli aduna, senza neppur tentare d'inquadrarle in un pensiero organico e con una stupefacente ignoranza della storia letteraria, limitandosi alla poesia, o meglio ad alcuni tipi di componimento poetico, alcune poche massime o qualche frivola definizione. Nessuna originalità (R. Bray, La formation de la doctrine classique en France, pp. 140 segg., 356 segg.). Non riesce a caratterizzare con unità di criterî i generi ch'egli prende in esame (idillio, elegia, ode, sonetto, rondeau, ballata, madrigale, satira, tragedia, epopea, commedia), appagandosi per lo più di una nomenclatura estrinseca o di qualche prodezza verbale, come nella celebre definizione del sonetto e delle unità drammatiche. Non si accorge d'incoerenze gravissime: del contrasto, ad es., tra la sua concezione formale dei generi - così formale da definire l'epica un impiego su vasta scala di mitologiche allegorie - e la sua teoria iniziale dei temperamenti poetici e delle diverse attitudini naturali a questo o quel genere; tra la "divinità" della poesia, affermata anche da lui in omaggio alla tradizione, e il suo consiglio di far della poesia lo svago saltuario di un "honnête homme" e l'omaggio d'un cortigiano al monarca. È fargli troppo onore il pretendere, come fu affermato, ch'egli abbia voluto e saputo conciliare la ragione - la nuova ragione cartesiana - col concetto di arte rivelato dal Rinascimento. Egli spinge all'estremo l'astrattezza antistorica della scuola malherbiana in cui si era venuto immiserendo il gran sogno d'arte della rinascenza; è il teorico per eccellenza della forma astrattamente considerata. Nemico a priori di ogni libera ispirazione, convinto che la poesia consista in un "artifice agréable", nell'aggiunta razionale di determinate bellezze estrinseche ad una materia per sé apoetica, attento soprattutto al decoro uniforme, alla brillante lindura della superficie, dominato dal timore di non piacere alla piccola cerchia di aristocratici e di habiles che costituisce per lui tutto il pubblico, ha per concetto essenziale che gli "ornamenti" devono essere "reçus", cioè consacrati dalla tradizione: e ritiene per "ornemens" i simboli mitologici dell'antichità greco-romana, i generi, la lingua, il verso, concepiti come realtà esterne, preesistenti, assolute. È contrario ad ogni novità: al melodramma musicale, talmente da definire l'opera "ces lieux communs de morale lubrique, Que Lully réchauffa des sons de sa musique"; all'uso del meraviglioso cristiano, chiudendo decisamente "a Dio, ai suoi Santi, ai suoi Profeti" le porte della poesia. Aderisce alla campagna nazionalistica contro l'influsso italiano, denunciando l'Italia come la patria delle "pointes", dei "faux brillants": i suoi giudizi sulla nostra poesia - cui bisogna aggiungere quelli, non meno gravi, sparsi in altre sue opere - divenuti proverbiali in Europa, hanno contribuito non poco a scuotere, anche fuori di Francia, il prestigio della nostra letteratura. Il vangelo poetico predicato dall'Art poétique è in ritardo sui tempi: è inferiore ai capolavori di cui fu creduto la giustificazione teorica. Non per nulla il genio di Molière vi è in parte negato e frainteso e non v'è fatta parola del La Fontaine. L'opera piacque alla massa non perché interpretasse i bisogni letterarî dei tempi, ma perché la banalità ormai pacifica dei suoi precetti la rendeva accessibile e gradita ai mediocri; certo le giovò la sensatezza reale di certe norme (stile semplice, dignitosa urbanità, esattezza tecnica nell'uso del verso e della strofa, rispetto della lingua, applicazione paziente), e anche l'aria di probità, di posatezza bonaria che si sprigiona dal poemetto; ma soprattutto influì sulla sua fortuna il fatto che quello era un codice, e che d'un codice si sentiva la necessità in quell'epoca di sistemazione e d'accentramento ad oltranza, in cui c'era la tendenza a codificare tutte le forme della vita. All'estero il successo dell'Art poétique è legato al culto, in generale, per la Francia e per la letteratura francese; il libro del B. ha cooperato al lungo predominio di un'estetica razionalista in Europa (v. luzan; dryden). Minore è l'importanza storica del Lutrin, anche se la sua fortuna sia pure stata, in patria e fuori, oltremodo brillante; ma esso è, come sforzo d'arte e come espressione della personalità del B., di assai maggiore interesse. Delle contraddizioni profonde, di cui non ha saputo trionfare come teorico, il B. tenta nel Lutrin una conciliazione come artista. Erano in lui congenite dur tendenze divergenti: da una parte il culto esclusivo e fanatico degli antichi, depositarî della bellezza nei loro modelli insuperabili, culto che fece di lui, nella famosa Querelle des anciens et des modernes, specie contro Ch. Perrault, un avversario meschino e ostinato dei moderni (Réflexions sur Longin, 1692-1694); dall'altra parte un senso abbastanza vivo della verità, il bisogno, com'egli dice, di "confier au papier les secrets de son cœur", di esprimere cioé, qualunque fosse, la sua personale esperienza: umili particolari della sua propria vita, figure ed aspetti della sua Parigi, commenti ai fatti del giorno. La sincerità artistica cui egli aspira si riduce in fondo alla scelta, tra gli stampi poetici classici, di quello che pił si presti ad accogliere questo realismo autobiografico, e che consenta ad un tempo il massimo sfoggio delle bellezze convenzionali. Il Lutrin, poema nella scia della nostra Secchia rapita, è in disaccordo col suo nazionalismo italofobo e con le sue severe rampogne ai poeti burleschi, agli Scarron, ai Cyrano, ai D'Assoucy; ma gli dà il modo di essere realmente, e più liberamente che nella satira, tutto quello che era: gli permette di riprodurre con vigore realistico un mondo veramente suo - il mondo della Sainte-Chapelle, del Palais, dei canonici, degli avvocati, dei librai - quello dov'era nato e dove aveva passato la maggior parte della sua vita; gli permette di raccontare un fatto realmente successo (un'aspra contesa scoppiata tra il tesoriere ed il cantore della Sainte-Chapelle per lo spostamento d'un leggio); e nel contempo gli lascia sfoderare, con arcadica compiacenza, tutto il nobile armamentario delle figurazioni accademiche.
Il B. fu eletto all'Accademia francese nel 1687. Ha tenuto un gran posto nella sua vita la lunga ed intima amicizia col Racine. Da ricordare sono pure i suoi rapporti col presidente di Lamoignon e col giansenista Arnauld.
Opere: Per le opere del B. pubblicate prima del 1666, cioè anteriori alla prima edizione riconosciuta dall'autore, v. Lachèvre, Bibliographie des recueils collectifs de poésies (1597-1700), Parigi 1901-05. Per le più antiche edizioni cfr. J. Le Petit, Bibliographie des principales éditions originales d'écrivains français du XVe au XVIIIe siècle, pp. 385-400. Di fondamentale importanza è il catalogo delle edizioni del B. eseguito da A. Vidier alla voce Boileau nel Catalogue général des œvres imprimḫs de la Bibliothęque Nationale, XIV, 1903, coll. 1177-1219. Cfr. pure E. Magne, Bibliographie générale des teuvres de Nicolas Boileau-Despréaux et de Gilles et Jacques Boileau (Parigi 1929, 2 voll.). Si designa col nome di favorita l'edizione del 1701, l'ultima curata dall'autore. Delle edizioni moderne, la migliore resta a tutt'oggi la vecchia edizione di BerriatSaint-Prix: Œuvres complętes de B., 4 voll. (1830; 2ª ediz. 1837). Sono inseparabili dalle opere complete, per la parte diretta che vi ebbe il B. stesso, il commento del Brossette (edizione delle opere del 1716) e quello del Le Verrier (hes Satires de B. commentées par lui-même et publiées avec des notes par F. Lachèvre - Reproduction du commentaire inédit de Pierre Le Verrier avec des corrections autographes de Despréaux, Parigi 1906). Per la Correspondance tra il B. e il Brossette è da adoperarsi l'edizione del 1858 (Parigi). Da adoperarsi con cautela il Bolaeana del Monchesnay (1742). Tra le edizioni di opere singole è da segnalare quella dell'Art poétique con l'ampio commento di V. Delaporte (3 voll., Lilla 1888) e quella del Dialoege des héros de roman a cura di T. F. Crane (Boston 1902). Sulle parodie contro lo Chapelain v. G. L. Van Roosbroeck, in Publications of the modern language association of America, XXXIX (1924). Alcune edizioni del B. sono celebri per il loro splendore tipografico (quella ad es. del 1820 offerta da Pierre Didot a Luigi XVIII) o per gli artisti che le hanno illustrate (Bernard Picart, 1718; Eisen, 1747; Vibert, Gérôme, Delort, Bida, Luc Olivier-Merson, G. P. Laurens, ecc. nella grande edizione Hachette del centenario; si hanno edite a parte le incisioni del Lemesle per il Lutrin).
Bibl.: Tra gli studî d'insieme resta ottimo quello di C. Revillout, La légende de Boileau (uscito in dodici puntate nella Revue des langues romanes dal 1890 al 1895). Il lavoro citato del Lanson fa parte della Collection des Grands Écrivains, Parigi 1892. Tra i numerosissimi saggi ed oltre ai capitoli che gli consacrano i dizionarî biografici (notevole quello del Brunetière nella Grande Encyclopédie) e le storie della letteratura e dell'estetica, meritano di essere ricordati: Boileau bourgeois de Paris di A. Bellessort (Sur les grands chemins de la poésie classique, Parigi 1914, p. 337 segg.) e le fini note di H. Brémond, nei volumi Pour le romantisme (Parigi 1924) e Prière et poésie (Parigi 1926). Cfr. pure A. Albala (Parigi 1929). Per gli echi del B. nella letteratura inglese v. J. G. Robertson, Studies in the Genesis of Romantic Theory in the eighteenth century, Cambridge 1923, cap. xi, e soprattutto A. F. B. Clark, B. and the French classical critics in England (1660-1830), Parigi 1925. Per la Germania cfr. Wiebmann, L'art poétique de Boileau et celui de Gottsched, Berlino 1879; F. A. Geissler, Die Theorien Boileaus, Lipsia 1909. Quanto alla fortuna dell'opera del B. in Italia ed ai rapporti del poeta con la nostra letteratura, cfr. G. Maugain, Boileau et l'Italie (3° opuscolo della Collection d'opuscules de critique et d'historie de la Bibliothèque de l'Institut français de Florence), Parigi 1912. All'elenco di versioni italiane ivi contenuto a pp. 55-59, è da aggiungere, tra l'altro, la traduzione del Lutrin data da A. De Paris Lanciano (1926). Da notarsi pure che l'anonimo autore della versione del Lutrin pubblicata nel 1782 (Il leggio, poema eroicomico del signore Boileau Despréaux dall'idioma francese trasportato nell'italiano da un pastore delle isole Bolinetiche) è l'abate Niccolò Tassi fiorentino. Per i rapporti tra il B. e l'Italia, si veda anche F. Neri, Gli studi franco-italiani nel primo quarto del secolo XX, alla voce Boileau.